Dossier società. Fattore fiducia, questione di futuro

Una vita buona contempla tra i suoi ingredienti principali una giusta dose di fiducia. Ricevuta e donata con generosità, anche quando i margini del positivo sembrano assottigliarsi fino a sparire. Una strada diversa non c’è.
26 Marzo 2013 | di

Quanta fiducia c’è in una nostra giornata? Più di quanta pensiamo. Anche alzarsi dal letto al mattino chiede di riporre un minimo di fiducia in ciò che di buono potremmo combinare nel corso del giorno. Scendere in strada, mescolarsi tra la gente, significa comunque avere una ragionevole fiducia che non ci accadrà nulla di male. Mettersi alla guida presuppone la fiducia nella capacità personale di saper dominare il mezzo, e la fiducia che pure gli altri autisti condurranno la quattro ruote di loro competenza secondo le norme del codice stradale.

Quando poi si sale su un mezzo pubblico, ci si affida allo sconosciuto autista del bus, al taxista, al capitano della nave. Per non dire del pilota dell’aereo, al quale addirittura (vezzo tutto italiano) si tributa talvolta un applauso al completamento delle manovre di atterraggio.
Perfino sedersi a un qualsiasi ristorante esige fiducia: mangiamo quanto il cameriere ci mette a portata di forchetta nella convinzione che il cibo sia commestibile e pulito. E magari abbiamo scelto il locale dando credito al consiglio di un sito web dove un emerito sconosciuto ha assicurato che lì si mangia bene. Curiosa anche la fiducia alla base della nostra economia. Da dipendente, confido che a fine mese il datore di lavoro depositi una certa somma in un conto corrente gestito da una banca – di cui conosco il nome e forse un paio di cassieri – alla quale ho affidato tutti i miei risparmi. E ho altrettanta fiducia nel fatto che con un pezzetto di plastica munito di banda magnetica (il bancomat) posso prelevare alcuni biglietti di cartamoneta che, per convenzione, chiunque accetta come forma di pagamento.
Gli esempi tratti dalla vita comune potrebbero continuare a oltranza, elevandosi da questioni spicciole – ma decisive per la nostra quotidianità – a ben più radicali fondamenta. Come la fiducia nella vita, in se stessi e nel prossimo, nei familiari e nel partner, per giungere alla fiducia in Dio. Tirando in ballo parole come futuro, generatività, serenità, speranza, desiderio, gioia. L’idea di fondo è la seguente: una vita buona è un’esistenza che tra i suoi ingredienti principali mette in conto una buona dose di fiducia. Ricevuta, e donata. Perché alternativa non c’è: di sfiducia si muore, facendo avvizzire le nostre risorse interiori migliori.
 
Merce rara quanto necessaria
Il fatto è che parlare di fiducia in Italia in questo momento storico rischia di sembrare cosa da ingenui buonisti o, come minimo, da poco realisti, con la crisi economica e politica che stiamo attraversando.
Ma noi non abbiamo nessuna intenzione di fare la figura dell’orchestrina del Titanic che continua a suonare mentre la nave affonda. Il nostro approccio vuole essere l’esatto contrario: bisogna occuparsene proprio perché è merce rara, da preservare e coltivare.

A sostenerlo è Mauro Magatti, ordinario di sociologia alla Cattolica di Milano, che qualche mese fa ha titolato La poca fiducia è un’emergenza un suo editoriale uscito sul «Corriere della Sera». Nel frattempo, a esclusione della grande ventata di positività offerta dall’elezione di papa Francesco, le cose non sono migliorate. «Sì, purtroppo – dice Magatti –. Il fatto è che, senza la dimensione della fiducia, la vita insieme è impossibile. Ciò vale in famiglia, in ufficio, in società, sui mercati. È una risorsa essenziale che si costruisce nel tempo e che si dissipa rapidamente».

