Nord Est: un nuovo orizzonte da costruire
Dal 13 al 15 aprile si terrà ad Aquileia il secondo Convegno delle Chiese del Nord Est, dal titolo «Testimoni di Cristo, in ascolto». A vent’anni di distanza dal precedente incontro, le 15 Diocesi si sono date appuntamento nella cittadina friulana, culla del cattolicesimo triveneto, per sondare lo stato di salute della fede in questa macroregione tradizionalmente tra le più cattoliche d’Italia. Ma quale Nord Est si troveranno davanti, oggi, i rappresentanti delle Chiese? In queste pagine ne tratteggiamo un quadro, con l’aiuto di tre esperti: due sociologi, Daniele Marini (direttore scientifico della Fondazione Nord Est) e Alessandro Castegnaro (presidente dell’Osservatorio socio-religioso Triveneto), e un sacerdote, don Renato Marangoni (segretario del Comitato preparatorio).
I vent’anni a cavallo del passaggio di millennio, dagli anni ’90 del Novecento al primo decennio del Duemila, sono attraversati da mutamenti accelerati, di cui peraltro non siamo in grado di prevedere complessivamente gli esiti e i nuovi equilibri. Il Nord Est ne è interessato, al pari di altri territori, ma – a ben vedere – la società e l’economia locale stanno operando una sorta di doppio salto carpiato. Da un lato, hanno avviato un processo di trasformazione riferito ai fattori che hanno originato lo sviluppo sociale ed economico. Ma, dall’altro lato e contemporaneamente, tale processo avviene mentre il contesto mondiale sta mutando profondamente. Infatti, da alcuni anni a questa parte il Nord Est ha dovuto fare i conti con un rarefarsi e trasformarsi delle sue risorse originarie. I fattori sui quali aveva fondato il proprio successo si sono progressivamente erosi, con una complicazione in più. Rispetto alle crisi precedenti (come quella dello shock petrolifero degli anni ’70 o quella dell’inizio anni ’90), l’attuale è contrassegnata da un aspetto strutturale e non congiunturale. Tutto ciò spinge verso una progressiva polarizzazione: nelle condizioni di vita e di benessere della popolazione; nel sistema produttivo e fra le imprese, anche all’interno dei distretti. Le polarizzazioni hanno un effetto generativo, poiché fanno emergere nuove capacità. Ma, nello stesso tempo, generano fratture, divaricazioni di cui bisognerà tener conto nella progettazione del futuro della società e dell’economia dell’area.
In questa sede, considereremo in particolare un aspetto: le trasformazioni demografiche. Ce ne sono molti altri che sarebbero degni di nota e che sono stati oggetto di un recente studio (D. Marini, a cura di, La grande trasformazione. 1991-2011: vent’anni di Nord Est, Padova, Emp, 2012).
I nuovi nordestini
L’ampiezza di popolazione giovane disponibile e il ruolo centrale (sia in termini valoriali, sia organizzativi) svolto dalla famiglia hanno costituito un aspetto fondamentale dello sviluppo e del benessere nel Nord Est. Proprio queste dimensioni, però, si sono negli anni rapidamente erose e modificate. Nel complesso, la popolazione è aumentata nei vent’anni considerati, ma ne è mutata anche la composizione. Il repentino calo demografico manifestatosi a partire dagli anni ’70 ha generato un vero e proprio buco nella struttura della popolazione.
Dai 2,6 figli per donna in età fertile, si è giunti all’1,2 di inizio millennio, dato oggi in leggera risalita (1,4 nel 2010) in gran parte per opera delle popolazioni migranti. Nel contempo, le condizioni di vita sono migliorate e le probabilità di allungare l’esistenza si sono fatte cospicue: nel periodo recente, ogni tre anni la probabilità di aumentare l’età media cresce di un anno.
Se però la popolazione invecchia progressivamente e l’orizzonte dell’età media si allunga, la struttura della popolazione è destinata a rovesciarsi: ci saranno sempre meno giovani alla base della piramide dell’età e sempre più anziani alla cima. Ma una struttura demografica così concepita non regge. Questo spiega perché il Nord Est ha bisogno di immigrati. E, nonostante la crisi, ne avrà ancora necessità, sebbene in misura inferiore.
