Dar da bere agli assetati
A proposito di fede
«Sorella acqua», un bene da gestire
di Giovanni Ventimiglia
Non basta chiudere i rubinetti e mangiare poca carne. Per risolvere il problema della sete nel mondo servono interventi «ad hoc» – come insegnare a gestire i pozzi e sostenere la ricerca tecnologica – laddove l’oro blu è ancora una risorsa malgestita o un lusso per pochi.
Da quando mio figlio di 6 anni mi ha rimproverato mentre mi lavavo i denti lasciando il rubinetto dell’acqua aperto, mi sento un po’ in colpa, lo confesso, ogni volta che entro in bagno. E non solo quando mi lavo i denti. Perché è evidente che lì dentro faccio uso di acqua per scopi che, di per sé, non richiederebbero né quella quantità (dieci litri circa a scarico di sciacquone), né quella qualità (acqua potabile). Da qualche tempo, poi, mi sento in colpa anche in sala da pranzo. Alla televisione, infatti, hanno spiegato che, per produrre un chilo di carne di manzo, facendo tutti i conti (ossia sommando il necessario per produrre mangimi e foraggio, per nutrire l’animale, per dissetarlo, pulirlo e macellarlo), ci vogliono 15.400 litri di acqua: «Ecco perché la mucca è diventata pazza – ha commentato con simpatia la comica Teresa Mannino (durante il programma tv Se stasera sono qui, trasmesso su La7, ndr) –: per i sensi di colpa!».
Insomma, di fronte ai moltissimi esseri umani che oggi in alcune parti del mondo muoiono ancora di sete, le popolazioni europee e nord-americane si sentono tanto ma tanto in colpa, perché non chiudono i rubinetti quando si lavano i denti, non diminuiscono il gettito dello sciacquone e mangiano carne rossa: tutte azioni considerate ormai culturalmente molto scorrette. Qualcosa, però, non mi torna. L’altro giorno, entrando nella stanzetta di mia figlia di 9 anni, mi sono imbattuto nel suo libro di scienze, aperto proprio sulla pagina dedicata al «ciclo dell’acqua». Vi si spiegava una cosa semplice: l’acqua che circola sulla terra è sempre la stessa da 4 miliardi di anni, e si rinnova continuamente in un ciclo ininterrotto di evaporazione, precipitazione, infiltrazione, scorrimento. Insomma, mentre il petrolio, una volta consumato, non rientra in ciclo, l’acqua invece sì. Perciò, se lascio il rubinetto aperto, pago una bolletta più salata, non esprimo uno stile di vita rispettoso delle risorse che ci sono state affidate, ma non sono colpevole di esaurire le riserve mondiali di acqua, sottraendola a chi, in alcuni Paesi, soffre la sete.
L’acqua si spreca, non c’è dubbio, e si inquina (cosa gravissima!), ma il risparmio di questo bene non si fa solo sui moralismi idrici in salsa ecologista.
Uno dei libri più interessanti sull’argomento, La grande sete. L’era della scommessa sull’acqua di Charles Fishman, chiarisce fin dall’inizio che a rappresentare il problema più serio sono le diverse crisi idriche locali (in alcune zone dell’Africa, dell’Asia e dell’Australia) legate a disomogenee distribuzioni dell’acqua e a differenti possibilità di accesso e gestione dell’acqua potabile.
Di chi è la colpa? Come vuole l’ecologismo alla moda, che trasforma la Terra – uomo escluso – in feticcio da adorare, la colpa è certamente dell’essere umano, dell’inquinamento, con il conseguente surriscaldamento terrestre (che causa però piogge torrenziali non meno di siccità) e, ovviamente, del consumo esasperato. Tutto questo è vero ma, forse, non è tutta la verità.
Perché la soluzione del problema della sete nel mondo non può che venire dall’uomo stesso e dalla sua capacità inventiva. La quale non consiste tanto nel chiudere il rubinetto o nel non mangiare carne – azioni utili più a lavarsi la coscienza che a lavare i panni delle famiglie senz’acqua –, ma, per esempio, nell’insegnare a costruire e gestire pozzi a quelle popolazioni che non sanno farlo, oppure nel sostenere la ricerca e lo sviluppo di impianti di desalinizzazione a nanotubi di carbonio a basso consumo energetico.