Ma la risorsa «tempo» non è poi sufficiente per ripristinare la fiducia. «Recuperare non è facile – conferma il sociologo –, perché quando la fiducia viene distrutta si innesca una spirale negativa difficile da fermare. Pensiamo alla famiglia: se si produce una rottura tra marito e moglie, poi, per ricostruire la fiducia c’è bisogno di dono e perdono, senza il quale è impossibile combinare qualcosa di buono. Senza dono e perdono ciascuno si trincera dietro i propri interessi e il proprio punto di vista, e tutto diventa difficile. Serve un salto che spezzi la negatività, perché lungo quella strada alla fine perdono tutti». Ma quale processo ci ha portato a questa crisi di fiducia? In proposito lo studioso ha le idee chiare: «Ci siamo lasciati alle spalle una grande fase di espansione, sia economica sia della soggettività, che ha slegato i rapporti interpersonali, indebolendo la fiducia. Allo stesso tempo, ci siamo affidati fin troppo agli apparati tecnici, e in particolare alla finanza. Per il futuro bisogna bilanciare il ruolo della tecnica – che ovviamente è uno strumento prezioso – con altri aspetti, imparando anche da questa crisi che il modo in cui si vive insieme, i valori e i significati che si condividono, il rispetto reciproco e delle norme sono fattori importanti per la qualità della nostra vita».
Nel frattempo, però, dobbiamo fare i conti con un’insicurezza diffusa, che è più che «semplice» sfiducia. Uno dei suoi nomi è certo «disorientamento». Mancano punti di riferimento per comprendere quanto accade. «Le ideologie del dopoguerra – spiega Magatti – consentivano, schierandosi, di abbracciare una rassicurante chiave interpretativa del mondo. La caduta del muro di Berlino ci ha fatto entrare in una fase storica diversa, dinamica e piena di energia, ma che tutti abbiamo faticato a decifrare, e per la quale ancora oggi non abbiamo chiare mappe interpretative. Questo indebolisce tanto la politica quanto il cittadino comune, che si trova sballottato e senza ancoraggi».
 
La paura e la sopravvivenza
La globalizzazione, poi, ci ha messo del suo. Il famoso «battito d’ali di una farfalla dall’altra parte del mondo» può causare la chiusura di una fabbrica da noi. E non sappiamo nemmeno con chi prendercela o come parare il colpo. Chi ha scandagliato le diverse facce della nostra preoccupazione è Ilvo Diamanti, studioso delle dinamiche sociali, opinionista e presidente dell’istituto Demos & Pi, che ha curato il sesto «Rapporto sulla sicurezza in Italia e in Europa», uscito lo scorso gennaio. «È da un po’ di anni che l’insicurezza sfocia in una forma di “paura delle paure”. Le singole paure di per sé sono non dico neutralizzabili, ma almeno controllabili. Ciò succede se riusciamo a dare un nome ai motivi della nostra insicurezza. Il problema è quando le paure si sommano, si incrociano e subentra, appunto, la “paura delle paure”. È un’insicurezza, per dirla con le parole del sociologo Bauman, “ontologica”, perché ha a che fare con il nostro stesso essere. Non funziona nemmeno più il trucco, usato da sempre, di addossare la colpa a dei capri espiatori».

Così, si legge nel «Rapporto», un italiano su due teme la globalizzazione. Mentre ben il 58,2 per cento della popolazione paventa la perdita del lavoro e la disoccupazione, quando ancora nel 2007 questo dato era sotto il 30 per cento. Sembra aver ragione l’antropologo Marc Augé, che nel suo ultimo libro, Les nouvelles peurs («Le nuove paure», ancora non tradotto in italiano), sostiene: «In fondo, se nei secoli scorsi si aveva innanzitutto paura della morte, oggi si ha soprattutto paura della vita». Ma non sarà che i reali motivi di preoccupazione sono sovrastimati? C’è chi lo pensa. E, del resto, che la componente della percezione influisca non c’è dubbio, con i media ansiogeni tra i principali imputati. Tuttavia sottolinea Diamanti: «Il fatto è che se ho paura, ho paura. A fatica si distingue la realtà dalla percezione. Semmai il problema è da che cosa dipende la percezione. In parte contribuiscono i fatti. L’insicurezza aumenta quando constatiamo che la nostra condizione economica peggiora, che diminuisce la capacità di spesa, che la disoccupazione colpisce noi o i nostri cari, e via dicendo. Poi c’è la paura veicolata dai media. E quella prodotta da attori sociali e politici, che alimentano la paura per interessi di parte, cioè per avere più consenso, più voti o più legittimità».

