Pudore

26 Gennaio 2010 | di



Per cominciare

Il sentimento del pudore consiste in un ritorno dell’individuo su se stesso, volto a proteggere il proprio sé profondo dalla sfera pubblica. La spudoratezza non è sinonimo esclusivo di impudicizia: il suo spettro di significati è molto più vasto e ai nostri giorni si è arricchito di colori e di tonalità cupe soprattutto attraverso la televisione. Tutti sanno quali siano questi programmi «spudorati». Lo sono (…) perché fanno mercato pubblico, sguaiato e volgare, di vicende personali e intime, di tradimenti e vizi privati (...). È necessario invece riscoprire il pudore ora così sfregiato, riproponendolo non solo per la sfera sessuale ma per l’intera individualità, riscoprendo la bellezza e la freschezza dell’intimità e del segreto, cercando di risolvere in quell’orizzonte con tutta la delicatezza necessaria ogni frattura o ferita delle anime. C’è uno spazio sacro del cuore che non dovrebbe essere preda di curiosità morbose e di sciacalli; c’è uno stile di dignità e riserbo che dev’essere riconquistato; c’è un rispetto dell’altro che è alla base di una vita sociale seria e serena.

G. Ravasi, Mattutino, 10/10/2003



Custodire le relazioni

di Giovanni Ventimiglia



«Tanto gentil e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta / ch’ogne lingua deven tremando muta / e li occhi no l’ardiscon di guardare». Comincia così una delle più belle e più note poesie di Dante, alle origini della nostra lingua e della nostra «civiltà». Che ne è, oggi, di quelle parole? Della gentilezza e dell’onestà della donna italiana? In altri termini, del suo pudore? Che ne è della nostra «civiltà»?

Su internet di recente ha avuto grande successo un bellissimo documentario di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi intitolato Il corpo delle donne: una denuncia dello scempio fatto sistematicamente in tv del corpo delle donne, un monito appassionato a ribellarsi al modello della donna rifatta, denudata, spudorata.

In questo contesto sentiamo doveroso cominciare dal pudore il nostro nuovo dossier sull’elogio di virtù antiche.

Che cos’è il pudore?

Nel famoso romanzo Il Gattopardo, il protagonista, parlando di sua moglie, diceva: «(...) E come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione non sa dire che: “Gesummaria!” (...) sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico»! Ebbene, è questo il pudore? No. Questa è la frigidità culturale di un puritanesimo manicheo – denunciato da Karol Wojtyla nel suo indimenticabile Amore e responsabilità – che considera il corpo e il sesso come intrinsecamente male. Il pudore è tutt’altro. Non è l’assenza del desiderio. Al contrario, lascia intendere un desiderio nel momento stesso in cui lo difende dallo sguardo altrui. Da questo punto di vista è un aspetto della seduzione, tanto è vero che nelle società spudorate, come la nostra, si assiste a un crollo vertiginoso del desiderio sessuale e a un conseguente, patetico, ricorso a farmaci. Dunque il pudore non è né spudoratezza né frigidità morale.

Esso è, come hanno messo bene in luce Mounier, Scheler e Wojtyla, il timore di essere guardati solo come cosa, come oggetto di desiderio e non come persona. Il pudore esprime sentimenti di questo tipo: «Ti desidero, ma non usarmi come oggetto. Desiderami per quello che sono: un soggetto. Ama il mio corpo senza dimenticare che il mio corpo è un io, che sono io!».

Tutto questo dice il pudore. Il quale, dunque, è un tema centrale, tra l’altro, nella questione dei rapporti tra donne e uomini.

La Zanardo, molto giustamente, chiede alle donne di partire da sé (come va suggerendo da anni quella grande pensatrice che è Luisa Muraro) e di domandarsi: siamo veramente noi donne che desideriamo rifarci il seno, denudarci, o sono gli uomini che vogliono questo da noi? Perché noi donne ci guardiamo ormai solo con gli occhi degli uomini? Perché non ci ribelliamo?

