Cavalleria

23 Febbraio 2010 | di

Per cominciare


«Alessandro Magno incontrò alcuni Macedoni che trasportavano in otri, a dorso di mulo, acqua che avevano attinto a un fiume. Vedendo Alessandro provato dalla sete del mezzogiorno, riempirono velocemente un elmo e glielo porsero. Egli prese l’elmo nelle sue mani ma, guardando attorno a lui, vide che la sua cavalleria dirigeva lo sguardo bramoso sulla bevanda. Allora la rese senza aver bevuto e, ringraziando, disse a chi l’aveva offerta: “Se bevo solo io, questi uomini perderanno coraggio”».

Due sono gli spunti che possiamo raccogliere da questo notissimo episodio. Innanzitutto la fermezza del famoso sovrano che supera la tentazione dell’insindacabilità del potere e dei privilegi e si pone al livello degli altri, delle persone comuni che però condividono le stesse esigenze umane. È il risultato di un rigore non solo personale, quasi ascetico, ma anche del rispetto delle necessità comuni, è il frutto di una sensibilità e nobiltà d’animo che vince ogni egoismo. C’è, però, un altro profilo nell’atto di Alessandro ed è quello della testimonianza. Se ti preoccupi solo dei tuoi vantaggi, non potrai mai essere un educatore di altri.

(G. Ravasi, Mattutino, 10/05/2007)


La cavalleria in difesa dei deboli

di Giovanni Ventimiglia


Sono questi i tratti fondamentali che connotano la cavalleria: lo spirito di servizio e la forza virile a servizio dei deboli.


«Biondo era e bello e di gentile aspetto / ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso». Nelle parole con cui Dante descrive Manfredi di Svevia, re di Sicilia, è riassunto tutto l’ideale medievale della cavalleria. Da una parte il segno di una battaglia cruenta, una ferita di spada in mezzo al ciglio, dall’altra la nobiltà e la gentilezza del tratto.

Se ne parla anche all’inizio dell’Orlando Furioso di Ariosto: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori / le cortesie, l’audaci imprese io canto». Indimenticabili versi. Dove c’è, di nuovo, la sintesi degli aspetti apparentemente opposti della cavalleria: le armi e, nello stesso tempo, gli amori e le cortesie. Sono i valori del cavaliere medievale, in cui confluirono quelli del guerriero greco e romano, quelli dell’amor cortese e, infine, com’è noto, quelli della fede cristiana.
Ebbene, non è contraddittorio tutto questo? Non è assurdo un ideale che mette insieme le armi, l’amor cortese e la fede in Dio? Che cerca di conciliare la guerra con l’amore (per la donna e per Dio)?

Credo di no. Anzitutto sarebbe ipocrita non riconoscere, specialmente nel maschio, un’antica, archetipica, aggressività. Foscolo lo ha scritto in altri bellissimi versi: «E mentre io guardo la tua pace, dorme / quello spirto guerrier ch’entro mi rugge» (da «I sonetti», Alla sera). Ho il sospetto invece che una certa cultura cristiana ipocritamente buonista abbia bandito dalla coscienza l’aggressività maschile, bollandola a priori come negativa. Con la conseguenza che questa forza è finita nell’inconscio, pronta a esplodere all’improvviso, in modo imprevedibile, incontrollato e dannoso. La cavalleria rappresenta la virtù di chi, invece, ha deciso di riconoscere la propria aggressività e, quindi, di educarla, indirizzandola verso il bene, cioè verso la difesa dei deboli.

