Chiara, medico in prima linea
Anni vissuti in prima linea, come medico di frontiera. Prima in Nicaragua, ai tempi del conflitto tra sandinisti e contras. Poi in Africa, nella repubblica democratica del Congo (ex Zaire), tra gente piegata dalle sofferenze e da una guerra che ha mietuto vittime a centinaia di migliaia. Fame e guerre. Violenza e morte. Lo scenario è sempre lo stesso. L' esperienza di Chiara Castellani, medico missionario, è racchiusa in queste due realtà , lontane nello spazio e nel tempo, ma accomunate da uno stesso destino di sofferenza e di tragedia. E lei, in Nicaragua come in Africa, porta il suo aiuto per far rinascere la speranza.
Appena incontro Chiara mi rendo conto di avere davanti una persona davvero eccezionale. Glielo leggo negli occhi e lo avverto nella foga delle parole. Parole dettate dal cuore. Un cuore che batte per l' Africa e per la sua gente. La sua vocazione missionaria nasce prestissimo, sui banchi di scuola. «Già all' età di 7 anni - racconta - ricevevo nella mia casa le riviste 'Nigrizia' e il 'Piccolo Missionario'. Ricordo benissimo il giorno in cui, durante l' ora di religione, un missionario ci proiettò una serie di diapositive.
Quelle immagini furono un colpo al cuore. Finito il liceo, decisi di laurearmi in Medicina e successivamente partii come missionaria del Movimento 'Laici America Latina'».
In Nicaragua. Per sette anni Chiara ha svolto il suo servizio in Nicaragua, a Waslala, in trincea, quotidianamente a tu per tu con la morte. «Quando c' era bisogno di sangue per un ferito, non guardavo se era un sandinista o un contras, comunque c' era una vita da salvare. Quando si è umanità sofferente, si diventa tutti uguali. Uguali di fronte a Dio, ma anche di fronte all' uomo».
Molto spesso operava a lume di candela e mentre intorno crepitavano le mitragliatrici è riuscita a far nascere qualche nino moreno. «Mi è capitato più volte di passare dalle cure ai feriti all' assistenza di parti a rischio - racconta Chiara - . E quando prendevo fra le mani la testina del bambino che stava per nascere potevo gridare insieme a quella creatura la gioia di esserci, di essere vivi».
In Africa. Dopo la sua esperienza in America Latina, Chiara ritorna in Italia. Vi rimane poco. Parte per l' Africa, il continente che ha sempre sognato, coinvolta in un programma di intervento sanitario in Zaire, predisposto dall' Associazione italiana «Amici di Raoul Follereau» (Aifo). Nella regione di Bandundu, diocesi di Kenge, l' Aifo gestisce la situazione sanitaria; è impegnata nel ridurre la mortalità infantile, che è molto alta. A Kimbau, nella foresta, a 500 chilometri dalla capitale Kinshasa, c' è un piccolo ospedale, costruito in epoca coloniale, semidistrutto. Non ci sono letti, manca luce e acqua. Gli ammalati sono adagiati a terra. A mandarlo avanti ci sono due suore: una ostetrica e l' altra infermiera professionale. L'' Aifo affida a Chiara, che vi arriva nel 1991, il compito di ridare un minimo di funzionalità alla struttura. Nella zona di Kimbau - 100 mila persone, cento villaggi, venti centri di salute sparsi su una superficie di 5 mila chilometri quadrati - non c' è un medico.
«La situazione sanitaria nel Congo è disastrosa. Ci troviamo di fronte a una 'epidemiologia di guerra', che significa innanzitutto violazione sistematica del diritto alla salute». L' Aifo, in collaborazione con la diocesi di Kenge, ha avviato il programma «Salute per tutti entro il 2000». Le malattie prevalenti nell' area sono molte: aids, malaria, morbillo, tubercolosi, affezioni polmonari, scabbia, anemie, parassitosi intestinali, filariosi, hanseniasi. E poi, la malattia del sonno che, se non curata, uccide chiunque ne venga colpito. «È una malattia devastante che porta alla morte passando attraverso una demenza progressiva. Per curarla spiega Chiara - abbiamo a disposizione un farmaco a base di arsenico scoperto negli anni Cinquanta. Questo farmaco, però, ha effetti collaterali mortali nel 2 per cento dei casi con una possibilità di guarigione del 90 per cento.
