«Signore delle cime» quarantacinque anni fa
Ci sono canti, di montagna, così conosciuti da parere senza tempo: note salite - chissà quando e chissà dove - dal cuore alla bocca di ignoti montanari per dare voce a gioie e tormenti della vita.
A questo genere di canti senza tempo appartiene anche Signore delle cime. Un pezzo di rara suggestione entrato nel repertorio di tutti i cori di montagna, viene spesso scambiato per un vecchio canto della tradizione popolare in memoria di un ignoto caduto della Grande guerra, di autore, quindi, senz'altro defunto.
Lunga vita, allora, a Bepi De Marzi, che quella struggente canzone ha composto - parole e musica - in una magica giornata di metà agosto del 1958, quarantacinque anni fa, ben vivo e sempre pronto a esibire la più vitale delle risate le volte che, incontrandolo, qualcuno pensa di vedere un fantasma.
Vicentino, di Arzignano, appassionato di montagna e ferratissimo nella musica per averla studiata fin da bambino. L'ho fatto per compiacere la mamma - dice - che ora ringrazio per l'insistenza: mi ha dato il respiro della totale libertà . Ma poi ci ha messo del suo - entusiasmo e tenacia - e alla fine: diploma in pianoforte, organo, studi di composizione e contrappunto. E poi, per vent'anni, organista e clavicembalista nei Solisti Veneti, la mitica orchestra creata da Claudio Scimone all'ombra della basilica del Santo. Fini esecutori e magistrali interpreti di un repertorio che, partendo dal Settecento veneto, ha poi spaziato fino alle più elucubrate composizioni di autori contemporanei, i Solisti hanno sempre incantato il pubblico per la gioia con cui eseguivano e la felicità che sapevano comunicare.
Un giorno di metà agosto
Fresco di diploma e reduce dalla naja (alpino, naturalmente, tra i paracadutisti), aveva già abbozzato qualche composizione sacra, in latino, e un paio di canti per accantonare una delusione amorosa ricorda, e messo su un coro sul modello della mitica Sat di Trento, quando gli amici del Cai (Club alpino italiano) di Arzignano gli chiesero di comporre qualcosa per ricordare un loro amico, caduto sulle montagne nel 1951.
Era Bepi Bertagnoli - mi racconta De Marzi - un giovane universitario, studente di Legge a Padova. Era scomparso nell'alta Valle del Chiampo, travolto da una slavina, dopo un'abbondante nevicata primaverile. L'avevano cercato invano per settimane, solo lo sciogliersi delle nevi l'aveva restituito. Gli amici del Cai avevano preparato una lapide in bronzo da porre sul luogo dove era caduto. Ezio Ferrari, il primo tenore del coro, che di Bertagnoli era stato amico e compagno di studi, mi fa: Perché non fai un canto per Bepi?. Abitavo allora sopra una di quelle ospitali osterie, dove si giocava a carte fino a notte, tra qualche canto e qualche fiorita imprecazione... Ecco, Dio del cielo, Signore delle vette l'ho composto là , in un giorno di agosto, con nelle orecchie il dialogare animato del gioco del tresette e un vago profumo di vino nero. Forse ho impiegato una ventina di minuti a completare il testo e la melodia.
Signore delle vette, diventato, durante le prove, Signore delle cime perché più cantabile, venne eseguito in una nuvolosa e fredda domenica del 1958, lassù in montagna, per ricordare l'amico Bepi Bertagnoli e fu anche la prima uscita del neonato coro, destinato a diventare, con il nome di Crodaioli (arrampicatori delle crode) uno dei più affermati nel ramo.
Venti minuti, dunque, per un canto bello, ispirato, intriso di fede e di speranza. Una preghiera, preferisce chiamarla De Marzi. E anche innovativo. Per la prima volta le parole ricordavano dolcemente un amico, fuori dal genere dei testi enfatici ed evocativi della guerra. Era un brano che proveniva dal sentimento popolare autentico, al di là dei canti di montagna, ricorda il compositore.
