Verona 2006: occhi sugli orizzonti
Non è una novità rilevare che molti documenti ecclesiali sono di difficile lettura e di non immediata comprensione. Dicono e non dicono. Come ad esempio quelli che cercano di offrire un’interpretazione della società complessa dei nostri anni. Dopo un elenco dettagliato di tendenze negative, centrifughe rispetto al cristianesimo o almeno dal carattere ambiguo, presentano un elenco altrettanto preciso di opportunità per la fede. Da una parte si mostra il volto di un cristianesimo debilitato, in lenta ma progressiva recessione e dal futuro incerto, e dall’altra si individuano segnali incoraggianti e percorsi da svolgere in positivo. La percezione a pelle, però, registra prevalentemente il negativo.
Così scrive un noto teologo italiano, Luigi Sartori: «Da anni meditiamo sulla missionarietà della chiesa, una chiesa che guarda fuori, guarda gli altri, guarda il mondo. […] Si parla di comunicare, testimoniare la fede, ma in realtà predomina un certo pessimismo. […] Oggi bisogna offrire la fede, sperando come quando si getta un seme. Ma questo tipo di speranza non appartiene alla nostra esperienza». Il che vuol dire che facciamo fatica, come cristiani, a metterci in linea con la speranza che abbiamo il compito di annunciare, e che questo tempo di prova sta sempre più mettendo a nudo la nostra fede, sferzandola con i colpi bassi dell’indifferenza e della banalizzazione.
Ma vale la pena di fermarsi sull’immagine del contadino che dispensa pazientemente e con mano larga la semente, quasi non distinguendo i terreni, e questo non a motivo di una superficiale generosità o di una personale propensione allo spreco, ma per la grande fiducia nella forza che si trova concentrata nel piccolo seme. I terreni sono per lo più inospitali, quasi ostili, non c’è che dire; ma tutto ciò sembra non scuotere più di tanto l’incrollabile fiducia che lo strano contadino di evangelica memoria (cfr. Mt 13,3-9) dimostra con i fatti. Alla fine sarà il seme stesso, con la sua presenza e vitalità, a bonificare i terreni!
Oggi, però, quanti sono i cristiani che giudicano il proprio tempo come tempo di semina, di annuncio, di nuovo inizio, di rifioritura missionaria? A me pare che il troppo tiepido appassionarsi dei cristiani per l’annuncio della «buona notizia» e gran parte dell’insuccesso delle stesse pratiche di evangelizzazione siano dovuti all’alto tasso di sfiducia nella forza del Vangelo e quindi nella sua capacità di provocare e di coinvolgere. «Non c’è niente da fare», si pensa con rassegnazione, imputando l’incepparsi della comunicazione della fede e il ristagno del suo annuncio alla negatività dei tempi e all’indisponibilità dei cuori. Che è poi il modo migliore per negare ogni chance al Vangelo, poiché si disinnesca la sua carica propositiva quando, anche solo implicitamente, lo si considera come merce di poco pregio e a pochi appetibile.
Su questo sfondo, realistico anche se un po’ forzato per meglio comprendere le coordinate della situazione contemporanea della fede in Italia, non resta che attendersi dal Convegno di Verona, ormai alle porte (16-20 ottobre), una vera e propria iniezione di fiducia, un colpo d’ala che comunichi speranza alla vita della Chiesa, ma anche alla vita sociale e politica nel nostro Paese. C’è davvero bisogno di alzare la testa, insieme, e di puntare gli occhi sugli orizzonti, abbandonando ognuno i propri piccoli e personali oblò di speranza. La Chiesa italiana tutta si riunirà nella città scaligera (dopo Roma 1976, Loreto 1985, Palermo 1995) per la quarta volta dall’evento decisivo del Vaticano II, in un momento delicato e di inedita complessità, carico di aspettative per una nuova e credibile sintesi tra fede e vita, tra volto privato e volto pubblico del credere, tra spiritualità e agire sociale, tra ascolto della storia e annuncio coraggioso della parola che salva. Guardiamo avanti, dunque, con speranza!