Sono questi, infatti, i modi concreti oggi per «dar da bere agli assetati» – attualmente quasi un miliardo e mezzo –, scandalosamente privi ancora di quella «sorella acqua» che Francesco, riassumendone in soli quattro aggettivi tutte le qualità, chiamava utile et humile et pretiosa et casta.
Il consiglio del mese
- Non sprecare acqua in periodi di siccità o in luoghi dove scarseggia e non inquinare falde, fiumi, laghi o mari.
- Sostenere le associazioni – come l’AMREF (African medical and research foundation) – che aiutano le popolazioni indigenti a costruire e mantenere pozzi per il reperimento dell’acqua potabile laddove manca.
- Sostenere programmi politici che incoraggino la ricerca nel campo della desalinizzazione (come quella su alcune nanotecnologie) e la realizzazione dei relativi impianti nelle parti del mondo dove vi è bisogno.
L'opera nelle scritture
Il diritto di bere al proprio pozzo
di Luciano Manicardi
L’acqua è un bene essenziale e inalienabile di ogni essere vivente in quanto tale, che si tratti di uomo, animale o vegetale. Averne accesso significa poter saziare la propria sete di relazione. Perché l’acqua è necessaria alla vita, e senza di essa periscono corpo e spirito.
«Dammi da bere»: così Gesù, osando esprimere il proprio bisogno a una donna samaritana giunta al pozzo di Sicar per attingere acqua, dà inizio a un dialogo al termine del quale né la donna attingerà l’acqua né Gesù la berrà, mostrando che l’acqua che può saziare gli umani è l’incontro, e la loro sete profonda è il desiderio di relazione (cfr Gv 4,1-42). Gesù, annunciando l’acqua dello Spirito Santo e della rivelazione, prometterà l’acqua che disseta per la vita eterna (Gv 4,14; 7,37-39).
Questi due importanti livelli simbolici dell’acqua e della sete – antropologico e teologico – si innestano sulla loro primaria dimensione materiale per cui l’acqua è essenziale alla vita: non c’è vita senza acqua. E terribile è la morte per sete. Dai primi segni di disidratazione (giramenti di testa, la pelle che si secca, comparsa di febbre, senso di disorientamento) si giunge al gonfiore della lingua, all’incapacità di camminare e perfino di trascinarsi per mancanza di forze, allo screpolarsi e spaccarsi della pelle, al sempre più forte innalzamento della temperatura corporea, finché reni e fegato non funzionano più, si perde la capacità di controllare il ritmo del respiro e il battito del cuore, sopravviene il coma e poi la morte. Agar, la schiava di Abramo scacciata nel deserto, rimasta senza acqua, nasconde il figlioletto sotto un cespuglio per non vedere la sua morte per sete (Gen 21,15-16). Per questo il «dar da bere» è precetto sacro e vitale che ritroviamo in un’infinità di tradizioni culturali e religiose. La tradizione veterotestamentaria ricorda che occorre dar da bere anche al nemico (Pr 25,21).
Nel Nuovo Testamento l’assetato diviene sacramento della presenza di Cristo e giudice del gesto di dare o di non dare da bere (cfr Mt 25,35.37.42.44). La tradizione islamica afferma (in un detto – hadit – del Profeta) che «l’uomo che, pur avendo avanzato dell’acqua lungo la strada, la nega al viandante» incorrerà nel castigo di Dio. E, nella stessa tradizione, anche verso gli animali deve valere il «dar da bere»: «Un uomo andava un giorno per la sua strada, quando fu preso da una grande sete. Visto un pozzo, vi scese e bevve. Poi, mentre stava per allontanarsi, vide un cane con la lingua a penzoloni per la sete, che si fermava a mangiare la terra umida. Disse allora fra sé: “Questo cane sta soffrendo quel che soffrivo io”; poi prese i suoi stivali, li riempì d’acqua e, tenendoli con la bocca, risalì e diede da bere all’animale. E Iddio gliene fu grato e gli perdonò ogni cosa». Potremmo andare oltre e ricordare che anche verso i fiori e le piante, verso gli alberi e l’erba, vige questo imperativo non scritto del «dar da bere», perché da tutto ciò che vive sale la supplica: «Ho sete».