Un successo mondiale
Dopo quella nuvolosa domenica di ottobre del 1958, il canto-preghiera se ne è andato da solo e per le strade più impensate. Racconta De Marzi: L'ho sentito cantare in Canada, in Finlandia, in Sudamerica, in Sudafrica. In tournée con i Solisti Veneti in Australia, siamo stati accolti con il Signore delle cime anziché con l'inno nazionale.. È stato eseguito anche in piazza San Pietro e il Papa stesso lo seguiva cantandolo.
La canzone è stata sottoposta nel tempo ai più svariati adattamenti, arrangiamenti, manipolazioni varie. Uno vi ha aggiunto perfino una terza strofa - ricorda De Marzi - perché lo trovava troppo triste. Un giorno è venuto dal Giappone un musicista che voleva conoscermi: aveva trascritto Signore delle cime per l'orchestra sinfonica e il gran coro di Nagano. Ma De Marzi non si adonta per tante licenze, contento, anzi, che il suo canto-preghiera sia considerato come un'anonima storia popolare. Un po' meno contento, qualche prete ne nega l'esecuzione in chiesa perché non liturgico. Succede anche questo.
Canti e altre cose
Archiviato Signore delle cime, De Marzi ha continuato a comporre. Di canzoni ne ha fatte - testo e musica - circa 150, una ventina delle quali entrate nel repertorio dei cori di montagna di mezzo mondo, come Sanmatio, Monte Pasubio, Improvviso, Scapa oseleto, Notte santa, Dormono le rose. E A Josca la Rossa, stavolta su parole di Carlo Geminiani che gli ha fornito anche qualche altro testo ispirato a Giulio Bedeschi, l'autore di Centomila gavette di ghiaccio (1963). Un'altra sola volta ho messo in musica testi di altri, quattro dei 22 versi che mi ha dato l'amico Mario Rigoni Stern e ne è nato Volano le bianche, cioè le pernici, un altro canto molto eseguito.
Quelli di De Marzi sono per lo più canti impegnati, per far riflettere, raccontando la vita d'oggi con i suoi problemi: l'abbandono delle contrade, lo scempio dell'ambiente, il razzismo... Con i miei canti devo trasmettere qualcosa - dice De Marzi - anche il disgusto per come stanno andando le cose in Italia. Come un certa deriva razzista che lo ha indotto a chiedersi pubblicamente se siano in sintonia con lo spirito e l'impegno degli alpini le esternazioni sul problema dell'immigrazione dell'ex sindaco trevigiano Gentilini, alpino, di razza Piave. O se abbia senso definirsi cattolici padani, quando il termine cattolico esprime universalità contro ogni particolarismo, a meno che non si sottolinei una connotazione puramente geografica.
Ma più che canti di montagna De Marzi preferisce chiamarli canzoni popolari, anche se un po' colte. Perché i canti di montagna, così come vengono cantati, non appartengono alla tradizione montanara, sono un'invenzione, felice, del coro Sat di Trento, fondato da Silvio Pedrotti.
Sono stati loro a inventare quello stile di canto che ha condizionato un po' tutti: vocalità maschile piuttosto estesa con le voci acute in medio falsetto, armonia semplice, fraseggio brusco, appoggi ritmici marcati, dinamiche essenziali... I montanari, però, non hanno mai cantato così, anzi al canto preferivano gli strumenti: a fiato, a pizzico, a peltro... per accompagnare i balli nelle feste. Di fatto, sono stati soprattutto i complessi di pianura e di città a proseguire sulla strada aperta a Trento.
Come, appunto, i Crodaioli, che hanno seguito una loro strada imponendosi come memoria musicale intrisa di coro Sat e cultura alpina, ma anche di contrappunto, Settecento veneziano e melodramma risorgimentale, senza mai chiudere la porta alle emozioni della contemporaneità .
Con il coro - racconta De Marzi - abbiamo fatto in media 40 concerti all'anno. Ora assai meno. C'è aria di crisi già dagli inizi degli anni Settanta. Una volta i cori erano circa tremila, ora un migliaio circa. I gusti cambiano, il pubblico invecchia e non c'è ricambio. E poi tenere in piedi un coro costa e c'è chi pensa che l'essere invitati a cantare sia per noi una grande soddisfazione. Lo è, ma non può essere, evidentemente, la sola.