UNA PATRIA IN PRESTITO
Circa duecentomila individui, tra donne, vecchi e bambini, vivono da quasi vent'anni nella desolazione dell'Hamada algerino, tra Tindouf e il confine con la Mauritania. Sono i Saharawi, antica popolazione nomade di origine berbera, imparentata con i più noti Tuareg. L'esercito ufficiale marocchino, ha l'ordine di «spingere» i Saharawi rimasti sempre più in territori esigui e desertici, allargando il dominio del Marocco in quella parte del Sahara Occidentale che fino al 1975 era appartenuta agli spagnoli.
Tra i territori attualmente occupati dei Saharawi (sempre più a nord) e il resto della regione, l'esercito ha costruito un vero e proprio «muro di sabbia»: una muraglia-fortezza lunga 2600 chilometri che taglia in due il paese. La muraglia è disseminata di torrette e radar, da dove le forze reali marocchine sorvegliano attentamente ogni movimento sospetto della popolazione ribelle. Sembra essere tutto sotto controllo: da una parte i coloni, arrivati con la «Marcia verde» del 1975 promossa dal governo per risolvere la crisi economica postcoloniale, dall'altra i nomadi Saharawi, cacciati dai territori di origine verso l'Hamada.
L'Hamada è un deserto squallido, piatto, totalmente privo di vegetazione, battuto dall'Erih, un vento violento che riempie gli occhi e la bocca di sabbia, e rende invisibile qualsiasi cosa intorno. È un territorio che i fuggiaschi Saharawi hanno avuto in prestito dall'Algeria, e dove hanno tirato su le tendopoli che, sognando la patria lontana, hanno chiamato con i nomi delle città di origine: Dakla, Smara, Ausert, perché il legame con il loro paese fosse mantenuto vivo anche dai bambini nati nei campi profughi, che non lo hanno mai potuto vedere. Nei campi profughi di Tindou l'aspetto più vistoso è la totale assenza di uomini, i quali da circa quindici anni vivono al fronte, organizzati nel movimento combattente indipendentista denominato Fronte Polisario. Tornano nelle loro famiglie di tanto in tanto, per brevi periodi di tempo. Così a Dakla come a Smara, sono le donne a occuparsi di tutto.
Donne tuttofare
Pur essendo musulmani, i berberi sono profondamente aperti nei confronti delle donne. Nella componente etnica beduina esistono persino forme di matriarcato. Essendo gli uomini impegnati in guerra, tocca alle donne amministrare e gestire le risorse, i commerci e organizzare il lavoro nei campi. È un po' come una rivalsa simbolica dopo il trauma coloniale, vissuto, come avviene ovunque, in modo drammatico soprattutto dalle donne.
L'aspetto centrale della condizione femminile è sempre la maternità come in tutte le società arabe, ma questo è spiegabile anche per il fatto che il popolo Saharawi ha bisogno, per sopravvivere, di un costante incremento demografico. È la donna che trasmette ai figli il codice morale che regola il gruppo, creando l'aggregazione e la solidarietà che stanno alla base delle tribù.
Tra i Saharawi si racconta che la madre insegna al figlio maschio, che dovrà affrontare un ambiente ostile e procacciarsi i mezzi di sussistenza, a non mangiare anche quando il cibo non manca; e alla figlia come la propria femminilità vada curata, essendo la bellezza un patrimonio non solo individuale, ma collettivo. Si tratta di una femminilità fatta anche di capacità tecniche, come costruire una tenda, e di espressioni culturali, come comporre e recitare versi per celebrare i momenti importanti della vita del nucleo familiare e dell'intero gruppo.
Nei campi profughi
La visita ai campi profughi è sempre una esperienza indimenticabile: non c'è assolutamente nulla di quello che di solito caratterizza un campo profughi. Non lunghe file di gente in attesa della distribuzione del cibo, né scene di abbandono o inoperosità . Tutti hanno una occupazione, un lavoro. Si respira concordia, attivismo, fervore politico. Vestiti, tappeti, utensili domestici, giocattoli, vengono prodotti utilizzando i materiali di recupero a disposizione, come anche le armi, strappate o rubate al nemico.