Fatto sta che, tra paura reale e paura percepita, l’Italia si scopre spaventata e poco incline alla fiducia. Anche gli ultimi indicatori lo rilevano. È il caso del «Rapporto Bes 2013», dove la sigla sta per «benessere equo e sostenibile»: un nuovo modo, alternativo al Pil, per misurare il progresso della nostra società. Presentato a metà marzo da Istat e Cnel, contempla anche alcune informazioni sulla fiducia, che è a livelli davvero bassi: solo il 20 per cento degli italiani intervistati dichiara di aver fiducia nelle altre persone, mentre la media dei Paesi Ocse è al 33 per cento, e in Danimarca e Finlandia si raggiunge il 60 per cento. Com’è possibile un divario del genere? Ci offre una risposta Giuseppe De Rita, sociologo e fondatore del Censis: «Noi italiani non siamo più “cattivi” degli altri. È che abbiamo sempre il timore che questi ultimi non rispettino le regole, che ci freghino. Per tornare alla fiducia nelle relazioni sociali, bisogna ristabilire il rispetto delle regole. Altrimenti chiunque sarà sospettabile di averle infrante a suo vantaggio». La sfiducia emerge, nemmeno troppo in filigrana, anche dall’ultimo «Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese». «Negli ultimi tre anni, il problema dell’Italia – argomenta lo studioso – è che la curva è verso il basso, e quindi il meccanismo della psicologia collettiva è di difesa, di sopravvivenza, di gestione dell’esistente, di risparmio più che di investimento. Senza senso prospettico del futuro. È un periodo congiunturale in cui anche la dimensione della fiducia è oggettivamente limitata».

Per risalire la china, sia prima che dopo le recenti elezioni politiche, Giuseppe De Rita ha invocato una dose maggiore di vigore. «Abbiamo detto che il trend congiunturale va verso la sopravvivenza. Bene: sopravvivere vuol dire lottare, ed esige una certa vitalità, psichica e umana. Sopravvive soltanto chi si riposiziona, lasciando almeno in parte la sua vecchia nicchia per trovare una nuova collocazione nella dialettica del mercato, della società, della politica. Questa è la sfida vera dei prossimi anni. Per affrontarla servono due cose. Primo: differire da se stessi, cioè avere il coraggio di diventare diversi. Secondo: il vigore, perché riposizionarsi è modificare se stessi, scoprire nuovi spazi, coltivare pensieri inediti».
 
Motivi di speranza
Coltivare pensieri inediti, di questi tempi, significa anche individuare, nonostante tutto, motivi di fiducia per la nostra società. Di certo la ventata di primavera che il conclave ha regalato – e non solo ai cristiani – è un fatto di speranza riconosciuto da tutti. Lo stesso papa Francesco, affacciandosi dalla Loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro, il 13 marzo, ha esordito usando la parola «fiducia»: «E adesso, incominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi».

Due giorni dopo è stato ancora più esplicito rivolgendosi ai cardinali: «Non cediamo mai al pessimismo, a quell’amarezza che il diavolo ci offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento». Per poi presentare, nell’omelia della messa di inizio del suo ministero, la figura di Abramo, «il quale “credette, saldo nella speranza contro ogni speranza” (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi speranza. Custodire il creato, ogni uomo e ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio».

Anche ai nostri interlocutori sociologi abbiamo chiesto che ci indicassero, al di là delle ristrettezze odierne, tre «segni di speranza» in cui ripongono la loro fiducia.
Mauro Magatti ha risposto: «Nelle nostre società è stato seminato tanto, anche se spesso la pianticella è coperta da rovi e spine. Sono sicuro che questi semi di bene possono costituire tessuto di nuovo futuro. Secondo elemento: la società, nei rapporti sociali, ha fibra resistente. E anche se conta processi di disgregazione, è dotata di risorse che vengono messe in campo come anticorpi per opporsi alle derive peggiori. Nonostante non riescano ancora a essere efficienti, in Italia ci sono tante energie che si muovono nella consapevolezza che il problema è grave e va affrontato. Terzo punto: le donne. Spero e conto che l’emergere della componente femminile nella società, tratto di trasformazione della cultura italiana negli ultimi anni, ci aiuti a ridurre la conflittualità e ad avere più a cuore il tema della fiducia».
Giuseppe De Rita segnala invece altre opportunità: «A darmi ancora fiducia è il territorio. Chi gira l’Italia sa quanto sia fecondo di futuro, molto più del centro, della politica, dei mercati internazionali… Il secondo aspetto, che a qualcuno potrà sembrare una bestemmia: mi dà fiducia il ritorno alla logica del “ci si forma sul lavoro”. La riduzione degli studenti all’università, la constatazione che gran parte dei disoccupati è laureata, la diminuzione degli studi nel liceo classico e il ritorno alla scuola professionale, sono tutti segnali di un’inversione di tendenza che io giudico positiva. È meglio avere qualche perito industriale in più e qualche laureato disoccupato in meno. Infine, ho fiducia nel mondo cattolico. Sono convinto abbia dentro di sé la possibilità di riprendere quel tono profetico che ha abbandonato».