Ma la priorità attuale riguarda l’«emergenza acqua» che colpisce intere popolazioni e porta ogni anno alla morte di quasi due milioni di bambini sotto i 5 anni, per malattie legate alla mancanza di acqua o al suo inquinamento. L’acqua è risorsa rinnovabile, ma limitata, e la crisi idrica mondiale la sta rendendo «l’oro blu», un bene prezioso che scatena interessi, corsa all’accaparramento e guerre. Alla base di tale crisi vi sono sì mutamenti climatici, ma soprattutto interventi sconsiderati dell’uomo sul territorio: inquinamento (scarichi civili, industriali, fertilizzanti e pesticidi), deforestazione, costruzione di grandi dighe che alterano la morfologia del paesaggio, il corso dei fiumi e gli equilibri della vita acquatica e terrestre. Oltre all’agricoltura industriale intensiva, che provoca l’impoverimento delle riserve idriche. È necessario riconoscere che l’acqua è un diritto e non una merce. Che la disponibilità e l’accesso all’acqua potabile sono un diritto essenziale non negoziabile dell’uomo. Affinché ognuno possa «bere al proprio pozzo», senza dover dipendere da altri che lo umiliano, dandogli l’acqua, o che lo sfruttano vendendogliela. Se questa preziosa risorsa non verrà riconosciuta come un diritto, col passare del tempo diventerà sempre più un privilegio.
In quella grande parabola che è il western, la ricerca di un pozzo o di un fiume nel viaggio di una carovana di pionieri, o durante la transumanza di migliaia di capi di bestiame, assume spesso il significato di una ricerca spirituale. In film come La carovana dei mormoni di John Ford e Il fiume rosso di Howard Hawks l’acqua diventa un traguardo nel cammino della fede. Sempre John Ford, in In nome di Dio, ne ha fatto un apologo della natività, attraverso la redenzione di tre banditi in fuga dopo una rapina. Nel deserto i fuorilegge, dopo aver salvato da morte certa un neonato, incontreranno, infatti, la salvezza.
Sono tanti i modelli con cui il cinema ha elaborato il precetto del «dar da bere agli assetati», battendo strade diverse che spaziano dalla commedia alla Frank Capra, come Milagro di Robert Redford, alla tragedia redentrice, come La fontana della vergine di Ingmar Bergman. Robert Redford si è fatto paladino di quei poveri di spirito che, per le loro ataviche condizioni di debolezza, diventano il bersaglio di affaristi senza scrupoli. In Milagro, infatti, gli assetati sono i poveri chicanos di una comunità di contadini del Nuovo Messico impegnati nel tentativo di salvare un campo di fagioli dalla speculazione edilizia di un gruppo imprenditoriale che, per appropriarsi del terreno, ha chiuso i rubinetti della condotta idrica. Lo spirito solidale che lega la comunità farà sì che l’acqua torni a scorrere e che i fagioli ricomincino a crescere.
L’acqua emblema di salvezza si contorna, invece, dei segni del sacrificio e del perdono in La fontana della vergine, dove l’odio e la sete di vendetta di un uomo la cui figlia è stata uccisa si estinguono nella penitenza e nel miracolo di una sorgente. Anche il filone bellico e avventuroso trova il modo di farsi interprete dell’opera di misericordia tramite Sahara di Zoltan Korda. Nel 1941, durante la ritirata di Tobruk, in Libia, un carro armato americano si rifugia in prossimità di un pozzo apparentemente asciutto. Le poche gocce che ancora sgorgano dalla sorgente rappresentano qualcosa di più della sopravvivenza. L’acqua diviene emblema di salvezza da guerre, siccità, carestia anche in Vai e vivrai! di Radu Mihaileanu (il regista romeno di Train de vie e Il concerto), nella scena in cui un bambino etiope cerca di trattenere il getto scaturito da una doccia. La liberazione che sconfigge il male si congiunge, infine, nei simboli della sorgente e del serpente in una delle scene più belle di The way back di Peter Weir, il lungo «viaggio di ritorno» – 7 mila chilometri, dalla Siberia all’India – di sette prigionieri evasi da un gulag sovietico nel 1940. Per sete di libertà.
Enzo Natta
In concreto...