Nelle scuole, molto frequentate, i bambini vestiti di rosa e di giallo sorridono allegri, desiderosi di mostrare ai visitatori quello che sanno. Negli occhi hanno la fierezza e l'orgoglio di un popolo che tenta di sopravvivere allo sterminio e all'indifferenza dell'Occidente.
Le immense tendopoli che si estendono attorno a Tindou non hanno né luce né acqua, tuttavia i profughi hanno tentato coraggiosamente di darsi una struttura sociale. Soltanto una volta al mese arrivano i camion con gli aiuti alimentari offerti dalla comunità internazionale attraverso l'Algeria.
Tra i paesi arabi solo l'Algeria, infatti, si è schierata apertamente dalla parte del Fronte Polisario. I Saharawi rivendicano di poter vivere in pace nel Sahara Occidentale, e si sono costituiti come nazione, la Rasd: Repubblica araba Saharawi democratica, opponendo alle autorità marocchine una strenua resistenza attraverso sabotaggi e azioni di guerriglia.
Le insidie del referendum
Il Marocco, sebbene aiutato dagli Stati Uniti anche per gli armamenti, è in grave crisi economica. Secondo le stime internazionali, il conflitto in atto costa al paese dai 4 ai 5 milioni di dollari al giorno. Lo strumento ideale per la soluzione del conflitto dovrebbe essere un referendum per l'autodeterminazione dei profughi costituiti come nazione, che da più di vent'anni l'Onu tenta di indire e che, ovviamente, Spagna e Marocco hanno sinora ostacolato. Ultimamente, Hassan II sembra aver cambiato idea, forse perché ha la certezza che oggi la soluzione sarebbe in suo favore. La situazione nei territori occupati non consentirebbe, infatti, un corretto svolgimento della consultazione, sia per le difficoltà tecniche di censire una popolazione nomade, sia per il clima di intimidazione in cui vivono ormai i superstiti, sia anche per la composizione etnica della popolazione che è stata alterata da una massiccia immissione di coloni marocchini.
Ora è il Fronte Polisario a avere serie perplessità in merito al corretto svolgimento del tanto sospirato referendum, e ultimamente ha chiesto che tutto venga effettuato sotto un rigido controllo delle Nazioni Unite, e solo dopo il ritiro dei coloni e delle truppe ufficiali dai territori occupati.
Il referendum rappresenta la libertà per i Saharawi, e il riconoscimento ufficiale della Rasd da parte di tutto il mondo. Se il calendario proposto fosse stato rispettato, si sarebbe dovuto votare già nel gennaio del 1992. Purtroppo tutto si è arrestato di fronte alla violazione del «cessate il fuoco» tra le truppe regolari e i ribelli, alla serie di repressioni, arresti in massa, torture, sparizione perpetrate tra l'indifferenza delle maggiori istituzioni internazionali.
Amnesty International ha denunciato ultimamente che almeno 2300 oppositori civili sono stati incarcerati senza processo, e ben 850 persone sono scomparse.
Sul territorio è presente una forza di pace che vigila sul corretto approvvigionamento dei campi e sul rispetto del «cessate il fuoco». L'Onu, però, sta discutendo un drastico taglio economico, che dimezzerebbe la presenza dei caschi blu sul territorio occupato dai Saharawi. E tutto questo accade sotto gli occhi indifferenti di un'Europa che, appena può, rimuove platealmente gli effetti devastanti dei suoi interventi di colonizzazione e decolonizzazione del continente africano senza intervenire concretamente.
In Italia, numerose iniziative stanno sorgendo per sensibilizzare l'opinione pubblica. I campi profughi, adesso più che mai, hanno bisogno di materiale edile, di indumenti, di medicinali e vestiario per i bambini. Dal 1991 si è costituito un comitato di garanzia per vigilare contro il boicottaggio degli aiuti da parte del Marocco. Il comitato italiano è formato da organizzazioni, associazioni culturali e governative come Cgil, Cisl, Acli...
Per saperne di più ci si può rivolgere: all'Associazione solidarietà con il popolo Saharawi, tel. 06/8786134; al Comitato pro Saharawi Toscana, tel. 055/4211343 e alla Lega nazionale per i diritti dei popoli, tel. 06/6864640.