Vivi per miracolo!
Davvero non è poi molto difficile trovare uno che muoia per qualcuno o per qualcosa: un’idea, un capopopolo, una bandiera, un avvenire migliore. Che è come dire che non è impossibile scovare un buon motivo per dare la propria vita. Poco cambia che ci si metta poi una vita intera, alcuni giorni o un battere di ciglia. Che la si dia in un colpo solo o dissanguandosi poco alla volta, buttando via dignità, soldi e relazioni. Da questo punto di vista, non fa nemmeno molta differenza che la vita, comunque la vogliamo intendere, ci venga più o meno violentemente tolta, ce la lasciamo sfilare dalle mani per ignavia o pigrizia, sia un dono che facciamo di noi stessi, o tutta l’operazione si trasformi in un lento suicidio che dura, appunto, tutta una vita. C’è chi dà la vita perché ha scoperto qualcosa che è persino più importante e vitale della stessa propria esistenza. O forse perché vivere non è ancora niente, se non si ha un buon motivo per morire. Ma anche perché la vita non si arresta ai confini della morte. E, infine, nella consapevolezza che la vita, quand’anche fosse «mia», non mi appartiene del tutto.
Frugo nella memoria, e mi affiora il ricordo del giovane Jan Palach, che il 19 gennaio 1969, a Praga, si dà fuoco per protestare contro l’invasione dei carri armati russi. O Trich Quang Duc, il monaco buddhista vietnamita che a Saigon, il 10 giugno 1963, lo fa invece contro l’invasione americana. Ma non mi dimentico di san Massimiliano Kolbe ad Auschwitz o di madre Teresa negli slum di Calcutta. Non è molto difficile trovare qualcuno disposto a immolarsi per una giusta causa. Tantissimi uomini e donne, benedetti da Dio, lo stanno facendo anche in questo momento, e senza tanta «copertura mediatica»! Qualche dubbio atroce però mi sorge: il giovane che esce di casa per andare a fare un po’ di volontariato tra gli anziani, o quello che esce imbottito di tritolo per farsi esplodere alla fermata dell’autobus, sono entrambi convinti di «dare la propria vita» per una nobile causa. E come giudicare la congruità della giustezza della causa? Perché chi si svena o, come talvolta siamo soliti dire, si danna – per il successo, per apparire, per essere annoverato tra «quelli che contano», per raggiungere una certa fama – beh, anch’egli, dal suo punto di vista, sta dando la vita per un buon motivo. Anche passando tranquillamente sopra la vita degli altri.
Chi è disposto a triturare sentimenti e relazioni pur di aggrapparsi alla ricchezza o agghindarsi coi simboli del potere, o a vendere la propria anima per un istante di gloria, lo farebbe se non fosse convinto in qualche modo che tutto ciò meriti la sua vita? Pensiamo che sia davvero così difficile dare la propria vita? Non la dilapidiamo spesso davanti a una macchinetta nella sala gioco, rincorrendo i soldi per massaggiare il nostro cuore arido o per camuffare il vuoto attorno a noi? No, davvero non è poi molto difficile trovare uno che muoia per te. Ma uno che viva per me, c’è? Sì: Gesù Cristo, che per me è sicuramente morto. Ma soprattutto per noi vive! E infatti lo chiamiamo «il Risorto»: perché continua a vivere in ognuno di noi, nelle nostre famiglie e nelle nostre case, nelle comunità parrocchiali e in tutta la Chiesa. Anche in quella che noi non sappiamo, perché ha una geografia che solo lo Spirito Santo conosce. Vive lì soprattutto dove abbiamo bisogno di iniezioni di vita, nelle nostre giornate che tracimano dalla domenica al lunedì, al martedì e via dicendo: lì dove noi lottiamo, lavoriamo, amiamo, progettiamo, ci stanchiamo, riprendiamo a camminare. Dove alfine tutte le notti sono promosse a presagio di nuove albe. Gesù è morto per noi una volta per tutte, ma vive per noi per sempre: «Non dico dieci volte, ma per sempre», insiste sant’Antonio. Sì, siamo proprio vivi per miracolo: Santa Pasqua a tutti!