Il tema migratorio apre un ulteriore versante: l’integrazione culturale, sociale e religiosa. Le diverse stagioni e strategie migratorie sono approdate a un sostanziale radicamento. Si formano famiglie, nascono figli che riempiono le scuole (e in molti casi consentono loro di rimanere aperte), acquistano casa, diventano imprenditori. In una parola, s’inseriscono e contribuiscono alla nostra società ed economia. Rappresentano un pezzo fondamentale del futuro del Nord Est: sono poco meno del 10 per cento, ma si tratta soprattutto di giovani in età lavorativa. Inoltre, gli immigrati sono un caleidoscopio di situazioni e condizioni, oltre che di stili di vita e di religioni. La sfida è rappresentata dalla capacità di comporre e integrare un puzzle così complesso. E che non può essere più lasciato all’azione volontaria dei diversi attori sociali, ma deve essere gestito a livello istituzionale.
Non da ultimo, viene il tema famiglia. Meglio, delle famiglie. Perché anche nel Nord Est si assiste a una scomposizione e ricomposizione dei nuclei familiari. La famiglia si fa plurale: coppie sposate, conviventi, ricostituite, individui single. Cresce il numero delle coppie sposate civilmente, e in alcune realtà sopravanzano quelle sposate religiosamente. Il profilo della famiglia, quindi, cambia e si articola, sebbene il valore a essa assegnato dalla popolazione sia sempre elevatissimo. Il tutto avviene, nel nostro Paese, nella sostanziale assenza di una politica a favore delle famiglie e di iniziative volte a incentivare la ripresa della natalità. Soprattutto, la discussione su questi versanti assume venature non di rado ideologiche che impediscono di leggere con accuratezza le trasformazioni culturali e i cambiamenti in corso. Il Nord Est del prossimo futuro, pertanto, si caratterizzerà per la sempre minore disponibilità di giovani locali, l’aumento di giovani immigrati (che saranno sempre più nordestini), e di anziani. Un Nord Est con famiglie articolate nella loro composizione, multireligioso e multietnico.
I caratteri fondativi? Non cambiano
Gli aspetti appena citati rinviano ovviamente alla dimensione dei valori diffusi nel terriotrio nordestino. Una recente ricerca (D. Marini, a cura di, La società veneta e le sue rappresentazioni, Quaderni FNE, Collana osservatori n. 137, Treviso, Fondazione Nord Est, 2011), poneva in evidenza il fatto che essi sono sostanzialmente quattro: lavoro, autonomia, intraprendenza e coesione. Sono questi, infatti, i principali caratteri fondativi attorno ai quali i nordestini si riconoscono e s’identificano oggi. Nulla di nuovo, si potrebbe sostenere: sono quelli grazie ai quali nel passato si è costruito il Nord Est. Eppure, la novità consiste esattamente nella persistenza di tali riferimenti valoriali. Nonostante la crisi globale in cui siamo immersi, i cambiamenti economici e le trasformazioni culturali che viviamo quotidianamente, questi valori rimangono alla base dell’azione degli individui e degli attori collettivi. Ancora oggi (e possiamo ipotizzare che così sarà anche nel futuro prossimo) essi rappresentano i punti cardinali di riferimento per la costruzione della società.
Sarebbe sbagliato, però, ritenere che tutto sia rimasto inalterato.
In primo luogo, perché mutando le condizioni di sfondo, cambiano i modi in cui è possibile declinare quei riferimenti. I valori (come il lavoro, l’intraprendenza, la solidarietà) continuano a rappresentare un riferimento importante, ma le possibilità di praticarli non sono sempre le stesse rispetto a un tempo. Basti pensare anche solo al valore della famiglia. Come dimostrano molte ricerche, in un’ipotetica graduatoria dell’importanza assegnata agli aspetti fondamentali della vita, essa raccoglie un consenso elevatissimo. Ciò non di meno, come abbiamo già sottolineato, le strutture e le composizioni familiari si sono fortemente modificate. Sono cambiati gli itinerari con cui le giovani generazioni giungono a formare una famiglia. E questo avviene in una realtà sociale che, fino a non molti decenni fa, era considerata una «Vandea bianca» (dal nome della regione francese, a forte presenza cattolica, che lottò durante la Rivoluzione contro l’affermarsi dei giacobini rivoluzionari, ndr).
