02 Gennaio 2014

Lettere al direttore

Perché festeggiare il «dies natalis»?

 

«Gentile direttore, avrei una grande curiosità di sapere perché si debba festeggiare il giorno della morte di una persona (specialmente se nota) anziché la nascita. L’articolo scritto dalla bravissima Luisa Santinello sul vostro giornale di ottobre parla del grande regista Federico Fellini (nell’anniversario della sua morte)… Non dovremmo invece apprezzare la nascita di una fervida mente che Dio ci ha dato la gioia di poter apprezzare?».

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Gentile lettrice, intanto grazie perché ci legge con tanta attenzione e vivacità. Ricordare dei personaggi famosi (indipendentemente che lo si faccia nei giorni della loro nascita o morte) con eventi, manifestazioni, articoli sui giornali è una consuetudine abbastanza diffusa e va intesa come un omaggio a loro e a quanto di bello essi hanno fatto in vita. Questo vale anche per Federico Fellini, ricordato sul «Messaggero di sant’Antonio» nell’ottobre scorso.



Per quanto riguarda poi, nello specifico, i cristiani, è antica tradizione quella di commemorare i santi nel giorno della loro morte, detto dies natalis, cioè giorno della loro «nascita al cielo». Infatti, come spiega il Catechismo della Chiesa cattolica: «Il senso cristiano della morte si manifesta alla luce del mistero pasquale della morte e della risurrezione di Cristo, nel quale riposa la nostra unica speranza. Il cristiano che muore in Cristo Gesù va in esilio dal corpo per abitare presso il Signore. Il giorno della morte inaugura per il cristiano, al termine della sua vita sacramentale, il compimento della sua nuova nascita cominciata con il Battesimo…».



E come ha detto papa Francesco il 30 ottobre scorso: «Un cristiano deve essere gioioso, con la gioia di avere tanti fratelli battezzati che camminano con lui; sostenuto dall’aiuto dei fratelli e delle sorelle che fanno questa stessa strada per andare al cielo; e anche con l’aiuto dei fratelli e delle sorelle che sono in cielo e pregano Gesù per noi. Avanti per questa strada con gioia!».


 



Basta piagnistei. Salviamo il territorio

«Devastate le Filippine, devastate ampie zone centrali degli Usa, mentre in Italia abbiamo visto l’alluvione di Giampilieri nel 2009 e Barcellona Pozzo di Gotto nel 2011, Vicenza nel 2010, Toscana e Umbria l’anno scorso, Genova e le 5 Terre nel 2011 e Sardegna nel 2013. E questi sono solo i primi casi che mi vengono in mente. Ci si indigna per i sette giorni successivi alla tragedia, poi tutto ritorna regolarmente come e peggio di prima e guai a chi vorrebbe cambiare le cose in meglio, diventi catastrofista, ideologizzato, estremista, contro il progresso… Si fa la solita raccolta da 1 o 2 euro per pulirsi la coscienza, in attesa… della prossima disgrazia, dove ci si ritorna a svegliare pretendendo che arrivi la bacchetta magica a risolvere tutti i problemi. Questo non è possibile – ovviamente – e allora si comincia a dare la colpa a destra e a sinistra, quando la colpa è in primo luogo di chi se ne frega».

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Un grande giornalista ed esperto di urbanistica, Antonio Cederna, quarant’anni fa scriveva quanto segue: «Un’Italia che frana e si sbriciola non appena piove per due giorni di fila, ecco l’immagine che subito ci propone il 1973, quasi a imporre alla nostra attenzione il problema di fondo e il più trascurato della politica italiana: la difesa dell’ambiente, la sicurezza del suolo, la pianificazione urbanistica. I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato: e tutti dovremmo aver capito che ben poco essi hanno di “naturale”». Da allora, molti altri disastri sono accaduti. L’Italia è il Paese più densamente urbanizzato d’Europa, ancor oggi vengono cementificati 8 metri quadri al secondo. Dal 1961 al 2011 la popolazione è aumentata del 12 per cento, ma le case costruite sono quasi il 100 per cento in più, mentre ci sono circa 13 mila chilometri quadrati di territorio ad alto rischio.