Ilvo Diamanti, infine, punta sulle relazioni personali: «Io ho fiducia… perché ci sono molte singole persone di cui ho fiducia. Pur viaggiando molto, riesco a coltivare la mia rete di relazioni importanti. Sotto questo profilo anche le nuove tecnologie servono, perché mi fanno sentire più in contatto con gli altri anche quando per ragioni diverse sono fisicamente solo. Concludendo, sono convinto che investire in fiducia è necessario per poter vivere. Esiste un istinto di sopravvivenza nell’uomo che lo spinge a cercare una propria cittadinanza, e l’unica cittadinanza che ti possa dare un senso del futuro, di fatto, è proprio la fiducia».
La via è stretta, ma altra non ce n’è.
 
 
Ezio Aceti
Educare alla fiducia
 
«Tutti noi siamo predisposti alla fiducia. Se non lo fossimo, non potremmo né trasmetterla né viverla». Ne è convinto Ezio Aceti, psicologo dell’età evolutiva e autore di decine di libri che aiutano i genitori a interpretare al meglio il loro impegnativo ruolo di «iniziatori» alla vita.

Msa. Dottor Aceti, la fiducia si insegna?
Aceti. Serve una premessa. Quando un bambino nasce ha i cromosomi del papà e della mamma, ma ha anche quelli che io chiamo «i cromosomi di Dio». Uno di questi ci «programma» per l’amore. Ecco la radice grazie alla quale, quando uno ci ama e si fida di noi, aumentiamo in fiducia. Poi, su questa base antropologica, si innesta l’educazione.

In quale modo avviene?
La fiducia si struttura nel primo anno di vita, quando il bambino interiorizza la madre e il suo amore smisurato. Che cos’è questa fiducia? Un’operazione che la mamma offre al piccolo prendendo su di sé la sua ansia e il suo disagio, e restituendogli un’immagine di sé positiva. Si fida di lui, lo sostiene, nonostante il pianto. La fiducia è dare amore senza misura, sapendo che quel figlio è predisposto all’amore. Da qui si costruisce tutto. Ecco perché la prima fase infantile è tanto importante. Ciò però non significa che se un bambino è abbandonato o non accolto non può farcela: riuscirà, ma con più fatica.

Come si evolve la fiducia tra genitori e figli negli anni?
Dobbiamo tenere conto dei tre passaggi di crescita del bambino. Fino ai 7 anni egli è completamente dipendente dal padre e dalla madre. Dopo, il bambino è capace di inserirsi da sé nella realtà, e i genitori devono sostenere questa sua crescita di autonomia. Il figlio deve trarre il nutrimento di stima dentro di sé, in modo tale da arrivare a sentirsi sicuro. Così potrà costruire non solo la sua identità corporea, ma anche quella psichica.

Il terzo passaggio è l’adolescenza. Che cosa si instaura in quel frangente?
È la fase in cui il ragazzo sente che deve arrangiarsi, senza i suggerimenti dei genitori. Non perché vuole loro male, ma perché è la «sua» esistenza. Questo processo può avvenire in modo più o meno traumatico. Se i genitori non sono stati oppressivi, se non pensavano che il figlio fosse di loro proprietà, allora la discussione si mantiene a un livello profondo, bello, anche con tensioni, ma nel rispetto reciproco.

Se invece il ragazzo è stato trattato fino a quel momento come un bambino piccolo (è il dramma di oggi), strappa, si ribella, se la prende soprattutto con la madre. Quando sorgono drammi simili, in fondo, è perché non abbiamo investito prima… Se l’uomo è rispettato nelle sue fasi evolutive, l’adolescenza diventa una fase splendida.

La nostra società è descritta come «poco generativa», non solo in riferimento alla natalità. Lei che ne pensa?
Il problema è la demotivazione. La generatività è la motivazione a creare. A sua volta, la motivazione dipende dal sentire che vale la pena vivere, con punti di riferimento, con meno pessimismo e relativismo, preoccupandoci solo di ciò che conta davvero. Ma sono fiducioso, ce la faremo. Puntando sull’educazione. Ogni società quando è in crisi fa appello all’educazione. Questa è la strada che abbiamo.
 