In secondo luogo, non tutto è come prima perché alcuni fattori perdono di rilevanza, come nel caso particolare della religione. Questa dimensione, infatti, che pur in passato ha costituito un elemento di coesione sociale fondamentale, al punto che la Chiesa cattolica – assieme alle associazioni a lei prossime – ha svolto un ruolo di vero e proprio welfare dal basso (si veda, a proposito: P. Allum e I. Diamanti, ’50/’80. Vent’anni, Roma, Edizioni Lavoro, 1986; I. Diamanti e E. Pace, a cura di, Tra religione e organizzazione, Padova, Liviana Editrice, 1987) grazie ai suoi oratori, cinema parrocchiali, asili e scuole, viene oggi collocata progressivamente sullo sfondo: rappresenta una cornice di riferimento, ma non appare più così determinante nel definire gli orientamenti. Le persone che frequentano assiduamente le funzioni religiose non si differenziano nelle valutazioni e negli orientamenti – salvo pochi aspetti – rispetto al resto della popolazione. Ciò non significa, ovviamente, che sia venuta meno una domanda di trascendenza o di religiosità, anche tra i più giovani. Così come la diluizione del ruolo di coesione svolto dalla Chiesa è stato progressivamente riempito dai mondi volontari sorti dal suo humus e dall’associazionismo laico.
Dunque, una parte significativa degli elementi di sfondo tradizionali ha ancora oggi per i nordestini una rilevanza valoriale, ma muta la valenza normativa, vale a dire il modo di praticarli concretamente. Il Nord Est ha conquistato l’orizzonte che (più o meno implicitamente) si era prefigurato: crescere economicamente, diffondere e mantenere il benessere, alimentare la coesione sociale. I fattori che gli hanno consentito di raggiungere quel traguardo sono andati scomparendo e oggi lo scenario di sfondo sta radicalmente cambiando. Il compito e la sfida che attende il Nord Est e i suoi attori è dunque quello, non facile, di prefigurare un nuovo sviluppo per l’area, un nuovo orizzonte materiale e simbolico da perseguire.
Nord Est chiama Italia
a cura di Sabina Fadel
A colloquio con Alessandro Castegnaro, presidente dell’Osservatorio socio-religioso Triveneto, che ha curato, per conto dei vescovi di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige, la ricerca «Nord Est. Una religiosità in rapida trasformazione».
Msa. Professor Castegnaro, la Chiesa che si incontrerà ad Aquileia il 13, 14 e 15 aprile, è molto diversa da quella di vent’anni fa?
Castegnaro. La Chiesa del Nord Est è cambiata, ma soprattutto è cambiato l’ambiente in cui è inserita. Si tratta di una Chiesa invecchiata, con una presenza pur sempre maggioritaria di donne (ma minore rispetto a un tempo) e soprattutto con meno donne di elevata scolarità. Inoltre, è una Chiesa con meno preti (quindi con più parrocchie senza un parroco in loco) ma con più laici consapevoli del proprio ruolo. Una Chiesa, direi, più realista, che sa che le tendenze alla secolarizzazione non possono svanire come per magia, e che certi problemi vanno affrontati. Una Chiesa che ha compreso come il Nord Est è diventato un mondo plurale anche dal punto di vista religioso e che quindi deve attrezzarsi per porsi in relazione con altre confessioni religiose. Il cambiamento era già visibile nel 1990, all’epoca del primo Convegno ecclesiale, ma ancora non si sapeva se queste tendenze si sarebbero accentuate. Oggi è chiaro che non solo sono cresciute, ma si sono accelerate. La ricerca mette in luce che mentre in passato il Nord Est, dal punto di vista religioso, era abbastanza diverso rispetto al quadro nazionale, oggi non lo è più in modo così netto. Lo si vede dalla diffusione delle convivenze, dalla crescita del numero di bambini nati al di fuori del matrimonio, dall’aumento dei divorzi…
Quali sono, a suo parere, le ragioni di questo cambiamento così repentino?
