MARTIRI PER L’UOMO E PER IL VANGELO
La notte del 26 aprile 1998, mentre scendeva dall'auto per entrare in casa, il vescovo ausiliare di Città del Guatemala, monsignor Juan Gerardi, è stato assalito e colpito ripetutamente alla testa con una grossa pietra, sino alla morte. Appena due giorni prima, aveva presentato un drammatico documento intitolato «Guatemala Nunca Mas» (Guatemala, mai più!): il frutto di tre anni di inchiesta, condotta con l'aiuto delle diocesi, per far luce sulle stragi di trentasei anni di guerra civile, che si calcola abbiano causato duecentomila fra morti e desaparecidos, su una popolazione di una decina di milioni. Ebbene, l'inchiesta attribuiva all'esercito, ai paramilitari e alla polizia la responsabilità dell'80 per cento di queste morti e alla guerriglia «solo» (si fa per dire, perché si tratta sempre di qualche migliaia di uccisi) più del 10 per cento (il restante rimane ignoto).
Immediatamente, l'opinione pubblica ha messo in relazione l'assassinio del vescovo guatemalteco con il suo rapporto: monsignor Gerardi era conosciuto e amato per l'opera a favore degli indios e, all'inizio degli anni '80, era già stato costretto ad auto-esiliarsi dal paese per sottrarsi alle minacce dei militari. Il suo assassinio è caduto come un macigno sul processo di pacificazione e di democratizzazione in atto in Guatemala dopo la fine della lotta armata.
Sono andato nel Paese per condurre un'inchiesta e raccogliere alcuni pareri. Christian Tomuschat, un tedesco incaricato dall'Onu di condurre una ricerca storica parallela a quella che ha portato alla morte monsignor Gerardi, esclama: «Si tratta del primo crimine politico registrato nella capitale dopo la fine del conflitto armato». In vescovado, nella sede dell'Ufficio dei diritti umani dove lavorava anche il vescovo assassinato, mi riceve Nery Rodenas, un laico che si occupa degli affari legali. Mi enumera tutti i suoi dubbi sulle investigazioni condotte dalla polizia. È stato arrestato, quasi subito, Carlos Enrique Vielman, un «balordo» legato a una banda di strada, che avrebbe agito da ubriaco, per aggredire e rubare. E tuttavia, molti elementi rimangono perlomeno dubbi: Vielman è basso e ha un braccio deforme, mentre l'assassino ha infierito con una pietra su un uomo alto come il vescovo. Inoltre, è stato riconosciuto solo da un testimone. È probabile che il presunto assassino verrà processato e condannato, ma anche se fosse stato lui, appare lo strumento ideale per un assassinio su commissione, personaggio debole e «marginale», facilmente influenzabile. La stampa guatemalteca titola: «Un caso con più dubbi che certezze» e anche il mio interlocutore, Rodenas, è quasi sicuro che non si riuscirà a risalire ai mandanti, che il caso verrà archiviato nei dubbi, come tanti altri delitti politici qui in Guatemala.
Così nel Salvador è rimasto impunito - caso mai raggiunto dalla «mano di Dio» con una malattia che non dà scampo - il politico-militare che la vox populi indicava unanimemente come il mandante dell'assassinio dell'arcivescovo Oscar Romero, ucciso in chiesa da un cecchino il 24 marzo 1980. E nel caso della strage dei sei padri gesuiti dell'«Università Centro-Americana», avvenuta sempre in Salvador la notte del 16 novembre 1989, in mezzo ai combattimenti, non si è risaliti oltre il «secondo livello».
Il Centro-America e, in genere, l'America Latina stanno dando una messe di martiri cristiani. Qualche lettore ricorderà un film televisivo di Massimo Spano, trasmesso il 27 maggio scorso, dalla indimenticabile colonna sonora, intitolato La casa brucia. Il protagonista, padre Toni, un missionario italiano che salva un bambino dell'Amazzonia dalle mani di un latifondista è in realtà padre Lele, il comboniano Ezechiele Ramin partito dal Veneto e assassinato a trentadue anni, nel 1985. Oggi, nello stato brasiliano di Redondo, dove fu ucciso, molti ragazzi di undici-dodici anni portano il suo nome, si chiamano Ezechiele. Testimoni cristiani uccisi perché lottavano a favore dei diritti di indios e diseredati. Ma sbaglieremmo se li considerassimo solo martiri dei diritti umani: in realtà la loro testimonianza era ed è più globale, è la testimonianza evangelica che si impegna per il dialogo e l'amore globalmente, totalmente, anche verso gli stessi persecutori. Per questo diventano l'obiettivo simbolico di chi predica e pratica l'odio e la violenza, chi non accetta il metodo non-violento della comunicazione e della democrazia.
