Santificare la festa
La quale non è per nulla un rito da strapazzare o da percorrere all'infuriata, senza prestare un minimo di cura e mantenendo la mente e la libertà intente ad altro. Fosse così, la messa non meriterebbe un briciolo di tempo e di fatica: si disegnerebbe unicamente come una sorta di sadica tortura immotivata da cui si farebbe bene a liberarsi.
Ma la messa è ben altro, per fortuna. È l'avviarci dalle nostre case verso un 'convenire' sul sagrato della chiesa e nell'assemblea dentro la chiesa, per scoprirsi e sentirsi membra del popolo di Dio e del corpo di Cristo. È il portare davanti al Signore le nostre sofferenze e le nostre fugaci e lievi letizie e i nostri desideri e i nostri peccati perché il Signore Gesù assumi tutto in sé e tutto porti a lode del Padre e a nostra salvezza. Il Signore Gesù che si rende presente tra noi per attualizzare il suo morire e il suo risorgere che ci coinvolgono nell'avventura della conversione e della santità .
Per capire, almeno per intuire, occorre semplicemente cambiare logica. Una cosa è il sottomettersi a una legge anonima e ferrea che, magari, non riesce a giustificarsi del tutto su un piano puramente razionale o, addirittura, di convenienza. Un'altra cosa è entrare in uno schema di amore in base al quale la messa ci appare come il punto e il momento più intimi e realistici dell'incontro tra Cristo e noi e della fraternità tra noi credenti. Allora ci si stupisce di questa scoperta della dimensione comunionale che siamo chiamati a vivere con i fratelli di fede. Allora si rimane conquisi e attoniti di fronte alla imprevedibile iniziativa di Dio che si svela e si dona nel Signore Gesù, il quale viene a perdonarci e a congiungerci a sé come figli del Padre nell'unigenito Figlio fatto uomo.
Si dica che è poco. Se si accetta tutto ciò con spirito di docilità e di freschezza d'animo, ci si accorge subito che il precetto non è soltanto un'arida legge.
Sia chiaro: è anche una legge, dal momento che non sempre siamo consapevoli dell'amore che Dio ci ha offerto e a cui dobbiamo rispondere; non sempre vibriamo di meraviglia davanti a questo irrompere di Dio in carne umana; non sempre avvertiamo una gioia adeguata alla comunione fraterna che il Signore ci prepara. In queste tappe di aridità occorre che un imperativo chiaro ci ricordi il minimo che dobbiamo al Signore.
È altrettanto chiaro, però, che colui il quale avverte di essere stato raggiunto da una dilezione immotivata e infinita da parte di Dio, non percepisce più la legge come un vincolo: la avverte, piuttosto, come la logica conseguenza di un regalo a cui è necessario e si desidera rispondere. La legge, allora, interpreta una esigenza e, anzi, segna il minimo indispensabile che si deve compiere, stimolando a fare il massimo possibile.
Letto in questa prospettiva, il precetto festivo si rivela come una esigenza che non ha nulla di coartante; che, anzi, va assunta e superata nello slancio dell'amore. Nello slancio, quando c'è.
Si intravede, qui, che l'irridere la legge della chiesa è niente di meno che una mancanza di fede. Segna una banalizzazione di un rapporto di amore con Dio e con il prossimo che guarisce e reca a pienezza la personalità umana dentro la comunione con Cristo e con i fratelli di fede.
Va da sé che una impossibilità fisica o morale esonera dal precetto festivo. Ma questo è tutt'altro caso. All'impossibile nessuno è tenuto, e la chiesa è ben lieta di riconoscere delle ragioni scusanti: scusanti eppur avvertite con qualche sofferenza dal credente.
Mi si lasci annotare un'altra finezza: per adempiere il precetto, la chiesa non riconosce valida la messa vista e ascoltata in televisione. Tale messa permette, in qualche modo e in qualche misura, di unirsi al sacramento là dove viene celebrato. Ma, insisto, non vale per l'adempimento del precetto. Abbiamo bisogno della concretezza del contatto reale con Cristo e con gli altri per attuare la piena comunione e per incaricarci della perfezione cristiana. Non si accontenta di finzioni o di rappresentazioni soltanto visive e uditive.