La presenza di tendenze di fondo, che sono tipiche di tutti i Paesi occidentali e che qui si manifestano con leggero ritardo, ma proprio per questo con una maggiore velocità. Tendenze che riguardano fondamentalmente la cultura, la nuova centralità che assume l’individuo. C’è una forte rivendicazione di autonomia del soggetto nelle proprie decisioni e scelte di vita.
In che cosa credono fondamentalmente gli abitanti del Triveneto?
Cominciamo col distinguere i contenuti dalle forme del credere.
I contenuti, in buona parte, derivano dalla tradizione cristiana, anche se oggi presentano differenti gradi di condivisione. Prendiamo ad esempio due credenze fondamentali: credere nell’esistenza di Dio e credere che Gesù Cristo è figlio di Dio. Ancora oggi la maggioranza della popolazione del Nord Est è convinta della veridicità di questi due fondamenti della nostra fede. Rispetto a un tempo, però, è aumentato il numero di coloro che nutrono dei dubbi a riguardo. Se poi passiamo ad analizzare altre credenze, le posizioni di incertezza crescono di molto. È il caso dell’Eucaristia: una parte rilevante della popolazione pensa che rappresenti solo un simbolo, con una visione, quindi, molto diversa rispetto a quella cristiana. Per non parlare, poi, di tutte le questioni ultime: la maggioranza dei nordestini (circa l’80 per cento) è convinta che ci sia qualcosa dopo la morte, ma solo una minoranza di essi crede nella risurrezione e, tra questi, i più pensano che a sopravvivere sarà solo l’anima, non il corpo. Non è che la parte restante della popolazione non creda nella risurrezione, ma nutre dei forti dubbi.
E per quanto riguarda le forme del credere?
L’esperienza dominante è quella di persone che vivono un contrasto tra il credere e il non credere. Persone che sono attratte contemporaneamente da una prospettiva di apertura al trascendente, che considerano una risposta piena al senso dell’esistere, e da una chiusura totale, come se si sentissero incapaci di credere in una cosa che alla mentalità razionalistica appare alla stregua di una favola dell’infanzia. La maggioranza dei nordestini si trova su questo crinale probabilmente perché oggi credenti si diventa, la fede non è più ereditata in modo acritico dall’ambiente familiare. La domanda di fede oggi è più adulta; ci troviamo dinanzi a persone che si interrogano a fondo sulle questioni, che non sono più disposte ad assumere un sistema di credenze a scatola chiusa, ma hanno voglia di capire che cosa questo significhi per la propria vita. È un approccio più maturo, ma più complesso. Oggi il mondo è fatto di posizioni intermedie e di percorsi anche contrastanti e contraddittori.
Che rapporto hanno i fedeli del Nord Est con la Chiesa?
È abbastanza evidente che negli ultimi anni sono cresciute tutte le posizioni critiche nei confronti della Chiesa, la quale, sempre più spesso, viene considerata lontana e troppo giudicante, vista come un’istituzione e non come comunità. Il saldo tra quanti dicono di essersi avvicinati e quanti dicono di essersi allontanati dalla Chiesa tende a essere negativo in tutte le classi di età. Del resto, questo lo si vede anche nelle indagini svolte a livello nazionale. È avvenuta una sorta di rivoluzione copernicana: nel passato Dio veniva visto come un giudice inflessibile e alla Chiesa, vicina agli esseri umani, era riconosciuto un ruolo di mediatrice; oggi si avverte Dio vicino e misericordioso, mentre a essere lontana (e severa) è la Chiesa.
Che cosa viene imputato alla Chiesa?
A essere problematico oggi è soprattutto il distacco avvertito tra ciò che dicono il Papa e i vescovi e quello che la gente vive: a mio avviso è proprio questa, cioè la percezione che il magistero sia lontano dalla vita della gente, la chiave interpretativa dei problemi attuali. Criticati sono anche il fasto, la morale sessuale e, seppur di meno, l’intromissione della Chiesa nelle faccende politiche.
Secondo lei, qual è il dato più significativo della ricerca?
Ce ne sono almeno due.