L’allarme non si ferma solo al rischio idrogeologico. Un rapporto del ministero delle Politiche agricole rileva che l’Italia sta progressivamente perdendo sovranità alimentare. Non riusciamo più a soddisfare il nostro fabbisogno, se non per quanto riguarda il riso, i pomodori e la frutta fresca; per il resto delle colture siamo pericolosamente esposti. Il governo del suolo dovrebbe essere ricchezza, benessere, sicurezza, e invece è sguardo corto, affarismo, logica clientelare.




Di fronte a dati e problemi di questa vastità, il singolo sembra impotente. Ancor oggi può essere utile per molte amministrazioni con il bilancio in rosso concedere qualche «strappo alla regola» per far cassa, contando in parte sull’inconsapevolezza e in parte sull’incoscienza di molti. Non siamo noi quelli che redigiamo i piani regolatori, né quelli che approviamo le leggi, tuttavia siamo noi quelli che viviamo i territori e che abbiamo la responsabilità non scritta di conservarli per i nostri figli. Restiamo vigili e se il caso corriamo il rischio nelle opportune sedi di essere tacciati per catastrofisti e nemici del progresso. Chi è, in fondo, più estremista: chi lotta per proteggere i beni della terra anche in nome delle generazioni future o chi si ostina contro ogni ragionevolezza a conservare lo status quo senza preoccuparsi del domani?

 



Due sacerdoti, due carismi, due servi fedeli

«Caro direttore, con sorpresa ho notato che la vostra rivista non ha fatto alcun accenno alla scomparsa di don Andrea Gallo, avvenuta lo scorso maggio. Eppure in tanti lo hanno ricordato: da don Ciotti (“don Gallo che ha saputo dare un nome a coloro che non l’avevano più convinti di averlo perduto”) a Vito Mancuso (“un prete ribelle, contestatore, mai allineato con i dettami della gerarchia”) fino a Moni Ovadia («ha saputo incarnare, più di tutti, che cos’è l’accoglienza”). Forse anche il “Messaggero di sant’Antonio” avrebbe potuto dedicargli un articolo».

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«Il 13 agosto 1943 un violento bombardamento si abbatte sul quartiere Casilino a Roma e colpisce lo snodo ferroviario che collega la capitale al resto del Paese. Proprio su via Casilina c’è (e ancor oggi è lì) la parrocchia di Sant’Elena. Quel giorno il parroco, don Raffaele Melis, si precipita fuori, sotto le bombe, con l’olio santo: il treno strapieno di viaggiatori è stato colpito. Tanti i morti, tra cui molti bambini. Don Raffaele viene identificato dopo tre giorni.

Oggi una lapida ricorda quel suo sacrificio. È anche iniziato il processo di canonizzazione. Sarebbe bello che anche il “Messaggero di sant’Antonio” potesse ricordare questa figura di sacerdote».

Lettera firmata

 

Cari lettori, ho messo insieme le vostre lettere perché, per certi versi, sono molto simili. Prima di entrare nel merito della questione, va fatta una premessa relativa soprattutto alla prima delle due lettere: come mensile ci riesce obiettivamente difficile pubblicare quelle notizie che sono strettamente collegate alla cronaca. Il nostro giornale arriva nelle case quando già televisioni e quotidiani hanno dato agli eventi ampio risalto. Questo, però, non ci esime dal parlarne. Preferiamo farlo, allora, in occasione di alcuni anniversari importanti. È stato il caso, solo per citare un esempio abbastanza recente, di padre Puglisi.

In genere, ricordiamo volentieri quelle figure di religiose, religiosi e sacerdoti che con il loro esempio hanno lasciato comunque un segno nella vita di tante persone e comunità, le quali continuano a ricordarli con affetto e rimpianto. Uomini e donne di cui spesso non si parla, perché hanno operato dietro le quinte, nell’ombra, lontano dai riflettori, con umiltà e dedizione. E che proprio per questo rimangono un esempio anche per quanti non li hanno conosciuti.





Lettera del mese

Parola di Dio


 

Frammenti di senso



Quella della Bibbia è «parola rivelata» perché viene a dirci che nessuno degli avvenimenti narrati nel Libro è senza senso. E che da tutto può scaturire una «parola di Dio», una parola, cioè, di salvezza e di vita per tutti noi.

