Per tomba una foiba

La storia del giovane curato di Villa Gardossi, in Istria, che i titini massacrarono di botte e poi fecero sparire in un inghiottitoio tipico del terreno carsico.
04 Dicembre 1997 | di

'Incontrare un fiore in una giornata gelida, mentre le raffiche di vento ululano sinistre, penetrano nelle case e spazzano le campagne, accende nell'anima la certezza che la terra non è un deserto senza speranza. Don Francesco Bonifacio nella stagione violenta della guerra e del dopoguerra fu tale fiore, dai colori tenui, ma splendido. Poi la tempesta lo divelse'.

Con queste parole, scritte il giovedì santo del 1971, l'arcivescovo monsignor Antonio Santin apriva la prefazione a un volumetto che raccoglie i pensieri del diario di un giovane curato di campagna trucidato nell'immediato dopoguerra in Istria.

Don Francesco, la sera dell'11 settembre 1946, tornava verso casa percorrendo un sentiero in salita. Nel pomeriggio, in una frazione della zona, aveva ordinato la legna per scaldare il focolare domestico durante i rigori dell'inverno. Più tardi era salito a Grisignana per trovare conforto nell'amicizia che lo legava a un confratello, monsignor Luigi Rocco, e per ricevere l'assoluzione. Sulla via del ritorno il sacerdote venne fermato da due uomini della guardia popolare. Un contadino che era nei campi si avvicinò ai sicari e chiese loro di lasciar andare il suo prete, ma fu allontanato brutalmente e minacciato perché non dicesse nulla di ciò che aveva visto. Poco dopo le guardie sparirono nel bosco.

Il sacerdote fu spogliato e deriso, ma egli, a bassa voce, cominciò a pregare. Si rivolse al Signore e chiese perdono anche per i suoi aggressori. Accecati dalla rabbia, i due cominciarono a colpirlo con pugni e calci: don Francesco si accasciò tenendo il viso tra le mani, ma non smise di mormorare le sue invocazioni. I suoi carnefici tentarono di zittirlo scagliandogli una grossa pietra in volto, ma il curato, con un filo di voce, pregava ancora. Altre pietre lo finirono. Da allora non si seppe più nulla di lui. Il suo corpo, dopo l'atroce esecuzione, scomparve. Quasi certamente fu gettato in una foiba, un inghiottitoio tipico del terreno carsico.

Don Francesco Bonifacio fu ucciso a trentaquattro anni, ma rimase nel cuore e nella memoria di chi ebbe la fortuna di incontrarlo.

Nacque a Pirano nel 1912 da una famiglia umile e profondamente cristiana: era il secondo di sette figli. Alla fine delle scuole elementari il parroco, monsignor Maraspin, scorse nel fanciullo i primi segni della vocazione e lo indirizzò al seminario di Capodistria, dove si distinse per umiltà , prontezza nell'obbedienza e spirito di pietà . Monsignor Giorgio Bruni, allora direttore spirituale dell'istituto, testimoniò il senso del dovere del suo allievo scrivendo: 'Quanto a intelligenza, non era una cima e nello studio doveva faticare non poco per farcela. Ma ce l'ha fatta sempre lui; mai una sosta, mai un inciampo, una caduta lungo il cammino degli studi'.

'D'estate, quando tornavamo a Pirano dopo la fine dell'anno scolastico - racconta don Pietro Fonda, concittadino e parente di don Bonifacio - , noi ragazzi pensavamo a far vacanza al mare. Alle otto andavamo a messa nella chiesa dei padri conventuali, ma già  prima Francesco passava da casa mia, picchiettava 'el batador', il campanello di allora, e fischiettava per chiamarmi. Ci incontravamo in chiesa insieme ad altri seminaristi: dopo la messa Francesco ci invitava in sacrestia per la lettura delle meditazioni e ci aspettava con pazienza anche quando non volevamo andare. Nel pomeriggio ci voleva riuniti per la visita al Santissimo e per una passeggiata insieme ai frati, la sera per la recita del rosario. Riusciva a convincerci grazie alla sua semplicità  e alla sua infinita pazienza: infatti lo avevamo soprannominato 'santo pacifico'. Per noi il suo comportamento fu sempre un esempio'.

Il 27 dicembre del 1936, Francesco ricevette l'ordinazione sacerdotale nella cattedrale di San Giusto a Trieste, e la domenica successiva, il 3 gennaio del 1937, celebrò la sua prima messa a Pirano, nel duomo di San Giorgio.

