Dalla vita. Nostalgie di orfani
Gli orfani vanno e vengono. Noi, gli orfani. Orfani delle ideologie pervasive. Orfani delle patrie tiranniche. Orfani di un consumismo esigente, che riempie tasche e pance ma lascia vuoti testa e cuore. Che scalda il desiderio ma raggela l'anima. Orfani delle cento fedi di questa terra. Irrimediabilmente orfani, che abbandonano l'unico vero Padre, ne cercano il surrogato ora qua ora là , e ritornano a lui a mani vuote.
Due anni e mezzo fa fece scalpore l'articolo di un orfano illustre, un autorevole campione del laicismo come Eugenio Scalfari. Era il gennaio del 1996. Da qualche giorno era stata diffusa la notizia che una commissione episcopale stava predisponendo una revisione linguistica della preghiera del «Padre nostro». Il 21 gennaio, una domenica, Eugenio Scalfari così scriveva sulla prima pagina de «la Repubblica»: «Quando la sventura ci colpisce, quando la fatica del vivere si fa più pesante, quando il mistero ci assedia e il senso della vita ci sfugge, ci viene quasi automatico di alzar lo sguardo verso l'alto alla ricerca d'un sostegno o almeno d'un interlocutore». «Padre nostro», appunto.
Scalfari fa professione di fede cristiana? Non precipitiamo le conclusioni. Poco dopo continuava: appellarci a un «Padre» che «sta nei cieli» significa «rompere la solitudine, superare la nostra finitezza, raccordarla con l'eternità e ribadire la nostra importanza nel momento stesso in cui riconosciamo la nostra impotenza di granello di polvere. Noi siamo un nulla di fronte all'Eterno, ma la convinzione d'esser suoi figli, da lui creati, ci dà la certezza di partecipare in qualche modo alla sua eternità . Siamo le creature predilette del cui destino egli si è dato carico fin dall'inizio».
Ma Scalfari è laico troppo orgogliosamente convinto della forza e della superiorità della ragione, della ragione moderna, per accettare questa sua premessa, per dar credito al suo desiderio. Il problema è che lui, come tantissimi altri orfani di fine millennio, ha un'immagine povera, schematica, riduttiva di Dio Padre. Un padrone, più che un genitore buono. Giudice distante e freddo. In un certo senso, molto simile al «padre» dei laici, la ragione: fredda, esatta, impersonale e astratta. Orfani, perché tutto comincia e tutto finisce con l'individuo.
Concludeva Scalfari: «Sperare che ci salvi un Padre che sta nei cieli è una fuga». Dobbiamo salvarci noi. «Qui e ora». E implicitamente indicava ai credenti la sfida di questi anni difficili, perché complessi e confusi: dimostrare con la vita che la vera fuga è di chi si rifiuta di alzare gli occhi all'insù, di chi si ostina a non ascoltare il richiamo del Padre vero, quello che sta lassù, e non di cento piccoli padri che stanno quaggiù, annidati nelle cose e nelle idee. Dimostrare che un Padre c'è, ci ama, e per vedere il quale l'unica strada è quella dell'amore, non del fine sillogismo o del calcolo. E soprattutto comprendere che il Padre è «nostro», non solo mio né solo tuo. Nostro, dell'intera umanità . Quella colta e quella incolta, quella bianca e quella nera, quella ricca e quella povera. È forse il passaggio più difficile per degli orfani che cercano di costruirsi un'identità a spese altrui, conquistando e dominando, affermando supremazie senza senso. Che, se un padre non ci fosse, un senso invece lo avrebbero. l
% Difficile, dunque, ma intrigante il compito che spetta ai cristiani:
dimostrare che c'è un Padre comune a tutta l'umanità , un Padre vero che
ci ama. E per dimostrarlo non c'è altro che la via dell'amore, che è anche
il nucleo della più bella preghiera che Gesù ci ha insegnato, il «Padre
nostro», che è anche il cuore e la sostanza di tutto il suo insegnamento.