Il primo: nell’ultima generazione che adesso sta diventando adulta (le persone tra i 18 e i 29 anni) tutti gli indicatori di religiosità si dimezzano letteralmente rispetto alle età centrali. Ce lo aspettavamo, ma non con questa intensità e, soprattutto, non pensavamo che riguardasse in modo così preponderante le donne, soprattutto quelle laureate, le quali sono anche contemporaneamente le più interessate alla dimensione spirituale.
Il secondo: il livello di condivisione che si manifesta rispetto ad alcune posizioni del magistero, non tanto da parte della popolazione nel suo insieme (questo lo si sapeva), ma nei cattolici impegnati, in coloro cioè che fanno parte di gruppi religiosi.
Faccio qualche esempio: la maggioranza della popolazione (71 per cento) ritiene sia normale che i giovani abbiano esperienze sessuali prima del matrimonio; tra i cattolici impegnati che hanno meno di 45 anni, la percentuale di chi la pensa allo stesso modo è del 69 per cento. Non c’è una sostanziale differenza. I cattolici impegnati sono ancora convinti, nel 60 per cento dei casi, che per formare una nuova famiglia ci si debba sposare in Chiesa o in Comune; c’è però un 40 per cento, sempre tra i minori di 45 anni, che ritiene basti anche il solo volersi bene per stare insieme. Ancora: il tema del fine vita. Il fatto di porre fine alla propria esistenza in caso di malattia terminale è per i cattolici impegnati «abbastanza grave» ma non «molto grave». Se poi si stila una classifica di comportamenti gravi, l’eutanasia finisce appena sopra il comprare beni del tutto superflui e ben sotto il fare uso di droghe leggere.
Che cosa dicono, a suo parere, alla Chiesa del Nord Est i dati emersi dalla ricerca?
Che non si può continuare come se niente fosse: i dati sono tali da indurre a compiere scelte di rinnovamento. Non penso che si possa assistere passivamente all’abbandono della Chiesa da parte di una grande fetta del mondo giovanile o all’allontanamento delle giovani donne, in particolare le più colte. Bisogna agire su due fronti. Innanzitutto, a livello di atteggiamenti: la gente chiede alla Chiesa una maggior disponibilità all’ascolto, all’accompagnamento, chiede in un certo senso un atteggiamento più simile a quello che Gesù aveva con i peccatori. E poi a livello di linguaggio: le credenze fondamentali del cristianesimo vanno proposte in modo nuovo. Bisognerebbe chiedersi che cosa è veramente essenziale nell’annuncio cristiano: è importante insistere sugli aspetti della morale quotidiana o è decisivo far conoscere la persona di Cristo nei modi in cui essa stessa si è proposta nel suo stare tra noi?
Emergono elementi di speranza?
Le Chiese del Nord Est, secondo me, hanno più energie e più risorse rispetto alle altre Chiese: i nordestini, oggi, rivendicano in modo maggioritario rispetto al resto del Paese la propria autonomia di coscienza, ma sono anche più convinti che non si possa sviluppare la propria esperienza spirituale senza far riferimento alla Chiesa. L’orientamento di fondo è al cattolicesimo: meno Chiesa ma non senza Chiesa.
Il clero del Nord Est è affaticato, ma rispetto al resto del Paese è ancora molto radicato nel territorio: la grande maggioranza della popolazione conosce il parroco, più di metà qualche volta ci parla. Abbiamo un clero, quindi, che è ancora capace di capire che cosa la gente vive.
Nel nostro ambiente i gruppi religiosi sono ancora molto presenti: è diffusa la partecipazione ai gruppi parrocchiali, c’è una forte presenza di associazioni e di volontariato. E questi sono segni di speranza, potenzialità su cui si può lavorare. È per questo che quando io presento i risultati della ricerca, concludo sempre con due domande: «Se non ora, quando?» e «Se non qui, dove?». Se non ora quando, perché i cambiamenti intervenuti esigono un mutamento di prospettiva: che cos’è veramente essenziale? Se non qui dove, perché qui forse è ancora possibile fare qualcosa che in altri posti è più difficile fare.
