Solidarietà sulla giusta frequenza
«Sei al mare a goderti la tua breve vacanza? Oppure non riesci a staccarti dalla città neanche ad agosto? Io la mia estate la passo al “Gran Ghetto” a Foggia, dove vivo in baracca per raccogliere pomodoro per la tua insalata e per il tuo ragù. Chiama la radio e parla con noi in diretta!».
La musica di sottofondo è africana, fresca e piacevole, l’atmosfera trasmessa da «Radio Ghetto» gioiosamente esotica. Siamo nel «Gran Ghetto» di Rignano Garganico (FG), baraccopoli di ruralità degradata il cui sfacelo condisce occultamente le nostre tavole. Lo speaker-bracciante Saman ha conosciuto la parola «pomodoro» quand’era ancora in Mali, prefigurazione di un futuro sfruttamento lavorativo nelle campagne italiane, precisamente pugliesi. Qui batte il cuore produttivo di un business che vede l’Italia in pole position mondiale: la trasformazione dei pomodori. «Oro rosso sangue nero»: Saman non immaginava che avrebbe dormito in un ghetto, anche perché nel continente nero quando si parla dell’Italia si pensa a vestiti e stilisti. «L’emigrante parte con l’idea di andare in un Paese grande, sviluppato e finisce in queste condizioni...».
In quali condizioni ce lo spiega Giovanna Gagliardi, ventiseienne di Napoli, laureanda in Lingue e civiltà orientali. La sua esperienza di volontaria a Radio Ghetto inizia l’estate scorsa, alle spalle un impegno nel sociale con l’associazione «Garibaldi 101» e tante lezioni di italiano agli immigrati. «La prima impressione nel Ghetto è stata fortissima – racconta la giovane volontaria –. Le baracche sono di cartone rivestito di plastica, un po’ di legno e qualche lamiera. Non c’è acqua corrente né fognature. Per strada, tra l’immondizia, ci si può imbattere in qualcuno che sgozza una pecora, e in effetti questa è stata la prima cosa che ho visto...».
Sospeso tra un’oscura fantasia onirica e una carnalità esasperata dal caldo torrido, dalla polvere e dalla mancanza di servizi basilari, il Ghetto sembra non esistere e in effetti «non esiste niente, neanche un indirizzo». Difficile anche fare una stima degli abitanti, il cui numero è stato infoltito dalla crisi. «Molti immigrati sono stati spinti nelle campagne del Mezzogiorno dalla chiusura di fabbriche del Nord, per cui oggi il Ghetto ospita oltre 1.500 persone, la maggioranza delle quali in possesso di regolare permesso di soggiorno». Con l’espansione demografica è sorta un’economia «informale» che ha il suo fiore all’occhiello nel «ristorantino»: meno di un paio d’euro il costo per un piatto.
Una storia che nasce lontano Non si sa con precisione quando sia nato il Ghetto, forse una decina di anni fa, ma prima che si costituisse la baraccopoli già si viveva qui, nelle case coloniche della riforma agraria del dopoguerra. La radio è arrivata nel 2012, sull’onda dello sciopero del 2011 di Nardò, in Salento, che ha portato alla prima legge contro il caporalato, la 138/2011. Dall’incontro di due percorsi (quello dei partecipanti allo sciopero di Nardò e quello dell’Assemblea dei Lavoratori africani di Rosarno, in Calabria, costitutasi nel 2010) nasce l’importante esperienza della «Rete campagne in lotta», sotto la cui egida parte «Radio Ghetto Voci Libere». Quasi naturalmente, un pomodoro ne diventa il simbolo.
«Mi sono ritrovato in quel bellissimo fermento quasi per caso – racconta Marco Stefanelli dell’agenzia radiofonica indipendente “Amisnet”, dedicata alle storie escluse dai media tradizionali –. Stavo scrivendo una tesi in Storia contemporanea sulle radio libere degli anni Settanta e un amico mi parlò di Radio Ghetto». Oggi Marco è l’unico volontario rimasto dal primo anno: essendosi divise le strade della radio e della rete, il venticinquenne di Crotone porta informalmente il peso della riapertura delle trasmissioni ogni estate. «Ma non sono un responsabile, sono un volontario come tutti, anche perché qui non esistono gerarchie», chiarisce Marco, che parla di Radio Ghetto come di un «flusso di coscienza».
«La vita della radio segue infatti quella che è la vita del Ghetto. Si parte alle 11.00 di mattina, quando nella baraccopoli rimangono solo le persone che non sono andate a lavoro. In genere sono i nuovi arrivati, che hanno meno agganci, ed è una buona occasione per conoscerli: “Da quanto tempo sei qui?”, “Come mai non sei a lavoro?”, e si comincia a formare la redazione, composta dai braccianti, perché la radio è loro... Noi siamo solo l’innesco, dei facilitatori». Nelle ore di punta la radio subisce la stessa calura che spossa il Ghetto: i 40 gradi all’ombra e la polvere seccano la gola, meglio allora sostituire le voci con la musica. Di pomeriggio si leggono e commentano i giornali del mattino, poi viene il momento clou: esibizioni rap e freestyle dei braccianti, la cui predisposizione musicale ha stimolato la nascita di un concorso periodico con tanto di giuria, selezionata in loco.
