Tvb per dire: ti voglio bene
L'allarme viene lanciato periodicamente: il linguaggio usato su internet o per i messaggini via telefonino (i famosi sms) costituiscono un pericolo di impoverimento e imbarbarimento per l'italiano. Si parla addirittura di una cyber-lingua - fatta di simboletti e parole smozzicate - che, specie fra i giovani e i giovanissimi, tende quasi a sostituire la lingua normale. Ma c'è veramente da preoccuparsi? E poi: siamo di fronte a una moda passeggera o a un fenomeno più radicato?
Ne parliamo con il professor Luca Serianni, docente di Storia della lingua italiana presso l'università La Sapienza di Roma. Le lingue - ci risponde - sono organismi molto robusti; hanno stomaci di ferro e digeriscono senza difficoltà le varie manipolazioni presenti nei messaggini. Si tratta, non dimentichiamolo, di usi occasionali: interessano solo una parte della popolazione (gli adolescenti e i giovani); non sostituiscono altre, e più complesse, forme di interazione linguistica; soprattutto - tenendo conto del ritmo vertiginoso di innovazione tecnologica in questo settore - non è affatto detto che fra dieci anni non si disponga di altre modalità di comunicazione interpersonale a distanza e gli attuali sms ci appaiano simpaticamente obsoleti (mentre è facile profetizzare che si stamperanno ancora libri e si leggeranno ancora i quotidiani).
Msa. Lei, professore, è noto per non avere un indirizzo di posta elettronica. Ormai è un caso più unico che raro... Perché questa scelta: vuole semplicemente difendere la sua privacy o considera la posta elettronica una minaccia per l'integrità e la bellezza della lingua italiana?
Serianni. La ragione è strettamente privata: ritengo di essere già sufficientemente raggiungibile attraverso telefono fisso, cellulare, posta cartacea... La posta elettronica ha un'importanza fondamentale nella vita di oggi, soprattutto in molti ambiti professionali. Ai miei occhi di privato cittadino ha, però, almeno un difetto: induce, in chi abbia inviato un messaggio, anche su argomenti futili, l'attesa per una risposta in tempo reale: cosa che molte volte non è possibile. Io vorrei continuare a riservare una parte del mio tempo a riflettere sulle cose da dire, sul modo di dirle, sull'opportunità di dirle: un'operazione preliminare rispetto all'impulso di comunicare comunque qualcosa a uno o più interlocutori.
Torniamo alla cosiddetta cyber lingua: serve veramente a dialogare fra persone di ogni tipo e di ogni età (il sogno di internet, rete globale) oppure crea solo dei branchi linguistici dove ci si ritrova e ci si riconosce fra pochi eletti? O, addirittura, si favorisce così l'incomunicabilità e l'isolamento?
Dubito che la cyber lingua possa davvero favorire una sorta di dialogo universale e non credo eliminabile la scarsa dimestichezza tecnologica dei meno giovani e dei meno acculturati. D'altra parte, il rischio di una comunicazione puramente artificiale è reale: ogni lingua è, in primo luogo, una lingua parlata, e coinvolge interlocutori in carne e ossa; comunichiamo non soltanto con le parole, ma col tono della voce, con lo sguardo, con i gesti. Per i contenuti destinati a sopravviverci - un saggio di diritto romano, ma anche il testamento col quale lo zio Renato dispone del suo appartamento di Jesolo - è necessario ricorrere alla scrittura; però per le mille evenienze quotidiane, per le emozioni che segnano il nostro vissuto, il canale fondamentale resta quello orale. Se proprio andiamo in cerca di un surrogato, quello più efficace è il telefono (o, meglio ancora, il videotelefono cellulare).
Oltre a e mail, web e sms, c'è un'altra imputata, di più antica memoria, che spesso viene criticata perché massacra la nostra lingua: la tv.
La tv uccide l'italiano?
È vero che il piccolo schermo, dopo aver contribuito all'unificazione linguistica del Paese nel dopoguerra, ora addirittura arriva a uccidere l'italiano?
È certamente vero che la televisione - come osservò anni fa il linguista Raffaele Simone - ha cessato da tempo di essere modello di lingua, trasformandosi nel rispecchiamento della lingua effettivamente parlata in Italia. Dagli anni Ottanta in poi, la cosiddetta tv verità propone sempre più spesso il parlato reale della gente comune, con accenti regionali più o meno marcati e con tutte le approssimazioni proprie della lingua parlata. Ma questo non è un male: è la prova che oggi esiste una lingua comune per la quasi totalità dei cittadini di questo Paese, che ancora cinquant'anni fa erano prevalentemente legati al dialetto natio.
E i tg? Anche loro sono sul banco d'accusa?
