Le tigri riprenderanno a correre?
Fra non molto, sarà un anno dall'inizio della crisi delle economie asiatiche: cominciò con la caduta della borsa di Hong Kong, dopo la riunificazione con la Cina, e poi si trasmise, con effetto-domino, alle cosiddette 'tigri asiatiche': i paesi che si erano distinti per una crescita molto forte, dalla Corea alla Malesia, dalla Thailandia all'Indonesia. Dal premier malese sul banco degli imputati fu subito chiamato Mahathir Mohammed, autore di un pamphlet a favore del 'modello asiatico' intitolato significativamente L'Asia che sa dire di no (sottinteso: all'Occidente); il solito finanziere ungaro-statunitense George Soros, che avrebbe giocato al ribasso prevedendo un deprezzamento della moneta di Hong Kong rispetto al dollaro. Fu detto: 'Quando Soros muove i sei fondi di investimento statunitensi che controlla, è come una carica di elefanti: nulla resiste al loro passaggio'. Se c'è del vero in questa immagine, la realtà è però più profonda, e molti hanno puntato il dito sui limiti del cosiddetto 'modello asiatico', sino a ieri magnificato in toni quasi epici.
Vediamo cosa aveva previsto un economista statunitense, Paul Krugman, che ci aveva azzeccato in anticipo, col saggio Il mito del miracolo asiatico, che è di tre anni prima, del 1994. Krugman, usando 'termini asiatici' tratti dal Tao, cioè dalla dottrina di Laozi (vissuto nel secolo VI o V a.C.), aveva affermato che l'Asia si era sviluppata 'espirando, non inspirando', cioè utilizzando in estensione manodopera a bassi salari e forti investimenti più che ottimizzando in profondità la forza lavoro e la tecnologia. E che quindi il suo sviluppo avrebbe presto trovato un limite, di fronte alle economie occidentali più lente, ma fondate su fattori di crescita - come la produttività totale - più sicuri. Le conseguenze della crisi sono state pesanti, per popolazioni che avevano da poco sconfitto la paura della fame e della povertà .
Sui media, così facili a esprimersi per iperboli (e quindi a creare psicosi di massa), si è passati dalle celebrazioni delle 'tigri ruggenti e invincibili' alla denigrazione più acritica, quasi che delle economie dinamiche si fossero trasformate d'un sol botto in un coacervo di inetti privi di immaginazione, incapaci di inventare nuove soluzioni.
Primo imputato, questa volta, il Giappone, la cui crisi viene da più lontano, risale addirittura al 1990, quando si spezzò la bolla speculativa del Kabucho-to (la Borsa di Tokyo) e del mercato immobiliare. Alcuni segni sono simili a quelli degli altri paesi asiatici: insolvenza e minacciato crollo delle banche private, debolezza in genere delle strutture finanziarie, che hanno rivelato intrecci e connivenze pericolose fra potentati dell'economia e potentati della politica (potremmo dire: la tangentopoli asiatica). Tuttavia il Giappone, e qui sta la differenza, è un colosso, che può influenzare da solo sia la vasta regione Asia, sia l'economia globale'.
La crisi, in Giappone, non è economica con riflessi sociali come nel resto dell'Asia - la popolazione continua a vivere bene, la disoccupazione rimane bassissima - ma è diventata un male più sottile e più profondo, una crisi di sfiducia dell'intera popolazione verso la propria classe politica. Il premier Ryutaro Hashimoto ha lanciato, in aprile, un piano di 140 mila miliardi di lire fra tagli di tasse e investimenti in lavori pubblici, per stimolare l'economia. Ma basterà per convincere la gente a comprare di più oppure il di più di yen a disposizione delle famiglie si tramuterà in un surplus di risparmi, fra un popolo già molto parsimonioso? Un venditore di perle della Ginza, la strada delle vetrine più sfavillanti di Tokyo, ha espresso bene il malessere giapponese a un giornalista italiano con questa parafrasi: 'I soldi sono come le perle, che possono restare chiuse quando hanno paura. Se l'ostrica non si apre, la perla muore. Ma vorrà l'ostrica aprirsi?'. Per il Giappone, dunque, la soluzione passa prima dalla politica, per poi arrivare all'economia.
Sino a una decina di anni fa, mi era difficile spiegare ai colleghi della stampa estera appena arrivati in Italia il diagramma delle correnti democristiane. Devo dire che questo era per loro il puzzle più ostico. Invece, un collega giapponese mi disse: 'La capisco facilmente. Anche noi abbiamo un partito simile, al potere dal dopoguerra, diviso in innumerevoli correnti e innumerevoli notabili'. È il partito liberal-democratico, ancor oggi saldamente al potere, malgrado gli scricchiolii provocati dai continui scandali, quasi fisiologici dopo un cinquantennio di commistione a tutti i livelli dello stato. Ma, a differenza da noi, in Giappone non c è stata una tangentopoli liberatoria, anzi il partito liberal-democratico e le sue correnti, dopo un offuscamento momentaneo, hanno rimesso le mani sullo stato, generando la convinzione, nella popolazione, che non esiste alternativa e che la scena politica è immutabile.
In un'Asia che ha traballato, sinora la Cina ha tenuto bene. La sua moneta, lo yuan, non è collegata al dollaro, e quindi rimane al riparo dalle speculazioni internazionali. Il governo cinese è venuto al soccorso di Hong Kong - recentemente 'recuperata' alla madre patria - evitando crolli di banche. La Cina è stata anche protetta dalle sue importanti riserve di valute forti occidentali e dal debole indebitamento dello stato verso i suoi cittadini. Di fronte a questi segni, fra gli economisti c'è chi si è sbilanciato a pronosticare, con lo statunitense Gary Stanley Becker, che uno degli effetti della crisi asiatica sarà di spostare l'asse da Tokyo a Pechino. È certo troppo presto per dirlo, ma potrebbe diventare un movimento reale di più lunga prospettiva.
Quando e come finirà la crisi asiatica? Anche qui gli economisti sono divisi, e non mancano i giudizi catastrofici. Lo statunitense Peter Drucken esclama: 'L'Asia mi fa paura. Quando le tensioni sociali diventano troppo forti, basta un solo incidente per far saltare la polveriera'. Ma se escludiamo quelli che Giovanni XXIII, nella sua saggezza, avrebbe definito 'profeti di sventura', le previsioni sono più ottimistiche. Lo stesso Paul Krugman, che aveva pronosticato la crisi, crede che le tigri riprenderanno a muoversi, se non a correre. E indica uno dei motivi che gli incutono fiducia: 'Gli asiatici hanno sempre una rendita preziosa: l'alto livello di istruzione'. E, come si sa, una economia qualificata non può non trovare al suo interno la molle per riprendersi.