Nel segno dell’essenzialità
Essenziale nei modi, come nella scrittura e nei quadri, Lalla Romano concede quasi una sorta di confessione. Un colloquio sintetico, per non sprecare fiato, che distilla il meglio di un'esistenza che ha attraversato quasi tutto il secolo con poche, illuminanti certezze, una delle quali è «la libertà di pensiero». Il novantesimo compleanno della scrittrice è stato festeggiato con diverse iniziative tra cui la mostra «Un romanzo di pitture» di dipinti, manoscritti e disegni, promossa dal premio Grinzane Cavour al castello di Costigliole d'Asti; la pubblicazione di una nuova edizione di Nei mari estremi (Einaudi) e Intorno a Lalla Romano. Saggi critici e testimonianze, a cura di Antonio Ria (Mondadori). Le è stato conferito da poco anche il premio internazionale Unione latina di letterature romanze che le permetterà in tempi brevi di veder tradotti alcuni dei suoi libri in trentadue paesi.
Lalla Romano ha tolto tutto il superfluo dalla vita come dalla scrittura: asciutta, nitida, secca come un osso di seppia. Si stanca molto a parlare, ma si impegna a rispondere solo perché si tratta di «domande serie».
Msa. Qual è il segreto della sua vitalità ?
Romano. La vitalità fisica credo che dipenda dal fatto di non avere malattie ereditarie, cioè di aver avuto dei genitori che hanno fatto una vita morigerata. Per il resto, nella mia vita ho sempre lottato per la mia libertà , per difendermi dalle cose che detesto: la mondanità , la moda, le relazioni sociali obbligate, l'adulazione, le menzogne della vita sociale. Per fortuna i miei genitori la pensavano come me, erano persone molto umane, socievoli, ma molto riservate. Mia madre, quando siamo venuti a stare in città non ha più ricevuto visite, e così mi sono regolata io per tutta la vita. Mio marito, Innocenzo Monti, è stato prima impiegato e poi è diventato un alto funzionario di banca (presidente della Banca commerciale italiana, ndr), ma non mi ha mai costretta a fare una visita per dovere sociale. Naturalmente, ho lavorato perché non ero ricca: ho insegnato lettere, per venticinque anni, alle scuole medie, perché durante il fascismo le donne non potevano insegnare alle scuole superiori.
Che cosa significa per lei arte?
Mi piace citare sempre una frase del pittore Boccioni: «Da questa esistenza io uscirò con un disprezzo per tutto ciò che non è arte». Sembra l'espressione di un esteta e invece è una cosa molto severa, perché l'arte richiede disciplina. L'arte compie un'astrazione, cioè una scelta. Il mio maestro di pittura, Felice Casorati, diceva sempre che tutta l'arte è astratta. Quando l'arte diventa un lavoro è molto difficile mantenerlo puro, cioè non soggetto alle mode e soprattutto allo scopo del guadagno. Questo è difficile perché non sempre l'arte consente di vivere dell'arte. I grandi artisti del passato sono stati sostenuti dai signori dell'epoca e questo limitava la loro libertà . Il grande artista ritrova la sua libertà se ama il suo lavoro, se il suo scopo è quello di realizzare un'opera, per fermare qualcosa della bellezza del mondo. Per un artista il mondo è bello, e anche tragico, perché comunque si conclude con la morte. La tragicità della storia, con i moderni mezzi di comunicazione, ci è fin troppo presente. Alla televisione vediamo continuamente massacri e, due minuti dopo, donne nude e stupidaggini: questo ci fa diventare insensibili. Ma per l'artista, sia che scriva, sia che dipinga, il mondo viene in qualche modo liberato. Se uno è realmente un artista non deve scrivere per altro scopo che la sua arte: nemmeno morale, nemmeno religioso. Se uno è religioso, questo si vedrà nelle sue opere.
Per una donna è più difficile esprimersi, rispetto all uomo?
Non è che sia più difficile: è che per secoli sono state poche le donne che si sono espresse. Anche adesso, sia fra le donne che tra gli uomini, i veri artisti sono pochi.
Esiste una scrittura delle donne?
Scrittura delle donne nel senso che si avverte la femminilità allo stesso modo in cui si sente se uno scrittore è nato nel sud o nel nord, se è un giovane o un vecchio, un malato o un sano. Le donne hanno più attenzione per certe cose, per certi aspetti della vita; di solito hanno anche la debolezza di imitare la scrittura degli uomini. Ma non esiste una scrittura delle donne e una degli uomini. È un'altra maniera di umiliare le donne, perché poi la differenza è tra chi è artista e chi non lo è.