 
Eugenio Borgna
«Mi fido di te»
 
«Ci si lascia imbrogliare più spesso per troppa diffidenza che per troppa fiducia». Questo aforisma del Cardinale di Retz, insigne ecclesiastico e intellettuale francese del Seicento, potrebbe essere stato scritto di suo pugno da Eugenio Borgna, uno dei più noti psichiatri italiani, al quale abbiamo rivolto alcune domande su fiducia e psiche.

Msa. Che ruolo ha la fiducia nelle relazioni intepersonali?
Borgna. La fiducia è un fenomeno psicologico interiore: permette di entrare in relazione con le persone che ci circondano oltrepassando l’abisso che ci separa. Ci spinge fuori dai confini, vincendo la tendenza spontanea a rinchiuderci nella gabbia del nostro io. Questo salto oltre noi avviene lungo il sentiero della fiducia.

Quali sono le premesse?
Almeno due. La prima è la conoscenza di noi stessi. Bisogna scendere lungo i sentieri misteriosi che portano all’interiorità personale, ai propri sentimenti ed emozioni, perché a sua volta l’altro percepisca che può essere capito nei suoi sentimenti ed emozioni. Se non c’è prima questa intuizione metarazionale di quanto l’altro sta provando, non si creerà mai un gesto di fiducia. La fiducia si ottiene solo quando il ponte che mi separa dagli altri è sostenuto dal cuore, e non dalla ragione. Non posso a tavolino porre le premesse perché gli altri abbiano fiducia in me.

E la seconda condizione necessaria?
Entrambi gli interlocutori devono condividere lo stesso tempo interiore, che consenta loro di vivere l’oggi proiettandolo nel futuro. Non c’è fiducia che non sia ancorata all’esperienza del futuro. Se il mio orizzonte è opaco, bloccato sul presente o addirittura sul passato, non posso sbilanciarmi con un investimento di fiducia.

Quanto conta questa dimensione del futuro?
È essenziale. Fiducia si lega ad altre parole che hanno il futuro come minimo comune denominatore, e sono speranza, fede, promessa, attesa. Al contrario, appiattite sul presente, sono prudenza, diffidenza, invidia, interesse. Ad esempio: io vivo una situazione con prudenza quando valuto che possa non aprirsi al futuro della speranza. Punto solo sulla categoria della ragione. Invece l’intuizione mi fa oltrepassare la prudenza che mi induce al calcolo. Certo, la fiducia implica un rischio che la prudenza tende a eliminare.

È il rischio del tradimento.
Avere fiducia include l’opzione del fallimento. La fiducia nasce sulla pista di decollo dell’intuizione che mi fa percepire nell’altro i motivi a sostegno della fiducia stessa. Eliminare la possibilità dello scacco è impossibile. Occorre scegliere. Una vita congelata in una prudenza che distolga da ogni situazione che non appaia fondata su un realismo assoluto sarà inchiodata al presente. Si vivranno giornate ricche di realismo ma povere di caritas e di generosità.
 
 
Crowdfunding
Fiducia formato web
 
Com'è possibile fidarsi di persone cui non riusciamo nemmeno a stringere la mano? È prudente investire anche solo pochi risparmi in un progetto conosciuto via web? Ecco i dubbi che assalgono chi si accosta per la prima volta al mondo del crowdfunding (tradotto: «finanziamento di massa»). Perplessità che devono aver sfiorato anche le centinaia di sostenitori della campagna «Adotta un fotogramma per Tonino». Almeno prima di vedere realizzata la «loro creatura» – L’anima attesa –, il film diretto da Edoardo Winspeare e prodotto dal movimento cattolico Pax Christi Italia, in occasione del XX anniversario dalla morte di don Tonino Bello. Una pellicola, come si legge sul sito www.paxchristi.it, «realizzata insieme, da ciascuno di noi, da ciascuno di voi», un esempio di vero «azionariato popolare» disponibile a maggio, in allegato al mensile «Mosaico di pace». Ma il lungometraggio dedicato all’ex vescovo di Molfetta non è certo l’unico caso di crowdfunding ben riuscito. Navigando in rete gli esempi virtuosi non mancano. Basta visitare alcune delle numerose piattaforme specializzate (su tutte: kickstarter.com, indiegogo.com, gofundme.com, crowdfundingo.it e kapipal.com) per rendersene conto. Alla base di questa forma di finanziamento alternativo che utilizza internet per lanciare progetti imprenditoriali, opere di beneficenza, di ricerca scientifica e così via, non possono mancare le idee e la fiducia necessaria a sostenerle e realizzarle. Di questo avviso, Alberto Falossi – consulente informatico e fondatore di Kapipal, una delle maggiori piattaforme di crowdfunding italiane – che, per sdoganare il «finanziamento di massa», ha stilato addirittura un manifesto (dal sito www.kapipal.com/manifesto). Cinque i punti su cui Falossi insiste: 1) i tuoi amici sono il tuo capitale; 2) i tuoi amici realizzano i tuoi sogni; 3) il tuo capitale dipende dal numero di amici; 4) il tuo capitale dipende dalla fiducia; 5) il tuo capitale aumenta col passaparola. Morale della favola: l’unione fa la forza. L’importante è crederci e offrire ciascuno secondo le proprie possibilità. Una volta superato questo step, non avrà più importanza se avrete sostenuto la pubblicazione di un romanzo con soli 3 euro o se ne avrete versati 100 per una causa filantropica. In ogni caso, sarete divenuti parte di un tutto.
Luisa Santinello
 