Alla vigilia di Aquileia 2
Testimoni di Cristo, in ascolto
di don Renato Marangoni
«Le Chiese sono cambiate, forse troppo passivamente. Ecco perché ci si è convocati a Convegno e perché si intende reimparare l’ascolto come modo di essere, come forma di vita, come stile di vita, come impegno per il bene comune e, addirittura, come “nuova evangelizzazione”».
«Testimoni di Cristo, in ascolto» è il titolo del secondo Convegno delle 15 Diocesi del Nord Est, un titolo che nasce in questa ultima fase di preparazione. Dapprima la riunione dei vescovi il 9 marzo, con la partecipazione anche del nuovo Patriarca di Venezia e, poi, il 16 marzo, l’undicesima sessione di lavoro del Comitato preparatorio, segnano le ultime tappe di impostazione dei lavori del Convegno, dunque anche di formulazione del titolo che non era possibile definire prima, a motivo dell’impostazione metodologica perseguita fin dalla prima Traccia di lavoro per le Diocesi pubblicata il 4 ottobre 2010. Allora si è voluto aprire un «cammino» di avvicinamento, di conoscenza e di condivisione tra le 15 Diocesi, per cui è stata attivata una fase di «memoria» in cui ogni Diocesi ha potuto raccontare il proprio vissuto.
Frutto di questa prima decisiva attività sono le 15 «testimonianze» raccolte in un volume pubblicato un anno dopo, il 1° ottobre 2011. E proprio con questa data è iniziata la seconda fase di preparazione, quella che stiamo ora portando a conclusione con la celebrazione del Convegno che si terrà ad Aquileia e Grado dal 13 al 15 aprile. In ascolto rappresenta l’atteggiamento di fondo che ha caratterizzato questo tempo di avvicinamento all’evento. È maturata, infatti, la necessità di essere Chiesa che ascolta. In realtà questo punto di arrivo corrisponde all’intonazione di partenza ricavata dall’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, precisamente nei capitoli 2 e 3 dove sono riportate le lettere alle sette Chiese dell’Asia minore. All’inizio e alla fine di ogni lettera è detto: Ascolta ciò che lo Spirito dice alle Chiese. In questo invito è tratteggiato il cammino finora compiuto con le sue fatiche e soddisfazioni. Ma c’è un aspetto di novità: in questo camminare insieme si è appreso che l’ascolto dello Spirito è ascolto della vita; della vicenda delle nostre comunità, delle persone con le loro fatiche e attese; ascolto del territorio, del «grande cambiamento» che ha investito il Nord Est. Proprio questa acquisizione portata a livello di fede ha la fragranza e il sapore dei frutti già maturati. In realtà sono ancora una «promessa» e restano esposti, se non anche sospesi, in rapporto alle scelte ulteriori che le 15 Diocesi vorranno assumere. Si è giunti, così, alla «vigilia» del Convegno.
L’altra espressione con cui si apre la formulazione del titolo – Testimoni di Cristo – esprime il «dato originario», l’essenziale a cui continuamente le Chiese sono sollecitate ad andare. Dice la loro mission. È interessante segnalare che l’ascolto è stato declinato come desiderio di rilanciare la credibilità delle comunità cristiane in questo contesto così cambiato del Nord Est. Ascoltare tale complessità ha ridestato l’impegno a una «testimonianza» che si esprime primariamente in uno stile di vita delle comunità ecclesiali e di ogni cristiano. Ecco che cosa giunge al Convegno. Ed è il materiale su cui i 650 rappresentanti delle 15 Diocesi del Nord Est con i loro vescovi faranno «discernimento». Anche se, in verità, erano già state individuate delle piste su cui confrontarsi. La prima sul tema della «nuova evangelizzazione», la seconda su quello del dialogo con le culture e la terza sull’impegno per il bene comune. Praticamente tutto ciò ha comportato un ritrovarsi delle comunità cristiane in questo territorio con tutte le dinamiche di cambiamento che lo caratterizzano e che sono state evidenziate dai due seminari di studio tenuti il 28 gennaio e il 18 febbraio. Si potrebbe dire che c’è la voglia di ripartire, come se qualcosa prima si fosse inceppato.