Da uomo, in questa sede, mentre assisto con gioia al movimento delle donne, non posso che rivolgere agli uomini domande simili: che uomini siamo diventati? Ci interessa veramente un rapporto con donne oggetto? Mette veramente fine al nostro sentimento di solitudine una cosa così? Dove sono finiti gli occhi degli uomini che «non ardiscon di guardare» una donna? Dove sono finiti i gentiluomini, i – veri – cavalieri? Lo vedremo nel prossimo numero di questa rubrica.     


Esporsi senza esibirsi

di Adriano Fabris


Educare al pudore.

C’è una differenza radicale tra esposizione di sé ed esibizione. Chi si espone si mette in gioco per quanto di meglio possiede. Chi si esibisce lo fa solo per intrattenere gli altri, mettendo in mostra ciò che non dovrebbe. Questo dobbiamo far capire ai nostri ragazzi.


Praticare una virtù è sempre stato un gesto in controtendenza. Non tanto perché è più facile assumere un comportamento censurabile o, addirittura, vizioso. Quanto perché, se vogliamo essere virtuosi, è necessario un impegno che va contro tutto ciò che, nella mentalità comune, viene ritenuto giustificato e accettabile. A ben vedere, però, proprio in questo sforzo, proprio in questo andare controtendenza, sta l’attrattiva di un atteggiamento virtuoso.

Non sfugge a queste considerazioni il riconoscimento e la valorizzazione, nel contesto attuale, di una virtù come il pudore. Il farlo sembrerebbe un atto disperato: nella misura in cui oggi il modello implicitamente accettato dall’opinione pubblica è, per esempio, quello delle veline. Ma rifarsi solo a tale esempio rischia di essere fuorviante. Quando si parla di pudore non è in gioco unicamente il pudore del corpo: è in gioco, più ancora, il pudore dello spirito. Oggi rischiamo infatti di rinunciare all’intimità, di cancellare il diritto che essa rivendica. Il pudore – il pudore spirituale: la verecondia, la sobrietà, l’onestà – è appunto il modo in cui quest’intimità viene salvaguardata.

Così, da questo punto di vista, nulla vi è di più spudorato di trasmissioni come Il Grande Fratello. Ma non perché possiamo assistere a qualche scena scabrosa: perché, soprattutto, qui i ragazzi non hanno intimità. Tutto quello che fanno viene esibito; non c’è più spazio per la privacy.

Il venir meno del senso del pudore altro non è, dunque, che una conseguenza della società dello spettacolo in cui ci troviamo a vivere. In essa tutto può essere occasione di spettacolo, tutto dev’essere esibito. Si pretende, anzi, che non vi sia nulla che possa essere tenuto riservato, nulla che mi appartenga e che possa essere custodito come tale. Apparire, invece, è bello: si fa a gara per conquistarsi un posto sul palcoscenico. Senza però sapere che su quel palcoscenico ci si sta solo per poco. Infatti, nella società dello spettacolo, l’apparire si fa apparenza: qualcosa compare e, altrettanto velocemente, si dilegua.

Intendiamoci: non voglio fare un discorso moralistico. Da un punto di vista educativo ciò sarebbe inefficace se non, addirittura, controproducente. Rischierebbe di provocare l’immediata reazione di coloro che – specialmente i ragazzi che vedono Il Grande Fratello – questo discorso potrebbero ascoltare. Voglio invece cercar di capire i presupposti che mettono in crisi la salvaguardia di quell’intimità che sta alla base della virtù del pudore. Voglio capire se dobbiamo arrenderci alla mentalità comune o, piuttosto, considerarla criticamente.

Davvero tutto è spettacolo e destinato a essere trasfor­mato in spettacolo? Davvero ciò che abbiamo, ciò che siamo, lo dobbiamo esibire? Esibire non significa esporsi. Ci esponiamo a un raffreddore quando andiamo in giro troppo scoperti (a meno che non siamo veline…), ci esponiamo al giudizio altrui quando sosteniamo le nostre idee. In questi casi siamo bensì nudi, realmente o metaforicamente, ma non spudorati. Il pudore viene meno quando ci compiacciamo di un’esibizione; il pudore è annullato quando diamo spettacolo di noi stessi. E non sempre si tratta di un bello spettacolo: perché non tutto quello che siamo e facciamo è degno di essere condiviso con altri. Neppure con le persone care.