Non posso fare di più - aggiunge - . Finora nessuno si è interessato a studiare un farmaco più efficace e meno pericoloso. Purtroppo ad ammalarsi sono soltanto le popolazioni poverissime del Centro Africa». Una situazione che non è migliore nel resto del paese. Gli ospedali esigono il pagamento anticipato di qualsiasi prestazione: dalla scheda di consultazione medica al ricovero, fino all' ultimo farmaco.
A Kimbau manca tutto. Chiara all' inizio ha solo le poche medicine che ha portato con sé. E anche in seguito sono gli aiuti che arrivano dall' Italia a consentirle di operare. È l' unico medico nel raggio di centinaia di chilometri. I pazienti sono tanti, per tutti una medicina e una parola buona. Non si risparmia un istante. «Potrebbe essere quello che serve a salvare una vita», dice, e le si inumidiscono gli occhi.
Un giorno, mentre Chiara rientra da Kinshasa con un carico di medicine e di riso, la Land Rover sulla quale viaggia, per una brusca frenata dell' autista, si rovescia. Lei rimane schiacciata. È soccorsa subito, ma la situazione appare gravissima. «Come medico mi resi conto subito di aver perso il braccio, ma dovevo, in quel momento, salvare la vita». Il braccio le viene amputato. Potrebbe lasciare l' Africa, tornarsene a casa. Per gli altri ha già dato tanto. Ma Chiara non abbandona. «Nonostante quello che mi era successo, ero contenta di essere viva. Per me era la cosa più importante: la dimostrazione che Dio esiste ed è sempre pronto ad aiutarti».
Dopo una serie di cure in Italia e l' applicazione di una protesi, ritorna, in Angola prima e poi di nuovo a Kimbau. «La gente ha pregato per mesi Nzambi (Dio) perché la loro 'mamma italiana' tornasse - commenta - . Non me la sono sentita di venir meno alle promesse che avevo fatto loro. I poveri non possono essere abbandonati, perché già sono stati abbandonati una prima volta».
Guerra continua. La situazione in Congo è di continua emergenza. C' è una guerra che miete vittime a non finire, anche fra i civili. «Nella nostra diocesi sono state ammazzate molte persone, altre sono scomparse. Le malattie completano le stragi. A volte io vorrei gridare le ingiustizie di cui sono testimone, ma non ho la forza per farlo. Nessuno mi sentirebbe. Nel 1998 ho visto sequestrare dai militari il medico della mia zona. Era considerato un loro nemico. L' hanno portato via ed è sparito nel nulla.
Ho saputo dopo che era stato ucciso. Abbiamo assistito a episodi di violenza e di morte senza la possibilità di reagire». «La Chiesa africana ha in questo momento un ruolo profetico, un ruolo mantenuto senza mai scendere a compromessi con il potere - dice Chiara - . La Chiesa congolese sta vivendo un ecumenismo di fatto. Cattolici e protestanti sono vicini ai congolesi, partecipano alle loro sofferenze e al loro anelito alla pace. Non c' è niente di più estraneo al popolo congolese di questa guerra. Questi popoli sono profondamente legati alla vita. Ci sono sì etnie differenti, che si confrontano nella loro relazione con la terra, patria dei loro antenati.
Ma non c' è violenza nei loro rapporti. Solo le Chiese cattolica e protestante, sanno essere loro voce».
Chiara è ancora lì, tra la sua gente. Lavora delle sei del mattino fino a sera inoltrata. Visita i malati, si dedica alla formazione del personale sanitario sottoponendosi a marce faticose nella foresta, guadando fiumi, per raggiungere le località più lontane.
Si occupa anche dell' educazione alla salute e all' igiene della gente. Un lavoro incessante che non ha conosciuto tregua, neppure durante la guerra e le stragi che hanno provocato la cacciata di Mobutu e la vittoria di Kabila, e ora anche la fine di quest' ultimo.
Molti la invitano a lasciare il Congo, dove la situazione, dopo l' uccisione di Kabila, s' è fatta ancor più incerta.
Ma lei risponde: «Non posso lasciare la mia gente; per loro, in questo momento sono l' unica speranza».
UN APPELLO DI CHIARA
A quanti hanno a cuore la sorte dell' Africa, Chiara rivolge un appello: «Rompete il silenzio. Il silenzio uccide ed è complice di tutti i crimini che si consumano nel continente africano. Date voce ai popoli africani, alle nostre sofferenze. Soltanto la pressione internazionale verso i potenti della terra può veramente far loro provare vergogna per quello che stanno facendo, per i crimini a cui stanno condannando l' Africa. Occorre rompere questa indifferenza». |