Benedetta Bianchi Porro
La straordinaria esperienza di una ragazza del nostro tempo che, pur afflitta da una terribile malattia, non ha mai perso la gioia di vivere e la certezza che Dio esiste ed è amore: scoperta che ha trasmesso ai tanti amici che le sono stati vicini sino alla fine. |
Un amica lettrice di Forlì ci chiede di parlare di Benedetta Bianchi Porro, una giovane dei nostri giorni che ha saputo tramutare la sua malattia in un' esperienza straordinaria di serena sopportazione, di speranza, di vita. La accontentiamo, anche se nel brevissimo spazio della rubrica non potremo dire che due cose in croce, ripromettendoci, però, di ritornare su di lei, che è una figura davvero straordinaria. Tant' è che Giovanni Paolo II, di recente, ha riconosciuto il valore esemplare della sua vita proclamandola venerabile.
Benedetta era nata a Dovadola, nel forlivese, l' 8 agosto del 1936. Una vita brevissima la sua (è morta nel 1963), stroncata da una malattia senza scampo, il morbo di Reklinghausen che lei stessa, studentessa di medicina, aveva diagnosticato, anticipando il responso dei medici. Una malattia terribile che annullò progressivamente tutte le facoltà del suo corpo immobilizzandola in un letto; le risparmiò solo la parola, l' intelligenza e la sensibilità della mano destra, attraverso la quale, usando particolari segni, familiari e amici continuarono a comunicare con lei, e ad attingere alla straordinaria ricchezza e alla forza interiore di cui era provvista, che le hanno fatto affrontare la malattia in modo unico, diventando punto di riferimento, motivo di conforto e di speranza per tanti che fisicamente stavano assai meglio di lei.
Fu la sordità il primo disagio che dovette soffrire, e non fu cosa da poco per una che aveva scelto la facoltà di Medicina (per essere utile a chi soffre), poi fu la vista a crearle noie. E fu proprio in questo periodo che lei scoprì l' origine del suo male. Imedici, dopo aver confermato la diagnosi, intervennero per arginarne le inevitabili conseguenze: due interventi al cervello che Benedetta affrontò con straordinaria serenità , più preoccupata per i guai e le sofferenze che gli altri dovevano patire per colpa sua che per i propri. Anzi, tra un intervento e l' altro diede gli esami di patologia, tra i più complessi del corso, uscendone benissimo.
Intanto, il male progrediva nella sua opera di devastazione. Benedetta, consapevole di quello che via via le sarebbe successo, non si ribellò mai, anche se la paura e la disperazione erano sempre in agguato. Non maledì il suo stato, ma neppure si sedette sulla riva a guardare inerte il fiume della sua vita scorrere: vi si immerse portando a galla quanto di bello e di buono le riusciva. Cercò nelle esperienze, anche le più dure e le più amare, la trama del disegno di Dio. E scoprì che era un disegno d' amore. «Nel mio calvario - scriveva - non sono disperata. Io so che, in fondo alla vita, Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora a letto, che è la mia dimora, ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà , gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli& Le mie giornate non sono facili, sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio».
E così, giorno dopo giorno, Benedetta cresceva interiormente raggiungendo oasi di serenità impensate. Certo, a prezzo di lotte durissime, di progressi e di sconfitte. Sotto gli occhi stupefatti degli stessi familiari.
Nella sua casa di Sirmione gli amici non mancavano mai. Benedetta era per loro una compagna di viaggio, un amica, solo un po' più saggia perché tanto provata e perché aveva saputo accettare Dio nella propria vita e da lui si lasciava guidare ricavandone pace, gioia di vivere e fiducia. E sapeva confidare le sue conquiste spirituali, le sue certezze con semplicità , e con le parole di tutti i giorni sapeva tradurre i concetti della più alta teologia. Da una ragazza che viveva così, non si poteva che andare a fare un pieno di speranza; gli incontri con lei erano una cosa preziosa e le sue lettere (che dettava alla mamma) fari di gioia e di luce che aiutavano a vivere. Benedetta confidava loro la sua scoperta e cioè che «Dio esiste ed è amore, fedeltà , gioia e certezza»; che «dà la croce e poi la resurrezione»; che tutto è «come la primavera che sboccia, rifiorisce e profuma dopo il freddo e il gelo dell' inverno».
Tra le sue ultime lettere una, scritta ai fratelli, ha il sapore di un testamento: «Io me ne vado - dettava alla mamma - e vi lascio il mio cuore e la mia fede. Torno a Dio bambina. Vogliatevi bene: io vi ho amato. Amate la vita, perché anch' io sono stata contenta di quello che Dio mi ha dato».
Benedetta moriva il 23 gennaio 1963, dopo aver cantato con voce dolce e insolitamente sicura un vecchio ritornello; dopo aver gioito per una rosa bianca che era fiorita nel giardino. Le sue ultime parole furono per un amico che a un settimanale aveva raccontato la sua storia amara e disperata: «Ditegli che gli voglio bene - sussurrò alla mamma - .Grazie».
O FFRO A DIO I FIORI DEL MONDO
«A Dio offro tutti i fiori del mondo che sono sotto il sole sbocciati. Ecco perché attendo serena, perché i giorni passano nell' attesa di Lui, che io amo nell'aria, nel sole che non vedo più, ma che sento egualmente nel suo calore, quando entra attraverso la finestra a scaldarmi le mani, nella pioggia che scende dal cielo per lavare la terra». |