Ecco ciò che dobbiamo cercare di far capire ai nostri ragazzi, se riteniamo che il pudore sia una virtù da promuovere. Vi è una differenza radicale tra esposizione di sé ed esibizione. Chi si espone si mette in gioco per quanto di meglio possiede. Chi si esibisce lo fa solo per intrattenere gli altri. Non tutto dev’essere mostrato. Anche perché, di fronte allo sguardo distratto di colui che assiste a un’esibizione, chi si esibisce non trova quel sostegno che magari cerca, ma finisce per perdere se stesso.        



Parola da meditare

Pudore: veri di fronte a Dio

Il pudore è la virtù che consiste nel preservare uno spazio intimo e personale, è la virtù che conduce ogni essere umano a prendere coscienza del proprio definirsi grazie a quell’autenticità e verità profonda che sfugge allo sguardo altrui. Un passo biblico normalmente chiamato in causa a proposito del pudore è Genesi 3,7.21, dove si parla di nudità, dunque del pudore inteso come sentimento di disagio legato al mostrare le proprie «parti vergognose». Dopo che l’uomo e la donna hanno commesso il peccato di impadronirsi del frutto dall’albero, «si aprirono i loro occhi e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture … Poi Dio fece tuniche di pelli e li vestì». Qui però la vergogna non riguarda tanto la sfera sessuale – se è vero che prima di cedere alla seduzione del serpente i due non provavano vergogna della loro nudità (cf. Gen 2,25) – quanto piuttosto il fatto che l’uomo e la donna con il peccato hanno stravolto la loro condizione di creature di fronte a Dio, perdendo così anche l’armonia della relazione tra loro. Senza negare l’importanza di questo testo (a cui si potrebbe aggiungere il racconto della diversa reazione di Cam da una parte e Sem e Iafet dall’altra di fronte alla nudità del padre Noè, in Gen 9,18-27), vorrei sostare su una parola di Gesù che ritengo un antidoto alla spudoratezza: «Tutte le loro azioni le fanno per essere ammirati, visti dalla gente» (Mt 23,5). In polemica con gli scribi e i farisei, Gesù stigmatizza il comportamento che è il vero contrario del pudore: l’ipocrisia, vizio che spinge a privilegiare l’apparire sull’essere, a costo di simulare, di recitare una parte davanti agli altri per riceverne l’applauso. A questa finzione Gesù ha opposto, vivendola in prima persona e dunque insegnandola, l’arte del pensare, pregare e agire «nel segreto», in pura gratuità, trovando la propria «ricompensa» solo in Dio (cf. Mt 6,1-6,16-18): ecco il cammino del pudore che egli ha tracciato per chi lo ascolta. Ben al di là del riferimento agli uomini religiosi, l’insegnamento di Gesù riguarda tutti noi ed esprime in modo chiarissimo il senso profondo del pudore: esso è la possibilità di ritrovare la propria verità di fronte a Dio, di tornare all’essenziale che dà senso alla vita, un’essenziale invisibile agli occhi; è una riserva di libertà e una resistenza all’esibizionismo dominante. Appello a praticare l’appassionante cammino della vita interiore, il pudore può infine tradursi in un esercizio a considerare ogni uomo che incontriamo a partire non da ciò che appare, ma dal mistero irriducibile della sua persona.

Enzo Bianchi, priore di Bose



Il fascino della discrezione

a cura di Nicoletta Masetto


Virna Lisi

A unanime giudizio di pubblico e di critica, l’attrice è ritenuta una delle più belle donne mai apparse sullo schermo. Una bellezza senza tempo che le rughe non hanno scalfito. Anzi.