 
Armando Matteo
Fiducia e fede
 
Per un cristiano, la parola «fiducia» è strutturalmente collegata a «fede», un legame da riscoprire tanto più in queste settimane che seguono il festoso annuncio della Pasqua. Del tema in questione si è occupato di recente, nel libro In fiducia. Sul credere dei cristiani (Emp 2013), don Armando Matteo, docente di teologia alla Pontificia Università Urbaniana di Roma. «Tra fede e fiducia – spiega don Armando – c’è un legame, ma anche una certa differenziazione. La fiducia è un atteggiamento umano fondamentale, che ci sostiene nell’essere e nella relazione con gli altri. La fede cristiana si specifica per una relazione diretta, forte e centrale nei confronti di Gesù».

Msa. Nel libro In fiducia lei contrasta l’assunto «chi pensa non può credere e chi crede non può pensare». Avere fede e avere fiducia non sono quindi, come pure alcuni pensano, cose da ingenui...
Matteo. L'uomo è costituito per l'apertura e la relazionalità. L’io si dischiude a se stesso solo di fronte a un tu. Si può e si deve dire che la fiducia è una scelta logica e razionale, nel senso che risponde proprio alla struttura dell’essere umano. Dal punto di vista della fede, è una scelta, una decisione, che assume tutta la sua pertinenza e razionalità nella misura in cui percepiamo che la libertà è un dono, una sfida altissima. Allora riconoscere nella vicenda di Gesù un criterio per l’esercizio di questa libertà, rappresenta la cosa più logica da fare. Ovviamente la proposta di Gesù ha come fondamento la sua intera esistenza e poi l’evento della risurrezione, con il quale Dio Padre conferma la verità del Figlio.

In che modo la fede aiuta ad avere fiducia?
La fede, nella sua espressione realizzata, è la capacità da parte del credente di accettare una benedizione sulla propria vita e di accettare la propria vita come una benedizione, come luogo nel quale in maniera feconda può dispiegare il suo essere, i doni e i talenti che scopre dentro di sé. Io posso prendermi cura di me stesso, degli altri, di questo mondo, della storia nella quale sono collocato. Da questa prospettiva c’è un invito a uno sguardo più aperto, meno scettico, meno chiuso in se stessi e nei confronti degli altri.

C’è una fiducia cristiana possibile anche nelle difficoltà?
Forse la lezione più importante che ci può venire dal pessimismo che aleggia, anche in termini di fede, è recuperare quel sano realismo della vita che c’è nel Vangelo. Il Vangelo non ha mai promesso la grazia a buon prezzo, perché la vita non è a buon prezzo. Ma il cristianesimo è molto sereno, perché il suo codice sorgivo è di una straordinaria marcatura realistica. Il Vangelo non ci nasconde nulla della verità dell’esistenza.

Ribaltando la prospettiva, che cosa si può dire della fiducia di Dio nell’uomo?
Questa è la verità straordinaria, incredibile, sorprendente che sta al cuore del cristianesimo, il grande scandalo della fede: non c’è nessuna persona che possa distogliere il sì detto da Dio all’uomo in Gesù di Nazaret. Anche lì dove ci si aspetterebbe un segno di stanchezza da parte di Dio, si erge prepotente la croce di Cristo a dirci che l’amore di Dio è incondizionato e che è un amore fedele fino alla fine. La croce sta lì a ricordarci che non c’è alcun luogo ateo, alcun luogo non raggiungibile, se non già raggiunto, dall’amore di Dio. Questa è tutta la nostra certezza.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017