Quarantamila campane di tutte le chiese di Francia si sono unite a suonare a morto il 26 maggio 1996. Commemoravano i sette monaci trappisti di origine francese rapiti e sgozzati sulle montagne algerine dagli integralisti mussulmani del «Gia» (Gruppo islamico armato). Neanche tre mesi dopo, il 1° agosto dello stesso anno, l'arcivescovo di Orano, il domenicano Pierre Claverie salterà con l'autista e l'auto di fronte a casa sua. La bomba telecomandata era stata azionata ugualmente dai terroristi fondamentalisti. Eppure monsignor Claverie, appartenente a una famiglia francese che viveva in Algeria da tre generazioni, era sempre stato uomo di dialogo, apertissimo a tutti. Un suo amico italiano, il professore Enrico Ferri dell'università di Roma, mi ha ricordato che l'atteggiamento di monsignor Claverie non era tanto quello di condannare il fondamentalismo degli altri, quanto di ripudiare il fondamentalismo che può esserci dentro di noi. La sua frase preferita era: «Dobbiamo anzitutto far pulizia davanti a casa nostra».
Dall'Algeria scendiamo all'Africa nera. Nel genocidio, anzi nei genocidi che hanno colpito Ruanda e Burundi, c'è chi ha puntato il dito anche verso la Chiesa cattolica. Non tutte le accuse sono pretestuose, se due preti ruandesi sono stati condannati a morte (pena poi commutata nell'ergastolo) per aver incitato all'uccisione dei tutsi. Giovanni Paolo II ha chiesto pubblicamente perdono per chi ha peccato contro Dio e contro i fratelli. Ma se colpe ci sono state, durante il colonialismo e anche oggi nel preparare il terreno alle tragiche lotte razziali, esse sono ampiamente riscattate dal sangue dei martiri. Il primate del Burundi, monsignor Joachim Ruhuna, di origine tutsi, è stato assassinato assieme a due suore e alcuni laici il 10 settembre 1996 perché predicava la pace e la riconciliazione fra tutsi e hutu. In un'omelia aveva paragonato a Caino fautori ed esecutori dei genocidi, «Assassini che errano senza pace come figli maledetti».
A Buyengero, una piccola missione non lontana dal lago Tanganika, sempre nel Burundi, due tombe ricordano i padri saveriani italiani Aldo Marchiol udinese, e Ottorino Maule vicentino. Accanto, la tomba della trentina Katina Gubert, volontaria laica. La strage, avvenuta a fine settembre 1995, continua a non avere autori certi. Padre Ottorino, che era stato anche superiore dei saveriani italiani, aveva scritto: «Riceviamo continue minacce perché siamo testimoni scomodi delle ingiustizie perpetrate». Ma la loro voce non si è spenta con la morte. Aggiungeva padre Maule: «Possiamo essere gli uomini dell'equilibrio, i pacificatori, l'elemento unificante tra le due razze». Oggi nel martoriato Paese, il Burundi, si sta facendo strada la trattativa fra governo tutsi e guerriglieri hutu sotto l'egida della Comunità romana di sant'Egidio, per aprire infine la via alla convivenza pacifica.
È la messe dei martiri che dà i suoi frutti. Anche in Guatemala la riconciliazione degli spiriti, difficilissima dopo quasi quarant'anni di odio e di tragedie, sta faticosamente avanzando. Il presidente della conferenza episcopale,Victor Hugo Martinez, parlando del vescovo-martire monsignor Juan Gerardi, ha detto: «Il dono più grande che la Chiesa può ricevere è un vescovo martire».