C’è un mondo che ha sete
a cura di Nicoletta Masetto
Riccardo Petrella, il fondatore del Comitato mondiale per l’acqua (e attuale presidente dell’Istituto europeo di ricerca sulle politiche dell’acqua), lancia un appello: «L’acqua è un bene pubblico insostituibile. Teniamocela stretta con politiche attente».
L’acqua è un bene che non può essere mercificato, tanto meno privatizzato. Così come la conoscenza. Dell’acqua e della conoscenza l’uomo non può fare a meno. A esserne convinto è Riccardo Petrella, economista politico, da sempre impegnato nella difesa dei «beni comuni» attraverso una costante azione di pungolo nei confronti dei governi perché si riapproprino di tali beni tramite gestioni pubbliche e democratiche. Nel 1997 ha istituito il Comitato per il contratto mondiale dell’acqua. Nel 2001 ha pubblicato il Manifesto dell’acqua, in cui si afferma che l’acqua deve essere considerata come «bene comune», patrimonio dell’umanità. Attualmente è presidente dell’Ierpe (Istituto europeo di ricerca sulle politiche dell’acqua, www.ierpe.eu). «L’acqua è un bene comune pubblico insostituibile per la vita – spiega –. Per questo non possiamo permetterci di privatizzarla o comunque confiscarla ai popoli della Terra affidandola al potere di pochi grandi speculatori».
Petrella è anche fondatore della Facoltà dell’acqua, la prima sorta nell’ambito dell’Università del bene comune da lui voluta. «Le attività sono finalizzate alla promozione di una nuova cultura della società civile fondata sull’accesso all’acqua come diritto umano e alla sua salvaguardia come “bene comune”, grazie all’acquisizione di “saperi” multidisciplinari a partire da esperienze concrete di gestione – sottolinea –. Le sessioni della Facoltà dell’acqua sono realizzate in collaborazione con istituzioni ed enti locali che condividono le finalità dell’Università del bene comune e i principi del Manifesto per un contratto mondiale dell’acqua».
Tra i prossimi appuntamenti, il 22 marzo in occasione della Giornata mondiale dell’acqua, la prima di tre audizioni pubbliche riguardanti il nuovo piano per la salvaguardia delle risorse idriche europee (2016-2030), approvato lo scorso 14 novembre dall’Unione europea. Prima tappa in Veneto, in collaborazione con la Regione: il 22 marzo a Padova, il 17 maggio e il 17 giugno a Venezia. «Dell’acqua è stato fatto un uso vorace e poco sostenibile. Abbiamo prelevato più di quanto la natura sia capace di rinnovare – insiste Petrella –. Qualche esempio? Sono spariti del tutto o quasi dei laghi, come il lago Aral che fino a cinquant’anni fa era il mare interno più grande del mondo. C’è un mondo intero che ha sete.
I dati dell’Onu parlano di circa 1 miliardo di persone sul pianeta che non ha accesso all’acqua. Ma se consideriamo che sono almeno 1 miliardo e 400 milioni le persone che vivono in baraccopoli (dunque in luoghi in cui non esistono infrastrutture), 1 miliardo e 800 milioni circa quelle che vivono in villaggi rurali, 3 miliardi che vivono con meno di 2 dollari e mezzo al giorno e 2 miliardi e 600 milioni che non hanno accesso alle toilette pubbliche, significa che il numero complessivo di persone che non ha accesso all’acqua è di gran lunga superiore, di sicuro più del doppio di quanto dichiarato dall’Onu.
Un dato, infine, mi pare emblematico: secondo le statistiche di International union telecommunication sull’acqua, c’è più gente al mondo (5 miliardi 200 milioni) che ha accesso ai telefonini mobili di quanta (4 miliardi 300 milioni) abbia accesso alle toilette pubbliche. Vien da chiedersi come mai scienza, tecnologia, finanza, banche e grandi imprese siano in grado di garantire telefoni mobili e non condizioni di vita elementari. Se poi guardiamo all’Europa, la situazione non è certo rosea: nonostante politiche di salvaguardia e legislazioni contro l’uso di pesticidi e fertilizzanti, il “buono stato ecologico” dell’acqua è in serio pericolo. Solo il 62 per cento delle acque d’Europa, infatti, può vantare questa definizione che è l’obiettivo primario delle politiche pubbliche di tutela di un bene irrinunciabile».