La responsabilità linguistica dei professionisti della televisione (annunciatori, conduttori e giornalisti) è ben maggiore di quella di chi intervenga occasionalmente in una trasmissione. C'è da rammaricarsi che in genere ci si preoccupi poco del controllo linguistico, a differenza di quello che avveniva negli anni Sessanta. Le intonazioni regionali non sono gradite in tutte le parti del Paese (è nota, ad esempio, l'insofferenza dei settentrionali per l'accento romanesco) e in nessun modo possono essere giustificati errori di accentazione, specie per nomi di luogo: se non si è sicuri della pronuncia, occorre avere l'umiltà di consultare un repertorio (ce n'è uno, eccellente, pubblicato dalla Rai fin dal 1969: il Dop, Dizionario d'ortografia e di pronunzia). Così facendo, potremo concederci una gita sui colli eugà nei (non euganèi), dopo un bel soggiorno a Torri del Benà co (non Bènaco), spingendoci poi fino alla quiete di àgordo (non Agà³rdo); o magari organizzare una visita alle Cappelle medìcee (non medicèe); o partecipare a un convegno sul mazziniano Giovanni Nicòtera (non Nicotèra); o celebrare i monumenti barocchi di Galà tone (non Galatà³ne).
Non possiamo non fare riferimento anche al cinema. Spesso si imputa agli attori (soprattutto ai comici) di aver dialettizzato l'italiano. Pensiamo al compianto Sordi e a Verdone per il romanesco, a Benigni per il fiorentino o a Boldi per il milanese... Anche qui, quali sono le colpe del cinema?
Il cinema non ha nessuna colpa linguistica, tutt'altro. Intanto, la tradizione del doppiaggio di film stranieri, che in Italia ha raggiunto un altissimo grado di professionalità , ha favorito la diffusione di pronunce italiane standard (farebbe ridere un George Clooney che parlasse con cadenza torinese o napoletana): e questo ha avuto importanza, come per la televisione, specie negli anni Cinquanta, epoca di diffusa dialettofonia e di minore circolazione di parlanti. E comunque la regionalità - un connotato tipico della realtà dell'italiano parlato - è centrale in un filone già vitale negli anni Cinquanta e Sessanta: la commedia che fu detta, appunto, all'italiana; rinnegare i vari colori locali, da Totò a Troisi, significherebbe rinunciare a una componente essenziale del nostro cinema.
Se è vero che la ricchezza espressiva della nostra lingua, quella consegnataci dalla tradizione letteraria, è ormai sottoposta a costante minaccia, quante parole ormai si usano in media rispetto a quelle contenute nei vocabolari (anche in percentuale) e quali sono gli errori e gli strafalcioni più comuni?
La minaccia non viene dalla lingua parlata, che ha tutto il diritto di essere approssimativa, ma dall'impoverimento della lingua scritta, che non è solo quella della grande tradizione letteraria, ma anche quella in cui è scritto l'editoriale di un grande quotidiano. È soprattutto la scuola che deve preoccuparsi di mantenere viva la circolazione di parole tipiche dell'uso scritto, che difficilmente useremmo nella lingua di tutti i giorni: da lumeggiare ad arguto, da eccepire a prosopopea. Detto questo, possiamo calcolare in circa 7 mila parole il lessico di base, quello che, da solo, costituisce oltre il 90 per cento di un testo orale o scritto; in circa altre 45 mila parole il lessico comune; una quota variabile è inoltre costituita dai lessici settoriali (dalla medicina, che ne è particolarmente ricca, al diritto all'informatica). Un ragazzo italiano dovrebbe uscire dalla scuola superiore padroneggiando perfettamente, come competenza attiva e passiva, il lessico di base; buona parte del lessico comune, soprattutto quello relativo all'argomentazione astratta (estemporaneo e illazione da questo punto di vista sono parole più importanti di ghisa e mollettone); una certa quota di lessico settoriale (si possono ignorare la carfologia e l'evizione, ma non la glicemia e la rogatoria).
Gli errori più ricorrenti
Quali sono invece gli errori più importanti che si commettono scrivendo?
La punteggiatura è adoperata dalla maggioranza degli studenti in modo casuale e approssimativo; spesso emergono svarioni lessicali, appena si maneggi qualche parola di uso meno quotidiano (diramare i dubbi dirimere, il fenomeno incrementa negli ultimi anni aumenta ecc.); in generale, fa difetto l'organizzazione testuale, cioè la capacità di riunire le informazioni essenziali su un certo tema, in una sintesi efficace e chiara. Credo che, nella scuola, occorrerebbe dare molto più spazio alla sana pratica del riassunto: una pratica che i giornalisti, cioè coloro che si servono professionalmente della scrittura, conoscono molto bene.
Un altro vecchio tema: la pesante influenza della lingua inglese. È un falso problema? O comunque una preoccupazione esagerata? Quali criteri bisogna seguire, secondo lei, per usare in modo corretto parole inglesi e anglicismi?