Significativa, a questo proposito, è l’origine dei Cavalieri di san Giovanni di Gerusalemme (oggi conosciuti come Cavalieri di Malta): nati come ospedalieri a servizio dei pellegrini ammalati, si trasformarono in seguito anche in militari, per la necessità di difendere con le armi gli stessi infermi.
Ecco dunque lo spirito che tiene insieme i tratti apparentemente contraddittori della cavalleria: lo spirito di servizio. La forza virile a servizio dei deboli.
Se la guerra con le spade è finita (e la guerra con le bombe andrebbe bandita dalla faccia della terra), non per questo bisogna abbassare la guardia nelle battaglie contro l’ingiustizia sociale, la corruzione, la falsità. Bisognerebbe usare la penna come una spada per combattere, ancora, dalla parte degli ultimi. E per tornare a scrivere, con la stessa penna, poesie d’amore, cortese, rispettoso, cavalleresco.
Ho l’impressione che di questa virtù antica, all’apparenza fuori moda, vi sia grande bisogno oggi, al tempo del bullismo, dove branchi di cavalieri da strapazzo uniscono le loro forze contro i deboli e non, come un tempo, in loro difesa. Vi sia grande bisogno oggi, specie tra gli uomini, smarriti in mezzo a modelli di maschi virili ma non gentili, e di maschi gentili ma non virili. Per riscoprire il senso di una gentilezza che non è un’esclusiva del gentil sesso ma è anche tratto del gentiluomo, un modo virile di prendersi cura degli altri. Vi sia grande bisogno oggi, proprio per tenere insieme la spada e le poesie d’amore, la forza e l’amore per gli ultimi.




Provate a cedere il passo


di Adriano Fabris


Educare alla cavalleria

Siamo esseri in relazione e dunquedegli altri dobbiamo tener conto, anche rinunciando a qualcosa.



Non si tratta solo di dare un esempio di buona educazione. Né sono in gioco, unicamente, buon senso o interesse. È chiaro che se entriamo tutti nello stesso momento, rischiamo di intasare la porta; se prima non facciamo uscire qualcuno, magari non c’è spazio per noi che vogliamo entrare. Ma non è soltanto educazione né solo buon senso. L’esperienza del cedere il passo, infatti, è una di quelle in cui viene immediatamente in luce il principio fondamentale dell’etica: il principio per cui noi siamo «esseri in relazione», intimamente, e dunque dobbiamo tenere conto degli altri con cui siamo in rapporto. Anche se ciò significa una limitazione del nostro agire; anche se ciò vuol dire lasciare spazio a chi ci viene incontro.

A ben vedere è questo il principio etico che sta al fondo della virtù antica della cavalleria. Di questa virtù, nel linguaggio d’uso comune, è rimasta solo un’accezione ristretta. Si tratta al massimo (per chi se lo ricorda) di cedere il passo alle signore. Ma ci si vergogna quasi, oggi, di adottare un atteggiamento cavalleresco. E, quando capita di farne uso, lo si nasconde dietro un velo d’ironia.

Invece la cavalleria è forse la virtù relazionale per eccellenza. Mostra che chi si comporta in un certo modo non pensa anzitutto al proprio interesse o al suo comodo, ma si rapporta ai doveri che sente propri, al bene della comunità di cui fa parte. Il cavaliere è attento agli altri. Non è meschino, ma ha un animo grande. Ecco perché, considerata in questo modo, la cavalleria è una forma di magnanimità.

Così si comportavano, nelle leggende, i cavalieri medievali. Così facevano gli uomini d’animo nobile, che proprio questa nobiltà interiore rendeva belli anche esteriormente (essi erano al tempo stesso buoni e belli come dicevano gli antichi greci). Oggi però le apparenze ingannano: bontà e bellezza esteriore spesso non vanno di pari passo e i più cafoni sono sovente coloro che si presentano meglio. Allora come fare a superare questo squilibrio? Come far comprendere il valore dell’attenzione e del rispetto nei confronti degli altri? Come insegnare la cavalleria? Propongo un piccolo esperimento mentale. Abbiamo visto che chi è cavaliere è disposto a lasciare spazio agli altri: nella consapevolezza che così facendo non perde nulla. Chi non è capace di essere cavaliere, infatti, è sostanzialmente un insicuro. Se lascia la presa teme di perdere terreno. In realtà rischia di perdere molto di più.

