Rino Fisichella. Idee e impegno per la nuova evangelizzazione

A colloquio con il presidente del neonato organismo vaticano, l’arcivescovo Rino Fisichella, che racconta i primi passi del Pontificio Consiglio, «il frutto più maturo del Concilio Vaticano II».
25 Maggio 2011 | di

Entrando nell’ufficio di monsignor Rino Fisichella, collocato nel contesto del nuovo Pontificio Consiglio e con le finestre su via della Conciliazione, si ha la netta impressione di trovarsi in un cantiere che si sta attrezzando. I muri sono ancora bianchi e lo stemma episcopale con la scritta Viam veritatis elegi («Ho scelto la via della verità») è appoggiato al pavimento. Sull’unico mobile pochi libri, un crocifisso e un’icona di Maria. Una partenza leggera, ma per andare lontano, perché c’è grande attesa nei confronti di uno slancio di Chiesa – quello della nuova evangelizzazione – che muova i cristiani a vivere e annunciare con coerenza il Vangelo.

Msa. Giusto un anno fa, il 28 giugno, ai primi vespri della solennità dei santi Pietro e Paolo, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, papa Benedetto XVI annunciava la nascita di un nuovo organismo vaticano, il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Da poco venuto al mondo, il neo-­nato cammina di già? E come?
Fisichella. Sì, è davvero un neonato, di circa otto mesi di vita. A fine giugno 2010 il Papa lo aveva annunciato. Poi però di fatto il Pontificio Consiglio è stato istituito il 21 settembre scorso, festa – anch’essa significativa – di san Matteo, apostolo ed evangelista. Benedetto XVI ha firmato in questa data la lettera apostolica Ubicumque et semper che aveva da una parte l’obiettivo di tracciare il cammino del Pontificio Consiglio, e dall’altra di dargli giuridicamente le competenze come organismo della Santa Sede. In realtà, poi, il documento è stato reso pubblico il 12 ottobre: ecco spiegato perché abbiamo solo otto mesi di vita. Pochi, ma davvero intensi, soprattutto nel verificare la grande attesa nei confronti del dicastero. Solo stamattina ho salutato più di una trentina di preti dalla Francia, che stanno compiendo un percorso di formazione permanente; poi ho incontrato alcuni frati minori con dei giovani dall’Inghilterra. In questi mesi è stato un continuo venire a conoscenza di movimenti, associazioni, attività, vescovi. Un’attesa incredibile da diverse parti del mondo, segno che quest’aspettativa è reale, e che il Papa ha individuato un punto fondamentale su cui collocare l’impegno della Chiesa nei prossimi decenni.

Come si è arrivati a dare vita al nuovo organismo?
A me piace vedere l’istituzione del Pontificio Consiglio come il frutto più maturo del Concilio Vaticano II, di cui nel 2012 festeggeremo il cinquantesimo anniversario. Basta prendere tra le mani il discorso di apertura, Gaudet  Mater  Ecclesia. Studiandolo da teologo risaltava un significato, ma rileggerlo ora alla luce del nuovo impegno è un’altra cosa. Già in quell’occasione Giovanni XXIII annunciava l’obiettivo del Concilio, cioè incontrare l’uomo contemporaneo e usare con lui un linguaggio che rendesse accessibile l’annuncio di Gesù Cristo. Dopo una decina d’anni ecco il Sinodo dei vescovi e la Evangelii nuntiandi (1975) di Pao­lo VI. E poi arriva Giovanni Paolo II che all’improvviso – nessuno si aspettava questa espressione – incomincia a parlare di «nuova evangelizzazione»: siamo nel giugno del ’79, la sua prima visita in Polonia. Infine c’è Benedetto XVI che istituisce il Pontificio Consiglio. Come a dire: bene, finora abbiamo parlato, riflettuto, ma adesso la Chiesa si attiva. Io avverto che tutti questi fatti sono collegati. Quante volte nel Vangelo si legge: «Poiché era sommo sacerdote, profetizzò che…». Intendo dire: ci sono intuizioni davvero profetiche della cui portata nemmeno chi le propone si rende bene conto. Eppure determinano il futuro, poiché sono impregnate dell’azione reale dello Spirito.

