L’islam, un pericolo incombente?
A Trastevere lo chiamano tuttora «Padre Martini», in ricordo di quando, nei lontani Settanta, dava una mano alla Comunità (laica) di Sant`Egidio, assistendo un vecchio mangiapreti. Costui apprese che quel signore torinese così umano e attento, mai turbato da quei compiti sgradevoli che l`assistenza a un invalido comporta, era un sacerdote, addirittura un gesuita, soltanto il giorno in cui «Padre Martini» lasciò Roma. Allorché glielo dissero: «Gesù», esclamò il vecchio anarchico. Martini lasciava Roma per Milano. Lui, lo scabro padre gesuita, sognava di trasferirsi a Gerusalemme «per sempre», invece il Papa lo destinò a Milano, arcivescovo di quella «non facile» diocesi, per citare il giudizio che ne diede papa Montini. «Padre Martini» è stato di recente in Terra Santa, guida di 1200 pellegrini. Martini non parla di pellegrinaggio quanto di «itinerario di conoscenza»: volendo con ciò significare che parallela al viaggio religioso operava una missione diplomatica, per così dire «carsica».
Sapremo a tempo e luogo dei risultati di codesta missione, ma possiamo sin d`ora immaginare l`emozione del cardinal Martini sacerdote. Due anni fa, il cardinale rilasciò a chi scrive una lunga intervista, apparsa sulla «Stampa» il 20 di dicembre: una pagina intera. Ebbe vasta eco, anche su diversi media stranieri ma, qui, voglio citare una mia domanda, a proposito di Gerusalemme. «Lei Eminenza sognava di fare il sacerdote in Terra Santa, invece il Papa, un giorno, decise di spedirla a Milano, arcivescovo della città del pietoso sant`Ambrogio. Non senza dolore, mi dicono i nostri amici della Comunità di Sant`Egidio, lei ubbidì. Ebbene, se potesse ritornare indietro nel tempo, rifarebbe quell`atto d`obbedienza che ha così fortemente modificato la sua vita di uomo e di sacerdote?». «Non ho nessuna difficoltà a risponderle poiché come gesuita sono legato al Papa. Infatti, ogni gesuita ha un quarto voto (oltre ai tre: di povertà - di castità - d`obbedienza) ed è quello di 'obbedienza speciale' al Sommo Pontefice. È una caratteristica della Compagnia di Gesù, sicché io rifarei atto di obbedienza. Tuttavia ` aggiunse Martini ` io mantengo il desiderio di recarmi, un giorno, a Gerusalemme. Per restarvi. È il centro del mondo: Gerusalemme, Al-Quds, Jerushalayim. Il luogo ideale per pregare. Lì, a Gerusalemme, mi piacerebbe finire la mia vita terrena. Pregando. Per la pace di tutti i popoli». (Questo mi disse allora il cardinal Martini e penso che ricordarlo ai lettori sia cosa buona e giusta).
Specie in un momento come questo, turbato dall`allarme manifestato da alcuni bravi vescovi durante il recente sinodo episcopale di Roma. Per dirla spiccia dopo tanti bei discorsi sulla necessità e sui frutti del dialogo con l`islam, ecco che si torna a paventare un «pericolo islamico». Che si tradurrebbe, secondo alcuni pubblicisti di ispirazione curiale, in un`offensiva, non solo religiosa, dell`islam contro il mondo cristiano.
Dirò subito, come studioso dell`islam, in forza del mio lavoro di giornalista svolto soprattutto in paesi della sfera islamica, che un`invasione islamica è tecnicamente impossibile. Intanto i paesi islamici son fra di lor divisi, il che fa sì che non esista un solo islam bensì tanti, forse troppi. Prendiamo i Talebani: i «famosi» studenti del Corano (paradossalmente ignari del Libro sacro ai maomettani perché non lo han letto o, peggio, non l`hanno capito) promanano da una delle 77 sette dell`islam pakistano. Di più: c`è una distanza abissale (che si traduce in diversità sociali e comportamentali) fra l`ortodossa, rigida Arabia Saudita (wahabita di stretta osservanza) e la mediterranea Tunisia. (Da codesta differenza fra un islam e l`altro nasce l`impossibilità di trattati di reciprocità fra la nostra Chiesa e l`islam, giustappunto perché non esiste un interlocutore unico, qualcuno che possa parlare a nome di tutto l`islam). Per tornare al pericolo d`una valanga islamica, destinata a sommergerci: ammesso e non concesso che esista un islam solo, compatto: come farebbe a invaderci? Con quali divisioni, e navi e aeronautica?
Voglio esser franco: il pericolo di una avanzata dell`islam è in noi. È nel nostro comportamento invero poco cristiano. Cosa opponiamo noi cristiani, noi cattolici alla fede forte, fatta di obbedienza, soprattutto, e di rigide regole di vita, professata dai musulmani? Risposta: baloccamenti semantici o pseudo dottrinali tipo New Age o certo buddismo-rock. E la routine della messa domenicale. Piero Gheddo, missionario e scrittore, racconta nel suo Il Vangelo delle 7,18 (De Agostini, 1989) che un giorno, a Tarbela, un chirurgo pakistano dopo averlo invitato a bere un caffè gli disse: «Mi scusi, padre, ma di voi italiani non ho capito una cosa. Perché non pregate mai? Vede, io sono musulmano e prego cinque volte al giorno. Anche qui nel mio ufficio ho un piccolo tappeto rivolto alla Mecca, sul quale mi inginocchio durante la giornata per pregare. Non mi sarebbe possibile vivere senza pregare». Qui a Tarbela c`erano tremila italiani con le famiglie, hanno costruito una bella chiesa: era quasi sempre vuota. Vi sono andato anche la domenica: non c`era più di qualche centinaio di persone. Mi dica: perché voi italiani non pregate? Come fate a vivere senza pregare?». «È vero ` scrive don Gheddo ` i musulmani pregano più di noi cristiani, come d`altronde tutti i popoli dell`Oriente e gli africani». E qui io mi domando: perché? Perché i cristiani non pregano quanto dovrebbero o potrebbero? Forse perché non sanno più pregare? E allora, con Luca (11,1) diremo: «Signore, insegnaci a pregare».