Poi si chiude baracca (quella dov’è allestita la radio). Anche perché il Ghetto di notte cambia completamente faccia. Dal nulla compaiono luci e discoteche, prostitute e clienti italiani (assieme alle ristoratrici sposate, le prostitute sono le uniche donne nel Ghetto). «Sembra di stare in uno strano luna-park, povero e inquietante – commenta Giovanna –. Ciononostante non mi sono mai sentita in pericolo, perché dietro l’apparenza a tratti orrenda c’è una solidarietà incredibile, e i volontari della radio vengono accolti in maniera straordinaria. L’umanità è un valore fortissimo in questo degrado». Il minimo della civiltà e il massimo dell’umanità? «È anche un’esigenza – spiega Marco –. Noi deleghiamo tutto, anche la nostra incolumità. Nel Ghetto le forze dell’ordine non arrivano. Doversi occupare in prima persona e collettivamente della propria sicurezza restituisce un senso di comunità che in Italia abbiamo perso».
Una forma di rispetto e identità messa in onda dalla radio. Le trasmissioni principali sono due, «Radio Ghetto Italia» e «Radio Ghetto Africa», che, a differenza del resto della programmazione, travalicano i confini della baraccopoli. La prima viene ritrasmessa da una serie di radio italiane comunitarie, ovvero radio senza scopo di lucro, a carattere culturale, etnico, politico o religioso.
«Radio Ghetto Africa» viene invece ritrasmessa in Marocco e Senegal. «Ma stiamo prendendo altri contatti, ad esempio in Burkina Faso – garantisce Marco –, per far conoscere la realtà del Ghetto e stimolare un confronto ad ampio raggio». Perché anche il problema è ad ampio raggio: prima che i prodotti italiani e cinesi invadessero i mercati africani senza regole, molti braccianti dei ghetti italiani lavoravano come agricoltori nei propri Paesi d’origine. I pomodori freschi locali non hanno retto la concorrenza di alcune passate italiane in scatola, condite da sovvenzioni europee e lavoro nero. «Così molti agricoltori africani oggi lavorano in Italia, per il sistema economico che ha distrutto il loro – nota Giovanna –. Alcuni si vergognano di parlare alla radio, per paura che i parenti sappiano dove sono finiti». Guadagnano 3 euro a cassone, ovvero ogni 300 chili di pomodori raccolti, ma 5 euro vanno al «capo nero» che accompagna i braccianti a lavorare. «Il discorso va oltre l’immigrazione – sostiene Marco –. Lo sfruttamento riguarda una buona parte del mondo del lavoro italiano. Colpito questo sistema iniquo, il Ghetto si chiuderà da solo».
Contestualmente, andrebbe riattivato, sempre secondo Marco, il sistema di trasporto rurale attualmente sostituito dalla macchina del capo nero. La «Ciclofficina» del Ghetto, per la riparazione delle biciclette, ha proprio il fine d’incoraggiare una mobilità indipendente. È una delle iniziative del campo «Io ci sto», animato da padre Arcangelo Maira dei Missionari scalabriniani, famiglia religiosa che ha fatto proprio l’invito evangelico «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Anche la strumentazione della radio deve molto a «Io Ci Sto», uno dei principali partner di Radio Ghetto assieme all’agenzia «Amisnet» e alla radio valdese «Beckwith».
Grazie a questa sinergia di solidarietà sulla giusta frequenza, e a tutti i volontari che collaborano con l’una o l’altra realtà, Radio Ghetto continua a sfornare ore di trasmissioni nelle lingue più disparate, dal francese al bambarà, dal pular al mandinga passando per l’inglese, il wolof e l’arabo.
«Se il Ghetto ci isola, la Radio ci unisce», recita lo spot realizzato dai braccianti, che in una prigione di terra possono coltivare uno spazio libero in cui dibattere e rilassarsi, scherzare, arrabbiarsi ma soprattutto immaginare alternative possibili. «Quando manca una reale volontà istituzionale di affrontare la situazione, bisogna cominciare a cambiare le cose “dal basso” – afferma Giovanna –. Nel Gran Ghetto, e in altre realtà simili, sono stati avviati progetti per la trasformazione del pomodoro in una “salsa etica”, che garantisca qualità e giustizia sociale». Come ricorda il logo di Radio Ghetto sta anche a noi, con le nostre scelte quotidiane, trasformare quello che è divenuto (suo malgrado) un simbolo di oppressione e sfruttamento nel frutto saporito della condivisione.