In quei primi vespri di fine giugno il Papa disse: «Anche nei deserti del mondo secolarizzato, l’anima dell’uomo ha sete di Dio e del Dio vivente». Oggi a mancare è più la sete o l’acqua capace di dissetare?
Io risponderei che mancano ambedue. Innanzitutto non dimentichiamo che il richiamo ai deserti è un’idea costante di Benedetto XVI. Nel suo primo discorso, nell’omelia della messa del 24 aprile 2005 con la quale dava inizio al suo ministero petrino, il Papa già usava questa espressione, ed elencava anche diversi deserti presenti nella cultura contemporanea e nelle nostre società. Sono presenti nella storia perché di fatto a essere in crisi è l’uomo. Noi pensiamo sempre alla crisi economico-finanziaria, quella che ogni giorno i media raccontano e che le persone vivono sulla propria pelle. Però la crisi è in primo luogo antropologica, dell’uomo che è disorientato, ha paura, non vede più obiettivi da raggiungere. Quindi certamente c’è una situazione di deserto, ma è anche vero che, a volte, chi dovrebbe portare acqua, o ha scordato gli strumenti per poter attingere al pozzo o è sfiduciato egli stesso. Non dimentichiamo che la Chiesa è composta di uomini e donne che vivono la stessa identica realtà di ogni altro uomo e donna. Non siamo realtà «altra» rispetto a questo mondo: respiriamo la stessa aria culturale, abbiamo gli stessi problemi, angosce, desideri e aspirazioni, quindi è inevitabile che anche noi siamo vittime, per molti versi, di quella teorizzazione del pensiero debole che ha reso tanta gente sfiduciata, incapace di riconoscere la ricchezza che ha tra le mani.

Quale nome dare a questa ricchezza?
Io penso in primo luogo alla ricchezza della Parola di Dio. Purtroppo abbiamo statistiche allarmanti da questo punto di vista, perché i nostri cristiani ascoltano la Parola di Dio quell’unica volta che vanno a Messa la domenica. È minima la percentuale di quanti – parlo non solo dei cattolici, ma dei cristiani in genere – prendono tra le mani la Bibbia. Siamo in un periodo storico in cui c’è una profonda ignoranza sui contenuti fondamentali della fede. È sufficiente vedere i quiz in televisione: credo che si mettano volutamente domande religiose, perché sul tema il giocatore cade. Anche sui quesiti più facili c’è un’ignoranza straordinaria.
Pensiamo all’anno prossimo: oltre ai cinquant’anni del Vaticano II, saranno i vent’anni del Catechismo della Chiesa Cattolica, voluto insistentemente dai vescovi come frutto del Concilio. Che ne è di questo strumento? Che ne è di una catechesi continuata, quindi di una vera formazione? Allora è inevitabile che anche chi deve portare acqua, a volte, manchi dei mezzi. Però non deve venir meno la fiducia nell’azione dello Spirito: dobbiamo anche guardare a tanta ricchezza di esperienze che la Chiesa sta oggi vivendo.

Eccellenza, ci parla del suo compito nel ruolo che le è stato attribuito, anche secondo le intenzioni del Pontefice?
Il Papa mi ha affidato un incarico realmente impegnativo. Non so quanto avrò la capacità di realizzare i suoi desideri. Però è sufficiente ascoltare i suoi discorsi per comprendere quanto sia ben preciso, nella mente di Benedetto XVI, il compito della nuova evangelizzazione. Chiaramente da una parte entra il grande discorso della consapevolezza della Chiesa di non venire meno all’azione missionaria, e quindi in primis bisogna risvegliare il senso missionario nei credenti. Ma questo è consequenziale anche alla riscoperta del tema della verità. Credo non ci sia discorso di Benedetto XVI senza un richiamo forte a questo argomento. Dobbiamo essere capaci di restituire un’identità forte ai cristiani, facendoli incontrare con la verità di Gesù Cristo, che non è una verità teorica, né astratta, né matematica: è invece la verità sul senso della vita. È inevitabile, allora, che si debba compiere uno sforzo immane davanti a una condizione culturale che non ama l’incontro con la verità: probabilmente lo desidera, ma non lo ama. O comunque pensa che sia una verità non raggiungibile, e così favorisce quelle situazioni di indifferenza di cui è vittima l’uomo d’oggi.
Il tema della verità, poi, richiama il senso di appartenenza alla Chiesa. Non si può avere un’identità forte prescindendo dall’appartenenza alla comunità cristiana, ma non si può neppure pensare di appartenere alla Chiesa in forza di un battesimo ricevuto o di una condizione anagrafica, senza sentire anche il forte desiderio di un’identità che dev’essere costruita.

Prima lei ricordava Giovanni Paolo II, che ha coniato il neologismo «nuova evangelizzazione»: uno dei problemi di questa espressione, però, è il genericismo con cui è utilizzata. Anche il linguaggio dei Lineamenta non è sempre coerente. Che cosa dobbiamo intendere per «nuova evangelizzazione»?
Una delle prime iniziative che ho realizzato nei mesi scorsi è stata quella di mettere intorno a un tavolo diversi esperti – storici, teologi, catecheti, pastoralisti, uomini, donne, religiosi – proprio per studiare l’espressione «nuova evangelizzazione». Perché il pericolo di una formula dove si può mettere tutto e il suo contrario, è reale e va evitato fin da subito.
I Lineamenta sono stati anche a noi proposti dalla Segreteria generale del Sinodo, perché sono usciti in novembre, quando il Pontificio Consiglio di fatto non esisteva ancora. È vero che in quel documento ci sono molte e differenziate espressioni che riportano alla nuova evangelizzazione: ciò è dovuto probabilmente al fatto che i Lineamenta sono un primo documento per consentire la discussione, quindi anche per far comprendere che bisogna focalizzare al meglio questa espressione. Io penso che dovremmo muoverci su un percorso di chiarificazione che faccia comprendere, innanzitutto, che «nuova evangelizzazione» significa ciò che il termine stesso dice, ovvero che dobbiamo portare il Vangelo di Gesù Cristo in una maniera nuova, sempre annunciando Gesù Cristo.