Quali sono, nella vita, le cose da salvare?
Secondo me, soprattutto la libertà dalle costrizioni non necessarie, per quanto è possibile, perché lavorando ci sono infinite cose che si disapprovano dell'ambiente, dei metodi. Persino quando c'era il regime fascista, si poteva sfuggire. L'importante è sentirsi liberi dentro.
E la morte. Come la vede?
Ho coniato questo piccolo aforisma: «Ama la tua morte come ami la tua vita». Che uno pensi che ci sia o meno una vita nell'aldilà non cambia le cose, perché c'è qualcosa che trascende. E allora riuscire ad amare la morte come sorte umana, intanto significa amare la vita. Il difficile è accettare la morte delle persone care; però le persone che abbiamo amato non ci abbandonano mai.
Questo papa, che coraggiosamente vuole riscattare quello che è essenziale, dice che dobbiamo accettare anche il darwinismo. L'importante è che l'anima l'abbia creata Dio.
Cosa evoca in lei la parola «Dio»?
Si è sempre parlato troppo di Dio. Io tengo sempre presente il comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano». Personalmente la parola «Dio» mi è sempre suonata dolce. Quando penso a Dio ne ho sempre un'impressione di sicurezza, di conforto perché se c'è Dio, c'è speranza. Se si tratta di Gesù la cosa è un po' più complicata, perché Gesù è stato anche sulla terra. Però bastano poche delle cose che ha detto Gesù per far sì che se non era Dio, era certo mandato da Dio.
Quando mio marito stava morendo, siccome non volevo dormire mentre lui poteva aver bisogno di me, leggevo un'edizione dei vangeli. Li leggevo come si legge un romanzo. I vangeli sono nell'insieme anche un'opera di grande poesia. La mia impressione è stata che Gesù volesse liberarci dalla paura, cioè dalla religione come mito pauroso.
Che rapporto ha con la religione?
Io sono sempre stata portata al pensiero. Mia madre era molto religiosa, ma non bigotta: lei è sempre andata a messa tutti i giorni, ma alla prima messa per non essere vista. Mio padre, come tutti i mariti di città , non ci andava: ci andò da vecchio. Mia madre diceva a mia sorella più piccola: «Lascia pure tutto, ma non lasciare mai la messa».
Mio marito diceva che dove non c'è religione, non c'è poesia. Vuol dire che la poesia è comunque un senso religioso della vita. Poesia non è solo scrivere versi, può essere anche narrazione. Ma poesia significa un linguaggio dal quale non si può cambiare niente; difatti, la vera poesia non si può nemmeno tradurre.
Quando uno scritto non può essere mutato e il suo scopo è soltanto contemplativo, allora, in un certo senso, esercita una forma di violenza. C'è una forma di violenza anche nella vera legge cristiana. Quando Gesù diceva: sono venuto a portare la guerra e non la pace, non era facile da capire.
Delle tre virtù, fede e speranza e carità , di certo la meno difficile è la speranza. Mio marito diceva che non si può non sentirsi molto commossi quando nelle messe funebri si dice: «questo fratello che si è addormentato nella speranza della risurrezione». Perciò la speranza è molto umana.
Come si rapporta all'esperienza del dolore?
Non amo il dolore e, probabilmente, in questo non sono cristiana. Il dolore fisico mi impedisce di pensare e di essere me stessa. Perciò, per me è soltanto un'afflizione; ma quando è passato, si dimentica. I dolori morali, invece, difficilmente si dimenticano. Eppure, i dolori morali dobbiamo viverli, ci servono a capire noi stessi, a farci pentire.
Nel mondo sappiamo che ci sono molte persone che soffrono per malattie e per tutto quel che succede. Ma non è che adesso il mondo sia peggiore che in passato: la differenza è che sappiamo tutto. Il peggio è sempre nella presunzione. Questo non riguarda solo le arti, ma anche il resto. Per esempio, mettere l'assoluto nel potere con uno scopo che dovrebbe essere benefico, come è stato per il nazismo. I tiranni sono sempre stati nella loro idea dei benefattori. Questo è il pericolo. Io non credo che questo secolo sia peggiore e nemmeno migliore di quelli passati. Penso che singolarmente noi abbiamo la responsabilità della nostra vita e della nostra coscienza. E questo da sempre. Certo, quando si ha una vita tanto lunga si avverte di più questo senso di responsabilità .