Le attese e i frutti
Ora l’attenzione è concentrata sulla celebrazione del Convegno e su quanto si prospetterà per il prosieguo di questo cammino. Sono in gioco tanti aspetti della vita ecclesiale nel suo intreccio con il vissuto della gente, con la realtà delle istituzioni, con quanto il territorio sta esprimendo come potenzialità ma anche come contraddizione. In tutto questo non si è voluto «far rumore». Non sono previsti eventi eclatanti. Ci si sta attrezzando anche sul fronte comunicativo. Un’espressione significativa di questa attenzione è il sito www.aquileia2.it che segna una nuova interattività tra le Diocesi in rapporto alle nuove esigenze della comunicazione. Tante questioni sono state riaperte ma declinate secondo la lettura e l’ascolto del contesto odierno del Nord Est. Il multi-culturale, il multi-etnico e il multi-religioso sono dimensioni ordinarie e strutturali del Nord Est e così entrano nelle comunità cristiane. Le Chiese sono cambiate, forse troppo passivamente. Ecco perché ci si è convocati a Convegno ed ecco perché si intende reimparare l’ascolto come modo di essere, come forma di vita, come stile di vita, come impegno per il bene comune e, addirittura, come «nuova evangelizzazione».
Il programma della tre giorni
Concretamente, come sarà strutturato il Convegno? Il pomeriggio del venerdì 13 aprile è il momento in cui confluisce il cammino di preparazione e tutto quello che le Diocesi hanno testimoniato. Sarà anche un riconoscere il bene ricevuto, assunto e prodotto. Ma, in particolare, sarà un andare in profondità di questo vissuto per riconoscerlo – in una lettura di fede – come «segno dei tempi». Le Chiese che si incontrano daranno spazio anche ai momenti liturgici e celebrativi, manifestando «paradigmaticamente» come oggi la Chiesa abita il territorio e vive questo tempo.
L’apertura dei lavori prevede anche un ricordo del primo Convegno ecclesiale tenuto ventun anni fa.
La seconda giornata sarà interamente dedicata al «discernimento» che si farà nei trenta gruppi previsti. Sulle tracce di lavoro si stanno impegnando, in questa ultima fase di preparazione, il Comitato preparatorio e la Segreteria.
La terza giornata sarà, dunque, conclusiva, nel senso che si metteranno le condizioni per aprire la fase di cammino del dopo-Convegno. È importante considerare che i vescovi hanno già in programma di riprendere in mano tutto quanto è stato elaborato, anche per un loro specifico contributo che esigerà ulteriore discernimento. Per questo la giornata conclusiva non dovrebbe segnare la fine, ma costituire una «promessa» per sviluppare ulteriormente i fermenti attivati in questo cammino. Certamente saranno portate nella giornata finale anche delle proposte di realizzazione più immediata e concreta quali segni di continuità e di ulteriore impegno nella collaborazione tra le Diocesi del Nord Est.
Sembra, dunque, che sia avvenuta una sorta di «messa in questione» che ha richiesto una revisione globale, fatta di consapevolezza, ma che sta anche aprendo prospettive nuove affinché le nostre Chiese possano corrispondere meglio all’appello rivolto da papa Benedetto nella sua recente visita nel Nord Est: «Non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli altri uomini con simpatia, comunicando nel vostro stesso stile di vita quell’umanesimo che affonda le sue radici nel Cristianesimo, tesi a costruire insieme a tutti gli uomini di buona volontà una “città” più umana, più giusta e solidale».
Al secondo convegno ecclesiale di Aquileia sarà presente anche il nuovo Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia (nella foto in basso), che ha fatto il suo ingresso nella città lagunare lo scorso 25 marzo. «Chiedo d’essere accolto come un fratello che, per un disegno della Provvidenza, è mandato a voi come padre, pur venendo da una regione lontana dalla vostra che ormai, però, avverto già come a me carissima»: è un passaggio del primo saluto indirizzato da monsignor Moraglia alla Diocesi di Venezia, lo scorso 31 gennaio. Monsignor Moraglia è nato a Genova il 25 maggio 1953 ed è stato ordinato presbitero il 29 giugno 1977; è dottore i