Serenità contagiosa

15 Dicembre 1998

Da molto tempo, quando mi incontrava, la mia ex collega di lavoro mi invitava a farle una visita a casa sua, dove vive insieme con due sorelle, una delle quali, purtroppo, colpita, alcuni anni fa, da un ictus cerebrale che l'ha resa inferma.

Era un pomeriggio di novembre quando, finalmente, ho suonato il campanello della sua villetta. Pensavo di trovarla in un angolo a compiangersi o a rimpiangere i tempi in cui stava bene. Invece, appena mi aprirono la porta fui colta da un frastuono di festa: un nutrito gruppo di anziane, ma arzille e allegre signore, stavano festeggiando l'amica che se ne stava in mezzo a loro seduta sulla sua poltrona. Nulla in lei che esprimesse rammarico o fastidio. Fresche risate, atmosfera distesa mi fanno pensare che si può essere felici anche compiendo settantacinque anni, con metà  corpo che risponde a fatica ai tuoi comandi, se attorno a te ci sono tanti amici che ti vogliono bene. È così che ho conosciuto la signora Teresa...

È molto felice della mia visita e quando le amiche se ne vanno, rimango ancora a conversare con lei per un'ora, e non mi accorgo del tempo che passa; ascoltandola, un senso di serenità  e di pace mi pervade rendendo raggiante questa grigia giornata autunnale.

Mi racconta della sua vita passata, ma anche di quella presente che sta vivendo serenamente, grazie alle cure amorevoli e alla dedizione dei familiari, delle sorelle anzitutto, ma anche dei nipoti. E si ritiene... fortunata perché la malattia le impedisce solo di muoversi lasciandole integri il pensiero e la parola.

«Questa serenità  - mi dice - non è un dono innato né io sono sempre 'brava', come oggi, nel vedere tutto positivo, perché di carattere sono piuttosto pessimista, ma, con un certo sforzo della volontà , con l'assidua pazienza e con la fantasia di chi mi sta accanto, ogni giorno diventa speciale, come questo mio settantacinquesimo compleanno».

Teresa parla volentieri, la sua bella voce modulata mi comunica un senso di conforto e di tranquillità .

È ora che rincasi. Ero andata per confortare, per riempire momenti di solitudine - così credevo - di una persona anziana e malata e, invece, ne esco io più forte. Che fortuna ho avuto, oggi, a incontrare la signora Teresa.

Non credo nel valore della sofferenza

«Io non credo nel valore della sofferenza. A me la malattia ha provocato solo guai, tristezza, angoscia, voglia di farla finita. Non so come altri facciano a dire che la sofferenza può diventare un mezzo per amare, per salvare... ». Antonio R. - Catania

La sofferenza è come l'acqua, assume la forma del recipiente che l'accoglie. C'è chi per essa si dispera, chi si crea una propria filosofia e si rassegna, chi la tramuta, appunto, in un mezzo per amare e salvare. Come fa? Lasciamolo dire a chi ha saputo fare questo passo. L'amico è Luigi Rocchi (è in corso la causa di beatificazione), immobilizzato a letto. Fu un amico - ha raccontato - a fargli capire e a fargli scoprire che «quello che guasta davvero un uomo, che riduce la sua dignità , non è la malattia, ma la sterilità  di certi dolori arrabbiati e piagnucolosi o pieni di invidia per il prossimo. Mi fece capire che uno può camminare benissimo, essere fortissimo e pieno di salute, ma essere soltanto una caricatura d'uomo. Mentre un altro può essere pienamente uomo anche se è costretto all'immobilità  fisica o, addirittura, ridotto da parere uno sgorbio d'uomo.

Fu lui a farmi capire che la vera disgrazia di un uomo è chiudersi nella propria sofferenza, pensare solo al proprio dolore chiudendo gli occhi e il cuore alla sofferenza degli altri uomini e non facendo nulla per loro.

Allora, decisi di dimenticarmi e dimenticare le mie sofferenze pensando alle sofferenze degli altri. Vidi bene che il mio vero male non era quello che mi impediva di muovermi fisicamente, ma quello che mi impediva di muovermi in soccorso degli altri».

   
   

   

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017