La parola di Dio
Una preghiera,
un modo di vivere
di Rinaldo Fabris
Se per caso si perdessero i quattro Vangeli, in cui è conservata la memoria storica di quello che Gesù ha detto e fatto, si potrebbe ricostruire il loro messaggio essenziale sulla base del Padre nostro. Questa preghiera che Gesù propone ai discepoli è il cuore e la sostanza di tutto il suo insegnamento. Prima di essere una formula da recitare il Padre nostro è un modo di vivere davanti a Dio in un rapporto di libertà e fiducia filiale, come lo ha vissuto Gesù. Egli, infatti, presenta il Padre nostro come un esempio di preghiera semplice che si contrappone sia al formalismo di chi è abituato a dire preghiere per dovere, sia all'ansia di quanti pregano per evitare le disgrazie o chiedere qualche cosa di cui hanno bisogno. Gesù dice che per pregare non c'è bisogno di andare in qualche luogo particolare, perché il Padre sta nel cuore dei suoi figli e li ascolta. Neppure c'è bisogno di dire molte parole «perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: 'Padre nostro che sei nei cieli...'».
Questa invocazione iniziale, che dà il titolo alla preghiera dei discepoli, riassume tutta la loro preghiera. Infatti Gesù, prima di insegnare a pregare ai discepoli, vive la sua relazione con Dio come quella di un Figlio, in tutte le scelte decisive della sua vita. Egli inizia la sua attività pubblica dopo che la voce del cielo, in occasione del battesimo nel fiume Giordano, proclama: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». Come Figlio fedele al Padre, Gesù affronta e smaschera le tentazioni dell'avversario nel deserto. Al posto del miracolismo e del potere, Gesù sceglie la via della fedeltà filiale. Egli annuncia il regno di Dio ai poveri e ai peccatori come manifestazione dell'amore di Dio che interviene a loro favore come re giusto e fedele.
Coerente con questa scelta, Gesù benedice e loda il Padre, Signore del cielo e della terra, perché rivela il suo disegno di salvezza ai «piccoli». Questi sono i suoi discepoli e la gente semplice, che non hanno il potere e la cultura degli esperti della legge, i quali si considerano i clienti di Dio. Gesù ringrazia Dio, il Padre, perché egli si rende presente nei suoi gesti e nelle sue parole di Figlio. Infatti Gesù può dire di conoscere Dio come un figlio conosce suo padre. Perciò nessuno può incontrare Dio come Padre se non per mezzo suo.
Gesù vive fino in fondo la sua relazione di Figlio anche di fronte alla prospettiva della morte. Dopo la cena di addio con gli amici, prima dell'arresto, Gesù si ritira a pregare nell'orto del Getsemani. In preda alla tristezza e all'angoscia mortale, nella preghiera intensa rivolta al Padre egli ritrova la sua libertà e la fiducia di Figlio. Con insistenza chiede al Padre di essere liberato dalla morte, ma alla fine dice: «Sia fatta la tua volontà » (Mt 26,42). Gesù nella preghiera riconosce e accoglie la volontà del Padre suo, che non vuole la sua morte, ma il compimento del suo regno nonostante la morte voluta e già decisa dalle autorità del tempio e dai magistrati del sinedrio. Gesù invita i discepoli a pregare con lui «per non cadere nella tentazione». In questa preghiera di Gesù alla vigilia della sua morte c'è la sostanza del Padre nostro. Gesù che invoca Dio come Padre, sa che egli santifica il suo nome e realizza il suo regno per mezzo della sua fedeltà filiale. Lo ha detto ai discepoli alla fine della cena, dando loro appuntamento nel regno del Padre suo. Perciò egli conclude la sua preghiera con la piena adesione alla volontà del Padre.
Dunque, Gesù prima di insegnare il Padre nostro ai discepoli come esempio di preghiera, lo vive nella sua missione storica. Essa ha il sigillo della sua fedeltà a Dio fino alla morte. Dio ha ascoltato la preghiera di Gesù e l'ha esaudita mediante la sua risurrezione dai morti. Chi oggi prega il Padre nostro nel nome di Gesù sa che Dio non è una entità astratta e lontana. Egli è il Padre celeste che in Gesù, suo Figlio, è vicino e presente nella vita e nella morte di tutti i suoi figli. l
Abbà , il Dio di Gesà
Gesù si rivolge a Dio nella sua lingua, l'aramaico, chiamandolo dolcemente abbà , che significa papà . Abbà è parola infantile, una delle primissime parole che il bambino impara a pronunciare: «Non appena egli sente il sapore della culla (cioè quando è divezzato), dice abbà e immà (papà e mamma), si legge nella tradizione ebraica. Anche divenuti adulti, i figli continuano a usare questa parola con atteggiamento di confidenza e di rispetto, in un clima affettuosamente familiare». (Catechismo degli adulti 166).