Nella primavera dello stesso anno don Francesco ebbe il suo primo incarico a Cittanova. Nell'estate del 1939, fu chiamato ad assumere la responsabilità  della curazia di Villa Gardossi, una manciata di frazioni sparse nella zona di Buie. 'Eravamo fuori dal mondo - spiega Giovanni Bonifacio, fratello minore del sacerdote - . Non c'era la luce, l'acqua era molto lontana, ma ci trasferimmo incoraggiati dalle parole di Francesco e dalla fraterna accoglienza della gente del posto'. Il giovane curato profuse tutte le sue energie nel suo apostolato. 'D'estate si alzava alle cinque, d'inverno alle sei e subito si recava in chiesa per recitare le meditazioni - aggiunge il fratello - . Alle otto celebrava la messa, cui partecipavano la mamma e alcuni fedeli, poi andava a scuola per insegnare il catechismo. Erano tempi grami: dovevamo accontentarci di molte minestre, polenta e uova. Dopo il pranzo mio fratello riposava un quarto d'ora. Noi ci meravigliavamo per così poco tempo: era un mistero delle sue virtù'. Nel pomeriggio con il suo bastone e il suo cane don Francesco si rimetteva in cammino per conoscere tutti gli abitanti della zona e per portare loro la parola del Signore.

'Me lo vedo davanti agli occhi sofferente ai bronchi e forse di polmoni, ma con lo sguardo raggiante - ricorda monsignor Parentin, amico di don Bonifacio - . Tossicchiando sostava, quando l'asma cronica lo bloccava improvvisamente... Allora sorrideva senza perdere quell'aria beata di eterno fanciullo che era l'involucro dell'innocenza del suo cuore'.

Il giovane prete non dimenticava nessuno: faceva visita agli ammalati, ai più poveri e riusciva sempre a far giungere qualche dono sulla loro tavola, magari prelevandolo dalla magra dispensa di casa.

Grazie al suo fervore il giovane curato si guadagnò le simpatie di tutti. La naturale sintonia con i bambini e i ragazzi gli permisero di creare il coro, un gruppo di chierichetti e di istituire l'Azione cattolica, formando i giovani che entrarono a farne parte. Dopo la fine della guerra i tempi cambiarono: l'Istria fu di fatto sotto l'amministrazione diretta del governo jugoslavo, che progressivamente mise a tacere le persone scomode, lontane dall'ideologia marxista. Per un pastore degno e scrupoloso che volesse continuare a guidare il suo gregge nell'insegnamento cristiano la situazione divenne sempre più difficile. 'Come passano i giorni? Tra delusioni e paure', scrive don Bonifacio nel febbraio del 1946. Ma non disarmò, non indietreggiò mai, neppure quando l'intimidazione si fece tangibile: furono tagliate le funi delle campane e la chiesetta fu imbrattata con scritte oltraggiose. Allora il giovane sacerdote cominciò a tenere le riunioni dell'Azione cattolica sempre in chiesa, con le porte ben aperte, perché nessuno potesse accusarlo di qualche complotto.

Benvoluto dai suoi compaesani, fu consigliato di andarsene: era in pericolo. Qualche giorno prima della sua morte don Francesco si recò a Trieste per chiedere consiglio al vescovo. 'Gli dissi: continua in chiesa il tuo ministero. Fuori dalla chiesa, in canonica, non fare nulla - scrive monsignor Santin - . Rispose: 'Anch'io avevo pensato e volevo fare così. Ma desideravo che vi si aggiungesse l'obbedienza, perché allora vi è la volontà  di Dio''.

Ma all'imbrunire, su una strada di campagna, don Bonifacio fu massacrato in odio alla sua fede, al Vangelo e alla chiesa. ·

   
   
Dopo la guerra
   
   
Nella morsa di Tito      

Con il trattato di pace del febbraio del 1947, le zone interne dell'Istria e quella costiera più a Sud di Cittanova, vennero assegnate alla Jugoslavia, mentre Gorizia e Monfalcone furono restituite all'Italia. Nel 1954 il Memorandum d'intesa firmato a Londra riconsegnò all'Italia la zona 'A', con la città  di Trieste, mentre la zona 'B' restò sotto la sovranità  jugoslava, che di fatto attraverso gli organi militari costituiva e controllava l'amministrazione civile fin dall'immediato dopoguerra.

     

Chi finì nel mirino del potere comunista jugoslavo?  I ceti intellettuali della piccola e media borghesia italiana furono i primi costretti ad andarsene. Maestri e professori delle scuole italiane erano obbligati ad applicare i programmi della scuola jugoslava e a       propagandare, quindi, i principi del nuovo stato democratico federativo controllato in modo ferreo dal partito comunista.

     

Anche le autorità  religiose dovettero adeguarsi ai canoni fondamentali dell'ideologia marxista, situazione che causò una grave frattura nei rapporti con la Santa Sede. I sacerdoti italiani e  croati che tentarono di portare avanti il loro apostolato furono controllati e perseguitati per le loro omelie, per il catechismo e per l'amministrazione dei sacramenti: la dottrina e l'educazione cattolica cozzavano con la concezione marxista-leninista dello stato.

     

Poi, furono presi di mira alcuni settori operai e contadini. Gli istriani che lavoravano nei cantieri navali a Trieste, ad esempio, furono obbligati a cambiare le lire italiane in moneta jugoslava con una forte perdita del loro valore. I contadini furono gli ultimi a lasciare la loro terra.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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