Drammi dimenticati. Filippine.Il Paradiso brucia
Gli alberi di mango sono un'esplosione di vita: lucidi, ricchi di foglie e frutti carnosi, spiccano nel paesaggio arido. Il «Nino», la grande siccità che ha allontanato la stagione delle piogge e la speranza di una semina ormai non più prorogabile, non attacca queste piante sagge, che accumulano grandi risorse d'acqua e riescono a sopravvivere nonostante l'arsura. Noel, Felicita, Carlita, Pedro, guardano con orgoglio e preoccupazione il pezzo di terra che si stende sulle montagne di Sibuco: l'hanno strappato alla deforestazione rapace che, come già accaduto in altre zone di Mindanao, sta violentando la terra e affamando i contadini. La loro esperienza, quella della cooperativa «St Nino organic farm» (Snof), racconta in piccolo uno degli ultimi capitoli della storia delle Filippine che, dopo gli anni della dittatura Marcos, stanno tentando di voltar pagina.
Sibuco, 21mila abitanti in maggioranza sparsi in decine di villaggi lungo la costa e sulle montagne, fino agli anni Settanta è stata teatro della guerra civile tra cristiani (il 30 per cento della popolazione) e musulmani (55 per cento). L'economia è ancora oggi governata da poche famiglie locali, ma se in passato i contadini dei monti erano costretti a portare a valle il riso, il mais, a macinare e a vendere al prezzo imposto dai commercianti della zona, oggi le cose stanno diversamente. Circa otto anni fa, infatti, veniva lanciato un programma pastorale finalizzato a metter su una serie di cooperative agricole. La prima a nascere è stata proprio la Snof. «Il vescovo, monsignor Josè Manguiran, mi ha chiesto di venire a vivere con i contadini», racconta un padre, Rolando del Torchio, 39 anni, missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere) e perito agrario, al quale è stata affidata la gestione del programma. «Abbiamo prima di tutto iniziato la costruzione della comunità , speso ore interminabili bevendo vino di palma e fumando le sigarette dei monti e piano piano ci siamo accorti che era possibile qualcosa di diverso». Duecento famiglie si organizzano per produrre e coltivare: «Era la prima volta che in questa zona si stava insieme senza armi, per un fine pacifico. E quest'esperienza ha provocato le reazioni più impensate: il sindaco di allora, che controllava tutto il commercio, ha tentato di boicottarci; poi sono arrivate le minacce di morte, quando chi saccheggiava la foresta si è sentito in pericolo perché i contadini, presa coscienza che la terra è un bene, si sono messi contro la deforestazione». In quell'occasione il missionario è stato costretto a celebrare messa con il giubbotto antiproiettile, a camminare con la scorta. Oggi padre Rolando vive nella città di Dipolog, da dove segue la formazione di altre cooperative. E la «St Nino organic farm» è completamente autonoma, con un suo mulino, uno spaccio e una foresteria per accogliere gli ospiti. Tre famiglie coordinano le attività della fattoria e fanno vita comune, condividendo momenti di preghiera e organizzando i corsi di formazione per i contadini.
Eppure a questa storia non può essere scritto il «lieto fine» con troppa tranquillità . La terra fa gola, e per ottenerla si usa ogni strategia, dalla minaccia alla corruzione. Per questo, la Chiesa locale ha organizzato dei programmi di coscientizzazione per contadini e pescatori. «Non è solo il legname pregiato l'obiettivo dei tagliatori illegali», racconta Richard Button, della commissione «Azione sociale, giustizia e pace» della diocesi di Dipolog. «La deforestazione è un modo per pulire la montagna e permettere l'ingresso alle compagnie minerarie. Qui, come in altre parti dell'isola, ci sono giacimenti di oro. Una volta che la montagna è 'calva', arrivano le miniere». La tattica è sempre la stessa: viene propagandato un nuovo progetto di sviluppo, si tenta di comprare i leader locali, che vengono poi usati per convincere la gente a cedere il proprio pezzo di terra. Le promesse non mancano: «Si dice che ci sarà una piantagione su cui loro avranno dei diritti, e poi privilegi per i figli, nuove case altrove. L'obiettivo numero uno è accaparrarsi la terra; il secondo è garantire lo spopolamento, e il terzo è esplorare e saccheggiare il territorio».