Per riflettere
n Che tipo di relazione hai con Dio? Con una realtà generica è astratta oppure con il Dio Amore che Gesù ci ha rivelato?
n Quando preghi il «Padre nostro», pensi alle conseguenze che la preghiera deve avere nella vita personale e nella società ?
n Se il compito dei cristiani è quello di testimoniare l'amore di Dio, ti sembra che ciò avvenga nella tua comunità ?
n Ti è mai capitato che una esperienza positiva di amore per gli altri, tutti gli altri, ti abbia sollecitato all'emulazione?
n Sei d'accordo anche tu con quanti sostengono che la figura del padre è sinonimo di autoritarismo e di coercizione?
n Ti è mai capitato di sperimentare in modo forte la paternità di Dio?
n Ritieni possibile una società senza padri?
n Ritieni che questo cammino di riflessione intorno a Dio Padre e a Dio Amore possa introdurre atteggiamenti nuovi nella società : di solidarietà , di condivisone, di rispetto e di tolleranza?
% E allora, prima di essere una formula da recitare, il «Padre nostro» è un modo di vivere davanti a Dio, in un rapporto di libertà e fiducia filiale sull'esempio di Gesù; è la sintesi di tutto il Vangelo: ci rivela il volto di Dio Padre, ci fa sperimentare che siamo figli, ci rende disponibili ad accogliere e attuare il regno di Dio nella nostra vita. Vediamo come il catechismo
degli adulti affronta questo tema, alla luce anche della crisi che,
a partire dal Sessantotto, ha travolto l'immagine e la figura del padre.
Catechismo degli adulti
Dio Padre cammina con gli uomini
di Lucio Soravito
Fin da piccoli siamo stati abituati a pregare Dio, chiamandolo «Padre», come ci ha insegnato Gesù, al punto che la paternità di Dio appare come la cosa più ovvia, più scontata. Ma che cosa significa questa parola, «padre», che attribuiamo a Dio?
«La figura paterna è vista con sospetto nella cultura moderna, specialmente quando è riferita a Dio. Sarebbe sinonimo di potere autoritario e fonte di alienazione» (Catechismo degli adulti [CdA] 324). In effetti, la rivoluzione giovanile sessantottesca ha messo in crisi la «società dei padri», auspicando l'avvio di una «società senza padre», dentro la quale si sono poi messe tutte le rivendicazioni di eguaglianza possibili: quelle dei giovani nei confronti degli adulti; dei figli nei confronti dei genitori; degli alunni nei confronti dei maestri, dei sudditi nei confronti dei superiori, delle donne nei confronti dei maschi...
Sul concetto di «padre» hanno influito negativamente, più della rivoluzione giovanile del Sessantotto, le teorie di due padri della cultura moderna: Freud e Nietzsche.
Freud ha preteso di mostrare che dentro ognuno di noi si nasconde la nostalgia del «padre»; inconsciamente detestiamo chi ci ha generato, lo consideriamo rivale, quasi da eliminare, salvo poi aspirare di assumerne su di noi i ruoli, la grandezza, la superiorità .
Nietzsche ha preteso di andare più a fondo ancora: dentro di noi l'aspirazione alla libertà si scontra con un muro invalicabile che è la pretesa di coloro che vogliono imporci la legge morale, guidare la nostra coscienza; e il «padre» allora richiama soprattutto codesto imperialismo interiore, di cui bisogna sbarazzarsi.
Dunque, la parola «padre» è diventata evocatrice di fantasmi da esorcizzare, di sconfitte da riparare. Come si fa, oggi, a parlare di Dio come «padre», dentro una cultura che ha demonizzato i «padri»?
n La riscoperta di Dio Padre
In questo contesto culturale, si può ancora pregare Dio chiamandolo «Padre», purché la «paternità » di Dio non sia delineata a partire dalla nostra esperienza, ma sia invece scoperta attraverso un percorso di evangelizzazione, che ci aiuti a cogliere il volto di Dio, come si è manifestato all interno della storia della salvezza e soprattutto nella persona e nella parola di Gesù di Nazareth.