Chi sono i destinatari?
La nuova evangelizzazione, in primo luogo, non si occupa di dare dimostrazioni dell’esistenza di Dio o di creare strutture di dialogo con i non credenti. Non è il nostro compito. Noi ci rivolgiamo in modo particolare a coloro che sono credenti e che hanno perso l’identità credente. Ci rivolgiamo innanzitutto ai battezzati perché sono quanti avviciniamo ogni giorno, per dare loro la consapevolezza della responsabilità che possiedono nel portare il nome cristiano. La nuova evangelizzazione, allora, è comprendere che Gesù Cristo – per usare l’espressione della Lettera agli Ebrei – è lo stesso, ieri oggi e sempre. È Lui che ci ha rivelato il vero volto del Padre. Gesù Cristo è il rivelatore ultimo del mistero della Trinità, ovvero di quello che è «il» mistero della fede cristiana.
Il nostro percorso non è quello che, ad esempio, viene perseguito dal Pontificio Consiglio della cultura con l’iniziativa del Cortile dei gentili. Noi abbiamo un altro destinatario e di conseguenza un percorso differente da fare. La nuova evangelizzazione, a mio avviso, dovrebbe muoversi su quella che è la logica della fede.

In qualche modo, quindi, il vostro compito è ritrovare quei cristiani la cui fede si è, a un certo punto e per mille motivi, illanguidita. Riconoscendo il fatto che rianimare la fede di ex cristiani è alquanto arduo.
Certo, perché si tratta di riportare alla consapevolezza della responsabilità della fede, e di essere credenti nell’oggi. Ecco perché la nuova evangelizzazione, seguendo la logica della fede, diventa annuncio, liturgia e testimonianza della carità. Questi elementi non possono essere scissi, perché costituiscono la realtà della Chiesa e la sua missione nel mondo, che non è soltanto annunciare Gesù Cristo, ma è anche pregare e vivere del Vangelo di Gesù Cristo. La lex orandi e la lex credendi camminano di pari passo. Penso ad esempio a quante occasioni abbiamo celebrando la liturgia. Penso a battesimi, prime comunioni, cresime, funerali. Penso alla mia esperienza: quante persone incontro in queste circostanze particolari! Sono credenti, ma non hanno più sentito annunciare e pregare Gesù Cristo. Quante volte, terminate le funzioni, alcune persone sono venute a ringraziarmi, per dirmi il loro desiderio di riprendere il filo della fede, perché provocate da un passaggio dell’omelia o da una celebrazione ben compiuta. La responsabilità – in questo caso dei sacerdoti – è davvero grande.

Ci sono altri ambiti privilegiati di intervento?
Oggi la patologia presente nel mondo tocca la cultura, e quindi la cura deve essere data all’interno della cultura stessa. Non posso proporre medicine estranee alla patologia. Ne consegue che la nuova evangelizzazione deve essere anche lo sforzo per far comprendere i limiti di questa cultura e la via per uscirne, offrendo la possibilità – se non di cambiarla – almeno di orientarla. Perché in fin dei conti la nuova evangelizzazione c’è sempre stata. Si chiamava semplicemente «evangelizzazione», e ha significato entrare nelle culture, conoscerle, comprenderle, verificarne gli aspetti positivi e i limiti, e poi orientarle, trasformarle.

A ottobre 2012 ci sarà il Sinodo dei vescovi. Quali sono le aspettative? Come le comunità cristiane possono prepararsi a questo evento?
Innanzitutto prendendo tra le mani i Lineamenta, lo strumento adatto perché tutta la realtà ecclesiale, nelle sue diverse espressioni, possa comprendere che cosa sarà il Sinodo e quindi offrire il proprio contributo. So che non è facile, per i ritmi e le molteplici scadenze della pastorale, però questa volta la sfida è diversa. Se la pastorale ritorna a capire che il suo fondamento e obiettivo è la nuova evangelizzazione, allora ci si immetterà in un cammino di responsabilità comune. Altrimenti temo che rincorreremo ancora la frammentarietà della cultura di oggi, senza arrivare però a una vera efficacia della nostra azione pastorale.
 
 
Sinodo
I Lineamenta sono il primo documento preparatorio della XIII Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi (7-28 ottobre 2012). Si tratta di un testo «aperto» e da discutere.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017