Ed ecco l’esperimento. Pensiamo a ciò che accadrebbe se in un restringimento di carreggiata due automobili che provengono da direzioni opposte volessero ognuna passare prima dell’altra: l’impatto sarebbe inevitabile. Come purtroppo talvolta succede. Eppure basta poco per far sì che le cose non vadano in questo modo. Basterebbe capire che, al mondo, non ci sono solo io. E che, anche in assenza di regole che definiscano puntualmente il mio comportamento nei confronti degli altri, l’atteggiamento magnanimo, l’atteggiamento cavalleresco, sono quelli più adeguati. Non solo per limitare gli incidenti d’auto.  


Parola da meditare

Nobiltà d’animo

La nobiltà d’animo è una virtù che appare fuori posto nella nostra società, dove sempre più s applaude chi ostenta una condotta segnata da volgarità e arroganza. Potremmo meditare su come la Scrittura pone davanti ai nostri occhi questa virtù mediante le esortazioni a quel sentire e pensare in grande che sono propri di Dio (cf. Es 34,6), ma a questo ci dedicheremo a proposito della pazienza. Preferisco intraprendere un cammino diverso, alla luce di alcuni comportamenti vissuti da Gesù e quindi, proprio per questo, ispiranti per noi. Ora, la nobiltà d’animo di Gesù consisteva innanzitutto nell’essere credibile, perché egli diceva ciò che pensava e faceva ciò che diceva. Più in profondità, la sua affidabilità nasceva dalla scelta di non essere autoreferenziale: Gesù trovava la sua forza in Dio e annunciava il suo Regno, non se stesso! La sua grandezza si manifestava inoltre nel suo essere capace di gratuità, di incontrare le persone senza secondi fini: una gratuità che creava un clima di ospitalità, di fiducia e di libertà in cui l’altro poteva sentirsi accolto e, attingendo alla sua intelligenza, decidere cosa fare della propria vita. In questo suo modo di accostarsi all’altro, Gesù non ha eretto muri o barriere ma, al contrario, si è sempre sforzato di abbatterli: basti solo pensare al suo condividere la tavola con tutti, dalle prostitute ai pubblici peccatori fino agli uomini religiosi. Di più, egli ha abbattuto il muro per eccellenza del suo tempo, quello che separava ebrei e pagani (cf. Ef 2,13-16). Sì, con la sua vita Gesù ci ha narrato che, quando si incontra in verità un uomo, egli cessa di essere ciò che i nostri schemi lo rendono ed è semplicemente un essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio. Infine, Gesù è stato capace di sentire in grande, di vedere la realtà migliore di quella che appare, di cogliere l’altro più grande del suo peccato. Il suo sguardo, abitato da interesse e simpatia verso chi gli stava di fronte, faceva sì che questi si sentisse ascoltato, accolto e dunque amato (cf. Mc10,21): uno sguardo che rivelava la fede-fiducia che Gesù sapeva mettere in chi incontrava. E porre fiducia nell’uomo, nella vita è il passo fondamentale da compiere per giungere alla fede in Dio, all’abbandonarsi fiducioso in lui.È precisamente per questi suoi comportamenti concreti che Gesù ispirava affidabilità e aveva un’autorevolezza convincente (cf. Mc 1,22-27): sapeva cioè far crescere chi viveva con lui, riusciva a far fiorire le persone, apprestando loro quegli spazi vitali perché potessero cambiare in meglio, come esprime la straordinaria parola da lui pronunciata in più occasioni: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 5,34 e par.; 10,52); «Va’ e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13)… Così l’esempio di Gesù può ispirare la nobiltà d’animo a noi suoi discepoli,chiamati nel cammino di sequela dietro a lui ad aprire il nostro cuore e il nostro respiro alla dimensione stessa di Dio perché, come ricordava Ignazio di Antiochia, «il cristianesimo è una questione di grandezza d’animo» (Ai romani III,3).

Enzo Bianchi, priore di Bose



I cavalieri ci sono anche oggi

a cura di Laura Pisanello


Narciso Salvo Di Pietraganzili

Quasi mille anni di storia a servizio dell’umanità. Parliamo del Sovrano militare Ordine di Malta.