Il catechismo degli adulti La verità vi farà liberi appare come una progressiva introduzione all'incontro con Dio Padre, secondo il percorso indicato da sant Ireneo: «Per Cristo, nello Spirito, verso il Padre». Dio Padre è come una vetta: vi si arriva solo al termine di una lunga e faticosa salita, che parte dall'ascolto di Gesù Cristo e dalla sequela di lui e passa attraverso l'esperienza della donazione, frutto dell'azione dello Spirito.
Il catechismo si propone, dunque, di «dire Dio» all'uomo di oggi, di incontrarlo e riconoscerlo progressivamente come Dio Padre, cioè come Dio «fedele», amante della vita, «alleato» dell'uomo, di ogni uomo; come Dio «liberatore» che fa crescere l'uomo e lo educa all'incontro e alla comunione piena con lui e con tutti gli altri uomini.
Il catechismo degli adulti è la guida preziosa che ci accompagna in questo cammino di scoperta del volto di Dio Padre: un cammino mai esaurito tra l'immagine che noi coltiviamo di lui e la realtà della sua persona. Diventa anche una guida per verificare il volto di Dio che noi annunciamo; infatti, sono frequenti le contraffazioni del suo volto, che si insinuano nel nostro modo di annunciarlo.
n Dio Padre cammina
con gli uomini
Già i primi due capitoli del catechismo degli adulti: L'uomo in cammino e Dio cammina con gli uomini, lasciano intuire il volto di Dio che il catechismo intende presentare. Se l'uomo, pur tra dimenticanze, distrazioni e sospetti, non smette di cercare Dio (capitolo I), è ancora più vero che Dio cerca l'uomo, si offre al suo riconoscimento, non per sottometterlo, ma per offrirsi come interlocutore, come risposta ai suoi problemi più profondi (capitolo II).
È significativo, a questo proposito, il rimando all'incontro di Gesù con la Samaritana al pozzo di Giacobbe (cf. CdA 3): esso presenta il cammino dell'uomo verso Dio, ma ancora di più il cammino di Dio verso l'uomo. «Da sempre gli uomini cercano Dio con la loro sete di vita, di verità , di sicurezza e di felicità . Da sempre Dio li illumina, li assiste e li sostiene in questa ricerca; li attrae segretamente a sé per le molte strade delle religioni e delle culture» (CdA 42).
Dio rivela il suo amore di Padre in modo del tutto particolare nell'esperienza del popolo d'Israele. «In un ambito storico particolare, Dio liberamente esce dal silenzio e apre un dialogo esplicito e diretto. Si pone di fronte all'uomo come interlocutore personale; gli va incontro, gli rivolge la parola, lo chiama apertamente a sé e gli manifesta progressivamente il suo progetto di salvezza» (CdA 43).
Israele sperimenta la premurosa bontà di Dio nei suoi confronti e la paragona a quella di un padre per il proprio figlio: «Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio... A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano... Io li traevo con legami di bontà , con vincoli d'amore; ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi chinavo su di lui per dargli da mangiare» (Os 11,1-4; cf. CdA 167).
n Fedele agli uomini
L'amore fedele di Dio Padre e il suo farsi prossimo all'uomo si manifesta soprattutto nella persona di Gesù Cristo. Gesù, attraverso il messaggio che annuncia e le opere dell'amore che compie, manifesta il mistero di Dio, cioè la sua disponibilità per noi. Le parole e le azioni di Gesù, la sua contestazione di tutto ciò che offende l'uomo, ci dicono che il regno di Dio è qui e che questo Dio che regna è «Padre».
Gesù ci rivela in che senso Dio è Padre attraverso quello che egli fa e dice. Gesù dà dignità a tutte le persone che ne sono prive e non hanno libertà : ai peccatori, alle donne, ai malati, agli ignoranti, a tutti coloro che nel Vangelo sono chiamati «piccoli». Attraverso questa sua benevolenza verso i «piccoli», Gesù ci dice che Dio è «Padre» nel senso che fa strada con i «piccoli» per ridare loro dignità , con i peccatori per ridare loro un nuovo futuro, con i deboli per sostenerli nel cammino della vita.