Indubbiamente l'influsso dell'inglese comincia a essere un po' invadente. Disturbano soprattutto gli anglicismi provenienti dalle istituzioni, che avrebbero il compito di promuovere il prodotto Italia anche linguisticamente: perché mai quello che ufficialmente si chiama ministero del Lavoro e politiche sociali deve essere ribattezzato, dallo stesso ministro titolare oltre che dagli altri politici, ministero del Welfare? E perché il governo accetta di sottoporsi al question time (invece, magari, che a un nostrano Botta e risposta, come propongono C. Giovanardi e R. Gualdo, in un recente e informatissimo saggio: Inglese-Italiano 1 a 1, Lecce, Manni, 2003)? In molti casi l'anglicismo è segno di un deplorevole provincialismo: si leggono e si sentono in Italia cose che uno statunitense o un britannico non capirebbero (sono pseudoanglicismi come slip invece di pants o knickers, recordman invece di record holder, beauty center ecc.); si adoperano anglicismi là dove francesi e spagnoli ricorrono tranquillamente alle loro lingue (birdwatching - observation ornithologique, observacià³n de pà¡jaros; piercing - pierà§age, anillamiento ecc.). In ogni caso, la reazione deve partire dagli stessi parlanti, o almeno da quelli che occupano posizioni decisive da questo punto di vista: se il direttore di una rete televisiva o di un grande giornale decidesse (per autodisciplina, non per un'impensabile disposizione dall'alto) di sostituire sempre audience e prime time con ascolto e prima serata, le espressioni italiane, già esistenti, si rafforzerebbero e potrebbero avere facilmente la meglio sulle concorrenti.
Ogni anno entrano nei nostri vocabolari centinaia di nuove parole o nuove accezioni di parole già esistenti. Quali sono, secondo lei, quelle che, in modo per così dire più simbolico, esprimono meglio i cambiamenti sociali e culturali di oggi?
Gran parte delle parole che si affacciano sulla scena linguistica sono destinate a esaurirsi presto, senza radicarsi nell'uso. Questo vale, in particolare, per le immagini coniate, con intento scherzoso, dai giornalisti: dalla ormai antica madre di tutte le battaglie di Saddam Hussein si sono ricavate, negli ultimi anni, madre di tutte le partite, madre di tutti gli appalti e perfino nonna di tutte le privatizzazioni (una più ampia documentazione in G. Adamo - V. Della Valle, Neologismi quotidiani, Firenze, Olschki, 2003). Tra i neologismi legati a temi che hanno suscitato e suscitano più risonanza (o più inquietudine) nell'opinione pubblica, si possono citare testamento biologico o guerra preventiva.
Cosa fare per preservare e promuovere l'italiano in modo giusto ed equilibrato?
L'italiano parlato si impara in famiglia (e specificamente dalla mamma: non a caso si parla di lingua madre), l'italiano scritto si impara a scuola. Mi sembra assolutamente necessario potenziare le ore di italiano: attualmente il docente è costretto in un numero ristretto di ore a occuparsi delle cose più svariate (dalla grammatica alla letteratura all'attualità ) e a coltivare negli alunni la capacità di esprimersi nell'orale e nello scritto. La lingua nazionale - lo strumento attraverso il quale affrontiamo qualsiasi aspetto della realtà traducibile verbalmente - deve ricevere speciale attenzione, soprattutto nella scuola elementare e media inferiore.
La lingua è la ricchezza di un popolo
(Luciano Bertazzo)
Vi sarà capitato di sentire dei ragazzini parlare tra loro e di non capire che cosa si stiano dicendo tanto i loro discorsi sono infarciti di parole strane, di espressioni mai sentite, derivate da un loro gergo creativo che inventa parole nuove, storpiando magari le vecchie e adattandovi inspiegabili significati. Oppure di dare un'occhiata al display di un loro telefonino per vedere che cosa stiano compitando con quel pollice che saltella veloce da un tasto all'altro e di non cavarci un ragno dal buco: parole smozzicate, numeri da codici cifrati, un orrendo guazzabuglio per chi è stato educato al gusto della parola capace di esprimere anche le sfumature di un sentimento. Oggi i ragazzi si contentano di poco più di un centinaio di parole per esprimere tutto quello che hanno da dire, accompagnandole con suoni e gesti come se stessero ripetendo, effetti sonori compresi, la scena di un film o di un videogioco.
Se i giovani sono il futuro, c'è poco da stare allegri: la lingua italiana rischia un impoverimento ferale? Per fortuna - come dice il professor Serianni nel dossier - siamo di fronte a una moda che coinvolge un numero limitato di persone e destinata, forse, a cadere. Non in grado, comunque, di sostituire un libro ben scritto, un discorso ben fatto (che poi piacciono anche ai giovani) nei quali possono finire anche strane nuove parole inventate dai ragazzi che poi l'uso codifica e i vocabolari accolgono, segno della vitalità di una lingua. Occorre però vigilare - scuola e mezzi di comunicazione soprattutto - perché la ricchezza di un popolo è data anche dalla ricchezza, varietà e vivacità della sua lingua.