Vita come vocazione
«Che cosa hai tu che non abbia ricevuto?». Dobbiamo ammettere che la domanda, a bruciapelo, di san Paolo ai fedeli di Corinto spiazza anche noi oggi, con la forza di un’evidenza inattaccabile. Tutto ciò che è decisivo per l’uomo (la vita, lo sposo, la sposa, il figlio, il battesimo, la vocazione…) ha questo carattere di dato, di dono. Incomincia da un ricevere.
E ne sappiamo anche la ragione. L’abbiamo detta fin dal primo articolo, richiamando la Lettera di san Giovanni: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi». Sempre un amore ci precede e ci accompagna. Dietro alle cose che capitano, alle circostanze e ai rapporti che formano il tessuto della realtà di ogni uomo, non c’è un Motore immobile che, dopo aver dato il via all’immensa macchina del mondo, si ritira nella sua imperturbabile indifferenza, né un Caso capriccioso e beffardo, ma un Padre che «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito… perché il mondo si salvi per mezzo di lui».
Per questo – non mi stanco di ripetere ai giovani – è tutta la vita a essere vocazione. Poi, all’interno di questa che è la questione decisiva, lo stato di vita a cui ciascuno è chiamato – matrimonio indissolubile o verginità per il Regno – si imporrà con semplicità e chiarezza, nella pazienza del tempo e nella fedeltà alla vita della comunità ecclesiale in cui il Signore ci ha raggiunto e persuaso.
Il Padre ha infatti su ogni uomo un disegno personale e irripetibile che compiendosi lo compie. Alcuni li chiama a imitare alla lettera la modalità di rapporto con persone e cose vissuta da Cristo, anticipando nell’al di qua quella gratuità assoluta che tutti vivremo in Paradiso e di cui affiorano tracce visibili e affascinanti in Sua madre, in san Giuseppe, in san Giovanni... su su fino ai moltissimi che, riconosciuti o ignoti alla storia ufficiale, lungo i due millenni di cristianesimo lo hanno riprodotto nella loro umanità. Quel modo di possedere con un «distacco dentro» che la tradizione della Chiesa ha sempre chiamato verginità.
Ve ne cito solo un paio di esempi presi dai Vangeli.
San Matteo e san Luca, dando conto delle circostanze straordinarie in cui avviene la nascita di Gesù, lasciano trapelare la drammatica prova affettiva cui è sottoposto Giuseppe. Questo giovane uomo innamorato (egli non era certo il vecchietto un po’ dimesso presentatoci da gran parte dell’iconografia popolare, quasi a voler esorcizzare il rischio di ogni capacità generativa!) abbraccia senza riserve, pur non riuscendo a comprenderlo, il destino della sua giovane sposa. Così da Giuseppe – l’uomo obbediente (vir oboediens), secondo l’ineguagliabile titolo attribuitogli dalla Liturgia – nella dedizione gratuita e appassionata a chi gli è stato affidato per la vita, fiorisce una fecondità nuova.
La stessa sperimentata da Maria, ai piedi della croce, quando udì la voce di Suo figlio che le affidava Giovanni: «Donna, ecco tuo figlio». Da quel momento memorabile – narra l’Evangelista – «il discepolo l’accolse con sé». Immaginiamoci come Giovanni – dopo essersi sentito dire da Gesù: «Ecco tua madre» – avrà guardato Maria, e come Maria avrà trattato Giovanni, dopo quell’invito: che potenza di affezione e che potenza di verità in quell’affezione! Che purificazione profonda e radicale della possessività della carne e del sangue in un legame non fatto di dominio – volontà di potenza e seduzione –, ma di pura, gratuita accoglienza dell’altro!
Siamo ora in grado di comprendere che la circolarità degli stati di vita sulla base della carità, l’amore che supera ogni cosa, è essenziale per la vita di ogni comunità cristiana.