La presentazione più bella della paternità di Dio è quella che Gesù ci fa attraverso la splendida parabola del padre che va incontro al figlio scapestrato che torna a casa. «Il figlio prodigo, nel suo folle capriccio, può volgere le spalle e fuggire di casa, per andare a sperperare i beni ricevuti; ma il Padre misericordioso aspetta con ansia il suo ritorno; gli corre incontro, lo abbraccia commosso e fa grande festa» (CdA 169).
«Il regno di Dio, che in Gesù si manifesta, è la vicinanza misericordiosa e la paternità di Dio nei confronti di tutti gli uomini. Dio vuole essere 'Abbà ' anche nei nostri confronti; vuole che ci avviciniamo a lui con lo stesso atteggiamento filiale, la stessa libertà audace e fiducia sicura di Gesù... Gesù da parte sua cerca in tutti i modi di risvegliare il sentimento vivo della paternità e della tenerezza di Dio. Gli uomini devono convincersi che sono amati dall'eternità e chiamati per nome; che non sono nati per caso e non sono mai soli nella vita e nella morte. Possono non amare Dio, ma non possono impedire a lui di amarli per primo» (CdA 169).
San Paolo sottolinea questa immagine di Dio Padre, cioè di Dio liberatore e fedele, affermando che l'accoglienza di questa paternità ci rende «figli», cioè uomini liberi, non più soggetti alla paura: «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi [cioè di uomini liberi], per mezzo del quale gridiamo: 'Abbà , Padre!'» (Rm 8,15; CdA 169).
Siate perfetti come il Padre vostro / di Giacomo Panteghini
Portiamo in noi il Dna di Dio
«L'anno del Padre» ci invita ad allargare gli orizzonti della nostra vita personale e collettiva. Ci parla della nobiltà impegnativa della nostra origine, della vita come pellegrinaggio verso la casa del Padre, del dovere di comportarci da fratelli, superando gli egoismi e le divisioni che da sempre lacerano la convivenza umana.
Sul piano personale la fede in Dio come nostro Padre ci dice che non siamo piccoli ed effimeri atomi sperduti nellimmensità dell'universo, comparsi chissà come e destinati a sparire dopo breve tempo senza lasciare traccia nel silenzio profondo della morte. Ci assicura che Dio è un Padre che ci ha pensati e voluti dall'eternità e per l'eternità , in una storia che, se pur ci vede come fugaci meteore nell'orizzonte della vicenda terrena, prende l'avvio da Dio e approda di nuovo a Dio. Perché, in realtà , il luogo della nostra nascita è il cuore di Dio. Ce lo ricorda san Paolo: «Il lui ci ha scelti prima della fondazione del mondo... predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,4-5). Credere che Dio ci è Padre significa essere consapevoli che la nostra vita affonda le sue radici il lui. Portiamo in noi non solo il Dna dei nostri genitori, ma anche, e prima ancora, quello di Dio.
Sul piano comunitario pensare a Dio come nostro Padre comune significa superare le condizioni di un mondo babelico (quello della incomunicabilità , delle divisioni e delle contrapposizioni) e tendere a un mondo pentecostale (quello riunificato in un unico Spirito e che riattiva la comunicazione inceppata). Significa superare il mondo di ieri con troppi padri e il mondo di oggi senza padre. Il mondo dai troppi padri che, in nome di origini, ideologie, storie e appartenenze diverse ha giustificato per secoli le divisioni religiose, sociali, politiche, razziali, generando una conflittualità perenne. Il mondo senza padre di oggi che, nato dal declino delle istituzioni e delle ideologie, sta seminando ovunque smarrimento e disorientamento, con il conseguente bisogno di aggrapparsi a ogni possibile à ncora di sicurezza, anche la meno plausibile (basta osservare l'equivoco ritorno del sacro nella religiosità postmoderna). In questa situazione l'annuncio cristiano di Dio come Padre di tutti si presenta anche come rimedio ai tanti mali che affliggono l'umanità : se tutti siamo figli dello stesso Padre, dobbiamo considerarci tutti fratelli e vivere come tali, amandoci, rispettandoci, accogliendoci, aiutando i più deboli. Certo, questa paternità va capita correttamente, alla luce di quanto ci ha detto e mostrato Gesù Cristo.