È già accaduto. Come nel caso degli abitanti di Lalab, una frazione della città di Sibutad, a nord della penisola di Zamboanga. Sia i piccoli minatori - che estraggono l'oro come i vecchi pionieri del far west - sia i pescatori della vicina Baia di Morcellagos hanno visto piano piano la loro terra invasa dalle compagnie minerarie straniere. I primi, sono stati danneggiati, più che dalla concorrenza, dalla deforestazione, che ha tolto vigore alla montagna e l'ha resa come di panna, pronta a sciogliersi alle prime piogge e a inondare di fango i villaggi. I secondi, denunciano l'impraticabilità del mare: «Le nostre risorse naturali sono perdute, i pesci, che sono i primi ad avvertire quando l'ambiente non è più sano, stanno andando via. Al suo arrivo, la Compagnia aveva promesso di portarci acqua potabile, ma non l'ha mai data. Si è limitata a inquinare quella del mare», denuncia Arcadio L. Limbago, capo della municipalità dell'isola di Sinipay, 32 ettari per 800 abitanti al centro della baia. Sotto accusa - da parte delle organizzazioni non governative, ambientaliste, di volontariato, e della Chiesa - è soprattutto il «Mining Act», un provvedimento legislativo del '95 varato dal governo dell'allora presidente Ramos. «Ha sancito la 'development aggression', che è l'esatto contrario dello sviluppo sostenibile», sostiene Daniel Conejar, responsabile della ong Task force detainees of the Philippines».
«Questo Atto ha il solo scopo di portare capitali esteri nella casse dello Stato. Di fatto, sta impoverendo la nostra terra, perché da un lato, la sta svendendo agli stranieri e dall'altro, sta avendo un effetto distruttivo a più livelli: oltre ai danni ambientali, all'aumento della disoccupazione, vanno contati quelli alle popolazioni indigene, i cosiddetti tribali, che finiscono per essere dispersi, allontanati da quei territori dove abitano da secoli». La denuncia di Daniel è supportata da chiari numeri: la commissione ecumenica «Displaced families and communities» ha documentato i casi di dispersione di oltre ventimila famiglie, nell'isola di Mindanao.
La stessa Conferenza episcopale delle Filippine aveva denunciato con forza, già dieci anni fa, questa situazione in una lettera pastorale dal titolo «Cosa sta accadendo alla nostra terra meravigliosa?». Nel febbraio scorso è ritornata sull'argomento, proprio in relazione ai danni causati dal «Mining Act», con un appello specifico al presidente della Repubblica. Ma se Ramos non ha dato risposte soddisfacenti, nulla sembrano attendersi i vescovi dal nuovo capo dello Stato, Joseph Estrada, eletto l'11 maggio scorso. Per il loro candidato ideale i vescovi, a partire da Sin, il cardinale di Manila, avevano chiesto «competenza, leadership qualificata, una vita privata irreprensibile».
E invece Estrada vanta un curriculum da ex attore, una vita sentimentale turbolenta e un eloquio populista e accattivante che affascina ma non indica serie strategie politiche. Il problema non è tanto questo o quel presidente, sostiene padre Angel Calvo, clarettiano, 53 anni, da circa trenta nelle Filippine. «Il vero dramma è che questo paese manca di una cornice ideologica: le elezioni non sono basate sui programmi, ma sulla personalità dei contendenti. E dopo 300 anni in convento con gli spagnoli e 50 a Hollywood con gli americani, le Filippine rischiano di mancare di una loro identità culturale, si affidano all'uomo carismatico. Per questo le elezioni le vincono attori e sportivi». La stessa pratica democratica è appena agli inizi. Dopo la fuga precipitosa di Marcos, nell'86, «Ci siamo progettati come paese libero, adulto, ma di fatto non riusciamo ancora a sperimentare la democrazia», dice Emmanuel Napigkit, di «Task force detainees of the Philippines». «A causa della forte povertà le persone possono essere comprate, manipolate con lusinghe e promesse elettorali. La Chiesa sta tentando di fare educazione politica, ma non basta». L'intera vicenda elettorale, a partire delle piccole elezioni sotto casa, è stata condizionata dalla compravendita dei voti. Non è un caso che i vescovi filippini siano tornati sulla cosa più volte: «Dobbiamo lavorare e chiedere alla gente di non vendere il voto».
A Dipolog, prima delle elezioni, una preferenza era pagata 1500 pesos, la metà di uno stipendio medio mensile. «Bisogna fare uno sforzo molto più grande, adesso, per aiutare le persone a capire», dice Emmanuel. «Con il 'Nino' che avanza e lo spettro della fame, la gente è molto più sensibile ai soldi che alle parole».