Terra benedetta!
Davvero l’uomo è fatto di terra. E in alcuni momenti ciò è persino evidente: Dio che crea l’uomo e la donna con «polvere dal suolo», come racconta il libro della Genesi, è la verità più semplice di questo mondo! Basta sostare con devozione e pigrizia (perché la devozione ha bisogno che noi siamo disposti a perdere un po’ di tempo...) davanti a questo paesaggio invernale per convincersene ulteriormente! Davvero l’uomo è fatto di terra, per questo gioisce tanto – come la terra – della quiete colma d’attesa di questa stagione.
Fratello inverno, donando a madre terra di vedersi così com’è, senza il trucco di fronzoli e colori, senza la consolazione del brusio delle api di giorno e il frinire dei grilli di notte, le concede una frazione di verità infinita: vivere di realtà e speranza! La vita, in tutte le sue declinazioni, sembra scomparsa, o almeno se n’è andata a nascondersi da qualche parte, al sicuro e al caldo. Nel frattempo, il freddo, la nebbia, la coltre di neve e il ghiaccio, la crosta indurita dei campi, covano i sogni della terra.
Lo conosciamo questo tempo sospeso, di apparente morte, dove si resta nudi e crudi, come gli alberi spogli che ci osservano dalle finestre. Come dire? Anche l’ultima foglia di fico, dietro cui maldestramente tentavamo di nascondere la nostra piccineria, anch’essa è ormai ingiallita e caduta. Non si tratta solo del freddo che ci fa arrossire il naso. È il freddo che gela il cuore quando non c’è nessuno accanto a noi, quando non c’è nessuno da andare a trovare. E non si tratta solo della nebbia che accorcia la visibilità a meno di cinquanta metri. Ma di quella che vela i nostri sguardi e la capacità di progettare il futuro: perché non c’è il lavoro, perché la persona che amavamo se n’è andata senza spiegazioni. O perché sorella malattia ci ha fatto visita in casa, anzi, vi si è stabilmente installata. O perché il coniuge si attacca ormai più alla bottiglia che a noi, o il figlio ha cominciato a frequentare brutte compagnie. O perché le nostre chiese sono sempre più deserte. O anche solo perché l’età inesorabilmente scorre. E il nostro passo si fa pesante e faticoso come se camminassimo nella neve. Ma anche perché frementi di gioia «la luce del sole ci attira verso l’uscita – mentre camminiamo dall’inverno all’estate» (Mary Dorcey).
Davvero l’uomo è fatto di terra. E noi siamo anche questo paesaggio invernale che ci si stende dentro oltre che davanti. Grazie a Dio! Perché solo così le nostre orecchie potrebbero captare parole non pronunciate, bisbigliate dall’inverno ma colme di speranza. Come il brusio dei semi sottoterra, che sgomitano con fatica per spuntare, all’ora convenuta, e poter bussare al cielo. Come tutto quel «ben di Dio» che attende con pazienza, nel buio umido della terra o lungo le vene degli alberi, in una turgida gemma o al sicuro tra le protettive pareti di un guscio. Dove tutto risponde alla «legge del seme», che se non muore non porta frutto. Dove la vita è il nome segreto della morte, allo stesso modo in cui la speranza lo è della gioia.
Davvero l’uomo è fatto di terra. Di questa terra invernale, fredda e senza vita, ma che, anche contro ogni evidenza, sta preparando i colori e i profumi della primavera! Di questa terra che ha fame di spighe dorate che danzino al vento, portando in sé il compito di diventare pane sulle nostre tavole e sulla mensa eucaristica; che attende, come noi, che il cielo si apra e la disseti. Che è sopravvissuta ai rigori invernali attaccandosi alla nostalgia delle foglie, dei fiori e dei semi: della vita che scaturisce dalla morte.
Il freddo è pungente, sciarpa e berretto non sono più sufficienti. Mi incammino verso l’auto, mentre Dio mi fa il solletico con il venticello che si è alzato dal bosco. E lo ringrazio: perché per arrivare al cuore dell’estate, ora l’ho capito, bisogna prendere la rincorsa dal fondo dell’inverno…