Il Padre di cui parla la fede cristiana non è quello delle varie culture umane e delle nostre diverse esperienze personali - questo padre è notoriamente oggi in crisi - ma «il Padre del Signore nostro Gesù Cristo», quel Padre buono, provvidente, paziente, misericordioso che si è manifestato a noi in Gesù di Nazareth. È il Padre che cerca la pecorella smarrita, che va incontro al figlio prodigo, che fa piovere e sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, che contrasta la tendenza sempre diffusa tra di noi a eliminare la zizzania (ciò che ci disturba) per favorire quello che riteniamo il buon grano. Ma è anche il Padre che ci chiede conto dell'uso dei talenti e che ci vuole suoi imitatori: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Un Padre che impegna i suoi figli a essere come lui: buoni, accoglienti, solidali, misericordiosi, giusti, pronti al perdono e alla riconciliazione. Dio è amore e vuole che l'amore sia la norma di vita per i suoi figli. Per questo la Tertio millennio adveniente abbina al tema del Padre quello della carità : Dio è Amore e vuole che i suoi figli facciano dell'amore la norma della loro vita. È, infatti, la carità il Dna dei figli del Padre celeste.
Padre «nostro», non Padre «mio», ci ha insegnato a dire Gesù, per farci capire che dobbiamo evitare ogni appropriazione di Dio. Noi siamo proprietà di Dio, ma Dio non è proprietà di nessuno. L'appropriazione porta all'idolatria, a strumentalizzare Dio, riducendolo a proiezione dei nostri sogni (e spesso dei nostri difetti, come mostrano molte religioni). Come pure a giustificare le divisioni religiose, sociali, nazionali, personali. Pregare Dio come Padre «nostro» significa, invece, disporci a essere degni di lui, suoi imitatori, a lavorare per la realizzazione della sua volontà di unità , di giustizia e di pace, a impegnarci per l'avvento del suo regno in un mondo ancora largamente dominato dall'egoismo. Porta a concepire la nostra vita come un processo di continua conversione, come un pellegrinaggio verso la casa del Padre. Un pellegrinaggio che, come ci ricorda il papa nella Tertio millennio adveniente, coinvolge l'intimo della persona, allargandosi poi alla comunità credente per raggiungere l'intera umanità .
Dizionarietto
n Freud Sigmund, neurologo e psichiatra austriaco,1856-1939. Fondatore della psicoanalisi, un metodo di cura delle psiconevrosi che si serve delle interpretazioni dei contenuti profondi della psiche, estranei al campo della coscienza e della loro azione nei confronti del comportamento normale o patologico.
n Nietzsche Friedrich, filosofo tedesco, 1844-1900. Personalità complessa, alla base della quale ci sono l'amore per la vita e l'entusiastica ammirazione per la vitalità creatrice. Inizialmente vede nell'arte un modo di superamento del male insito nella realtà . Teorizzò, poi, la filosofia del superuomo.
n Contestazione. Movimento giovanile di protesta che tra il 1968 e il 1976, mise a soqquadro il mondo degli adulti, dagli Stati Uniti all'Europa, contestandone il ruolo, l'autorità , la visione del mondo e della vita e invocando la fantasia al potere. In essa anche la figura del padre, vista come strumento di coercizione autoritaria, fu oggetto di contestazione.
La testimonianza
Mille colori al Centro Astalli
% Ecco come, nella concretezza della vita, il cristiano può dimostrare
che siamo figli dello stesso Padre, tutti,
a prescindere dall'etnia, dalla religione, dalla cultura.
di Vittoria Prisciandaro
«Di che colore è la pelle di Dio?», si chiedeva il ritornello di un vecchio canto. «È bianca, rossa, nera, gialla...», rispondeva la strofa. Colori, popoli, paesi. Restando nella metafora possiamo dire che tutte le sfumature della storia degli ultimi anni sono passate dalla porticina verde di via Degli Astalli.
Questo angolo di Roma, tra la chiesa Del Gesù e il Campidoglio, è un po'come un crocevia dove si intrecciano esistenze provenienti dai più diversi angoli delle terra. È qui che le voci e le grida di guerre dimenticate, il lamento di popoli calpestati nei diritti umani e nella dignità , trovano volto e si fanno storia di vita.