  

«Gentile direttore, spesso mi chiedo se è proprio vero che quanto leggiamo sulla Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, è parola rivelata o non si tratta piuttosto di racconti o interpretazioni umane. Perché, se è vera la prima ipotesi, come si possono giustificare certi passi, soprattutto dell’Antico Testamento, molto duri sia nei toni che nei contenuti? Ho provato a chiederlo a qualche sacerdote, ma non ho mai ricevuto risposte convincenti. Lei che mi dice?».

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Inutile negarci che anche la parola di Dio – e che «tipo» di parola sia, che significato abbia, quale sia la sua storia, che «ascolto» le dobbiamo – rimane essenzialmente un mistero per noi. E la consapevolezza che questa parola, pur essendo «di Dio», si è espressa con parole umane (e non poteva che essere altrimenti se Egli voleva farsi anche semplicemente udire) infittisce questo mistero. Affermare di essa che è, appunto, «parola di Dio» risponde fondamentalmente a un atto di fede. Ciò la salva dalle nostre semplificazioni e banalizzazioni, e anche dal suo uso scorretto (che pure, purtroppo, talvolta c’è): proprio perché, essendo di Dio, non ci appartiene, non abbiamo nessuna esclusiva su di essa né alcun diritto insindacabile di utilizzo. E mai smetteremo di ascoltarla. E riascoltarla. Anche facendoci aiutare dagli strumenti che gli studi esegetici mettono a nostra disposizione.



Ma se è atto di fede, non vuol dire che sia senza ragione. Così come non è certo irragionevole l’atto di fede che il bambino fa nei confronti della mamma che gli sta dicendo che quella cosa su cui è seduto si chiama «sedia» e non «aeroplano». O allo stesso modo con cui da studenti abbiamo creduto al professore di matematica che ci spiegava che la radice quadrata di 3 corrisponde a 1,73205 più vari altri numeri. O così come so che in India – dove mai sono stato, ma me lo assicura l’insegnante di geografia – c’è un fiume che si chiama Gange lungo ben 2.500 chilometri. O allo stesso modo con cui credo che chi mi sussurra: «Ti voglio bene!», non si sta prendendo gioco di me.



In realtà, nella nostra vita crediamo a molte altre «parole»: basta che siano pronunciate da persone credibili, di cui sentiamo di poterci fidare, a cui riconosciamo in qualche modo una competenza e un’autorevolezza. E allora io ho ben motivo di credere che quella contenuta nella Bibbia, e che viene proclamata in modo particolare durante la santa Messa, sia davvero «parola di Dio»: soprattutto perché la Chiesa, che vuol dire tantissimi cristiani nel corso dei secoli, me lo garantisce. E me lo testimonia con la vita. Non me la sono cioè data da me, ma mi è stata donata alla fine di una lunghissima «catena biblica» di cristiani di tutti i tipi, uomini e donne, grandi e bambini, vescovi e laici, ai quali io riconosco una loro credibilità. Tra i quali il nostro sant’Antonio, «arca della Scrittura». Sento che quando ho la grazia di ascoltare con attenzione questa «parola», mi si scalda il cuore. Questa parola smuove significati, sensi, domande, molte volte non so neppure io come e donde venga. E anche questo è un punto a favore della sua attendibilità «divina». Inoltre, mi sembra che quando diciamo che è «parola rivelata», stiamo affermando qualcosa di molto più importante rispetto al fatto che non tutto ciò che abbiamo appena letto o ascoltato è imputabile a Dio. Ma piuttosto accogliamo la scommessa che ogni episodio, ogni avvenimento non sia senza senso, abbandonato a se stesso e alla sua insignificanza. E che da tutto possa scaturire una «parola di Dio», e cioè fondamentalmente una parola di salvezza e di vita, per me e per tutti. Come dire che non c’è angolo oscuro della nostra vita che non possa essere illuminato da Dio e dalla sua misericordia.



Terminare ogni volta una lettura biblica affermando senza esitazioni, semmai con un po’ di emozione, «è parola di Dio!», mettere il suo nome in calce anche a episodi magari di violenza, non significa perciò attribuirglieli o insinuare che ne sia lui il colpevole o, ancora, giustificarli in nome suo (che è bene che ognuno, anche l’uomo, si prenda le proprie responsabilità). Solo accettare di fare comunque i conti con la sua parola, che non disdegna di risuonare in ogni frammento della nostra umanità. E pure questo mi sembra un buon motivo per credere alla sua «origine divina».





Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org



Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017