Non ha mai nascosto, sul suo viso, lo scorrere del tempo. Nonostante il fluire dell’età le abbia segnato il volto di piccole rughe, non si è mai sottratta all’obiettivo a volte impietoso della macchina da presa. Forse anche per questa ragione – accettarsi per quello che si è –, la sua bellezza, negli anni, è rimasta inalterata. Facendole acquisire un fascino indiscusso, elegante, proprio perché naturale, non «gonfiato» da interventi di chirurgia estetica ai quali si è sempre dichiarata contraria.

Virna Lisi, tornata di recente in tv con la fiction Caterina e le sue figlie 3, oltre a essere una delle più belle donne mai apparse sullo schermo, è famosa anche per la sua discrezione, per aver volutamente tenuto lontana dai riflettori la vita privata, per una forma di pudore dal sapore antico al quale non ha mai rinunciato.

Msa. Che cos’è il pudore?

Lisi. Penso si tratti di un modo di essere. Fa parte di me, da sempre. Credo mi derivi dall’educazione ricevuta e dal mio stesso carattere. I miei genitori mi hanno dato tutto, e per questo ho sempre pensato che il non venir meno ai valori ricevuti sia una forma di rispetto e un modo per dire loro grazie, ogni giorno.

Una nuova «virtù» che stride con un mondo come quello dello spettacolo in cui, a far audience, è solo l’esibizione di sé.

Un conto è il mostrarsi, ben altro è l’esibirsi, magari mettendo in mostra solo il proprio corpo perché non si ha di meglio da far vedere. Ho sempre rifiutato di spogliarmi sul set. Oggi molte giovani attrici, dopo appena una settimana di reality, fanno già le dive. E invece non si finisce mai di imparare, dando l’anima per questo mestiere. Non ho mai avuto paura delle rughe. Fanno parte della vita e rappresentano il passato di ciascuno.

Il suo senso del pudore è sempre stato anche una forma di discrezione, soprattutto nei confronti della sua vita privata. Quanto le è costato?

La carriera mi ha dato molto. Sono una persona fortunata. Ma lo sono, ancora di più, perché ho avuto una famiglia alle spalle e ne ho creata un’altra, la mia. Ho sempre cercato di difendere con i denti la mia privacy, di ritagliarmi uno spazio intimo, tutto personale. Nel mio lavoro cerco di dare il massimo, ma poi, spente le luci sul set, il mio unico desiderio è sempre stato quello di tornare a casa, da mio marito e da mio figlio. Non è una rinuncia se è qualcosa in cui credi.

È la stessa ragione che l’ha portata a dire «no» al mondo dorato di Hollywood?

Sì. Non riuscivo a stare lontana dai miei cari. Pur avendo portato con me mio figlio, non ce l’ho fatta: dopo tre anni ho rescisso il contratto. Questo «no» mi è costato una lunga causa.

Da anni interpreta soprattutto il ruolo di madre.

È sempre stato quello che ho preferito. Mi piaceva fare la madre anche quando avevo solo l’età per fare la figlia. Tanto che dovevano invecchiarmi, col trucco, per rendermi credibile. Ho sempre desiderato, e amato, essere madre. Così come ora sono nonna di tre splendidi nipoti.

Al più piccolo dei tre, che ha sei anni, nonna Virna adora raccontare le favole.

Non sono, però, le favole già conosciute: mio nipote mi dice «Ma nonna, quelle le so già». Allora ne invento di nuove, tutte per lui.

Poi, comunque, arriva la resa dei conti quando mi chiede, a distanza di tempo, di ripetergliele. Se cambio anche un solo particolare lui me lo fa notare subito. Sono i bambini i primi a metterti veramente a nudo.

Con loro è davvero impossibile cambiare le carte in tavola e, tanto meno, mostrarsi per quello che non si è.


Virna Lisi

Virna Pieralisi, così all’anagrafe, è nata a Jesi (Ancona) l’8 settembre 1936. Sposata con Franco Pesci, ha un figlio, Corrado. Ha lavorato con grandi registi come Antonioni, Visconti, Risi, Monicelli e con attori famosi come Gassman, Mastroianni, Burton e Lemmon.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017