«Qui sperimentiamo che i poveri ci spingono a collaborare e a mettere insieme il meglio di noi stessi», dice padre Francesco De Luccia, il gesuita che dall'agosto del 1994 dirige questo servizio per rifugiati politici. «Al Centro Astalli viviamo in concreto il senso della fraternità universale: può esistere una collaborazione e un confronto sui valori a prescindere dall'orientamento religioso».
Così, sotto le stanze dove sant'Ignazio visse gli ultimi anni della sua vita, c'è una finestra spalancata sul mondo. Volle aprirla, nel novembre del 1981, padre Arrupe, allora generale dei gesuiti. Guardava verso l'Etiopia, che mostrava centinaia di profughi in fuga dal regime dittatoriale di Menghistu e arrivavano a Roma in cerca di una possibilità di vita.
Dall altra parte del globo, alcuni gesuiti davano vita a un servizio simile, in Thailandia e Cambogia. Tra di loro c'era Mark Raper, australiano: «Padre Arrupe, durante un anniversario di Hiroshima, dichiarò che il problema dei rifugiati è come la bomba atomica: lascia dei morti ma colpisce al contempo l'immaginario collettivo. Così ci chiese di servire la vittime, ma anche di richiamare l'attenzione sulla necessità della pace».
Sono questi gli inizi del Jesuit Refugee Service, il servizio dei gesuiti per i rifugiati, presente in circa cinquanta paesi e diretto, a livello internazionale, da padre Raper. A Roma il Centro del Jesuit Refugee Service viene chiamato «Astalli», dal nome della via. All'inizio erano panini, indumenti, coperte; oggi i volontari che collaborano sono circa cento, la mensa offre oltre 250 pasti ogni sera, due dormitori accolgono 80 posti letto, cinque volte alla settimana funziona la scuola di italiano, il servizio guardaroba per la distribuzione di indumenti, il centro ascolto e orientamento, l'ambulatorio, dove ogni pomeriggio si alternano medici volontari.
In questi quindici anni, alla porticina verde in ferro in via Degli Astalli, la storia ha bussato con violenza centinaia di volte. Come nel caso di Egidio Molinas, il corpo e l'anima segnati dalla lotta per la libertà . In Paraguay era chirurgo affermato, oggi, in Italia, lavora in un cantiere e nel tempo libero fa lo scrittore. La guerra non manca mai all'appello tra gli ospiti del centro: dalle regioni della ex Jugoslavia, dal Sudan, dall'Angola e, in tempi più recenti, dalle città assediate del Kurdistan e dal Kossovo.
«Si era partiti con l'emergenza Etiopia, ma oggi la maggioranza dei nostri ospiti sono curdi», racconta Stefano Canu, che ha iniziato nel 1988 come volontario, ha proseguito da obiettore e ora lavora al Centro come vicedirettore. «Un paio di settimane prima che la Turchia invadesse parte del Kurdistan irakeno da noi sono arrivati decine di profughi kurdi. E abbiamo capito che le cose stavano peggiorando». Proprio dall'Irak arriva l'incontro che ha lasciato il segno un po'in tutti gli operatori del Centro, quello con Mohamed Abdul Rasul: «Era irakeno, giunto in Italia a 64 anni con il corpo segnato da un tumore e dalle torture subite nelle carceri di Saddam Hussein e il cuore oppresso dal dolore dei due figli ammazzati dal regime - racconta Stefano - . Il suo conforto è stato avere un paio di occhiali, di quelli che si vendono in farmacia a trentamila lire, per guardare la foto della moglie. Un uomo che in silenzio - parlava solo arabo - è riuscito a conquistare tutti noi che lo abbiamo conosciuto. Il giorno della sua morte gli è arrivata una lettera, la prima, da parte della famiglia che per tanto tempo aveva cercato di contattare: 'Siamo felici di sapere che sei arrivato in Italia sano e salvo'. Gli amici hanno fatto una colletta per assicurargli la sepoltura nella sua terra».
È un delle tante storia di violenza e di speranza approdata in via Degli Astalli. Padre Francesco De Luccia sostiene che «ogni persona che si presenta è una storia a sé con possibilità diverse, accoglierla vuol dire mettere da parte tutte le proprie preconvinzioni».