Dieci secoli in difesa della fede e dei deboli: ecco la missione del Sovrano militare Ordine di Malta. Gli uomini della «Sacra Milizia» – così si chiamano i cavalieri dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme Rodi e Malta – svolgono la loro opera in ossequio alla Regola che li vuole «Servi dei Signori malati». Ma è gente di oggi e non il residuo di un mondo anacronistico.

Ce ne parla il marchese Narciso Salvo di Pietraganzili – un nome che, a pronunciarlo tutto d’un fiato, mette quasi soggezione e rivela subito le origini di nobile siciliano –.

Msa. Marchese, lei è commissario magistrale dell’Associazione italiana dei Cavalieri del Sovrano Ordine di Malta. Ci può spiegare cos’è?

Salvo. La nascita dell’Ordine risale al 1048. A differenza dei cavalieri Templari e di quelli del Santo Sepolcro, i cavalieri di San Giovanni si occuparono fin dall’inizio dell’accoglienza di pellegrini e crociati che si recavano a Gerusalemme e che avevano bisogno di ospitalità e di cure sanitarie. Nel 1291, dopo la perdita di San Giovanni D’Acri, ultimo baluardo della cristianità in Terra Santa, l’Ordine si trasferisce a Cipro, poi a Rodi, quindi a Malta; dal 1834 è a Roma.

L’Ordine è legato alla Santa Sede, è un ordine religioso laicale ed è sempre rimasto fedele ai suoi principi ispiratori: difesa della fede e servizio ai sofferenti. Non abbiamo mai cambiato, dunque, il nostro core business!

Cos’è per lei cavalleria?

La cavalleria è come una lama di luce trasversale che attraversa il nostro agire. Significa far sì che le proprie azioni siano ispirate all’attenzione ai più deboli: i poveri, gli emarginati, i malati, i «non competitivi» che, in una società come la nostra che guarda solo al proprio interesse, sono di più di quanti immaginiamo. Credo che la cavalleria in questo senso abbia ancora un ruolo rilevante.

Per lei cosa significa questo impegno?

Sono stato ricevuto nell’Ordine di Malta «come cavaliere di onore e devozione» oltre trent’anni fa.

Mi sono occupato, all’inizio, dei gruppi giovanili e oggi dell’associazione dei cavalieri italiani che conta circa 3 mila membri (contro i 12.500 circa nel mondo). L’associazione italiana nasce nel 1877 e rappresenta l’Ordine nei confronti dello Stato italiano, per esempio nella gestione dell’Ospedale San Giovanni Battista alla Magliana a Roma. Il Corpo militare speciale si occupa della sanità militare ed è stato sempre molto attivo nelle situazioni di emergenza: dal terremoto di Messina del 1908 fino a quello dell’Aquila. Il nostro Corpo di soccorso (Cisom), sotto l’egida della Protezione Civile, ha gestito 700 persone in due campi di tende grazie a oltre ottocento giovani volontari di Paesi diversi che si sono alternati.

In questo momento siete impegnati a raccogliere aiuti per Haiti…

La squadra del Corpo di soccorso internazionale dell’Ordine di Malta si è attivata immediatamente e noi abbiamo messo a disposizione due équipe mediche. L’Ordine ha inoltre lanciato un appello straordinario di raccolta fondi per Haiti.

Quanto conta la fede in questo impegno?

Per me uno dei passi più significativi del Vangelo è la parabola dei talenti: significa che se uno nella vita ha ricevuto più degli altri, ha il dovere di restituirlo alla società sotto forma di tempo, attenzione, impegno.

Credo che la fede sia il fondamento di questo modo di agire.

Senza di essa saremmo solo una grande organizzazione non governativa.


Narciso Salvo Di Pietraganzili

Narciso Salvo nasce a Palermo il 21 gennaio 1946. È marchese di Pietraganzili, barone di Verbumcaudo, commissario magistrale dell’Associazione dei cavalieri Italiani del Sovrano militare Ordine di Malta. È dirigente, dal 1972, della Federazione nazionale dell’Industria chimica (Confindustria). Dal 2005 è presidente di Assofertilizzanti/Federchimica.


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017