Incontri sulla spiaggia di Sabaudia
La post-estate è finita: dal caldo afoso all'ottobre frizzante, saltando a pie' pari la tiepida carezza del settembre. Nella raccolta Sabaudia immersa regalmente nel Parco (nazionale) del Circeo una volta ancora minacciato dalla bulimia del cemento armato (ma confidiamo nella spada onesta del generale Bellassai e nel senso politico del sindaco, l'impegnato medico Schintu), uno dopo l'altro chiudono gli stabilimenti, con largo anticipo: in una di queste mattinate tra il lusco e il brusco, col sole che fa i capricci e il libeccio che la fa da padrone, mia moglie ed io, nel corso d'una lunga passeggiata sulla riva del mare d'Ulisse prodigo di candidi merletti di schiuma, abbiamo scoperto una spiaggia della quale non ci eravamo mai accorti (eppure son quarant'anni che la nostra vita si divide fra Roma, New York, Sabaudia). Una spiaggia piccola, ritagliata in uno spazio risicato, nascosta da un albergo a 5 stelle. Un cartello con incerta grafia informa che questo arenile è a disposizione di non meglio identificati disabili. Va qui detto che a Sabudia non siano poche le carrozzine a due ruote, mosse dalle mani esperte dell'invalido ovvero guidate da attenti badanti. Gli è che nella limitrofa Baja d'Argento, in mezzo al bosco, sorge Selvapiana una sorta di clinica-residence ricca di straordinari fisioterapisti. Alle loro taumaturgiche mani si affidò anche il grande scultore Emilio Greco che quando poteva correva subito a rifugiarsi nella sua casa-studio di Sabaudia (ora riposa nel cimitero di questa cara città a misura d'uomo): l'ictus che l'aveva colpito sparì.
Una ragazza in un sobrio duepezzi che fa fatica a contenere la sana bellezza, pasticcia sulla battigia con la sabbia bagnata che due bambini - innocentemente nudi -, infaticabili le rovesciano addosso, felici. Quando ci avviciniamo, i due bambini hanno come un moto di stizza, abbandonano i secchielli, fanno per allontanarsi ma: Giulio, Andrea questi sono due amici miei, gli piacerebbe aiutarvi a fare il castello. Io con solo voi, non ce la faccio, dice la ragazza in duepezzi e i due bambini, dimessa ogni diffidenza, ci raggiungono ridendo allegri. Sono due bambini di quelli che correntemente (volgarmente?) chiamiamo down. Ma se i tratti del viso ne denunciano la condizione e i loro movimenti hanno un che di artistico, limpido invece è il loro esprimersi e corretto. A mano a mano che la costruzione del castello di sabbia procede, prendono confidenza con i due estranei.
Giulio: Tu sei ingegnere?. Io: E cos'è un ingegnere, chi è?. Andrea: È quello che costruisce le case, le chiese. Giulio: E anche i giardinetti e le automobili. Tu ce l'hai l'automobile?. Io: Sì, ce l'ho e tu?. Giulio: Io ho quella di papà , la più bella di tutte però non la posso vedere. Io: Perché?. Andrea: Perché suo papà è morto, anche il mio papà è morto ma lui l'automobile non ce l'aveva, io invece la voglio e quando sarò grande farò fare un giro a Gilda (la ragazza in duepezzi) e a tutti quelli che voglio io. Giulio: Non è vero, Andrea l'automobile non la potrà guidare e neanche io. Lo sai perché? Perché abbiamo la sindrome. Qui interviene Gilda. Pianamente, quasi parlasse di noccioline, dice: Guardate ragazzoli che quando sarete grandi la sindrome se ne sarà andata via da un pezzo e voi potrete guidare l'automobile e anche il trattore. Felici, i due bambini-down tendendo le mani improvvisano una sorta di girotondo che serve a Gilda per staccarli da noi: è l'ora per essi di lasciare la spiaggia.
Il Vecchio Cronista ha voluto raccontarvi di questo incontro inopinato perché pensa che abbia, come del resto tutto quello che ci accade, un significato, facile da cogliere. Dio conforta gli afflitti e non importa essi siano fanciulli o vecchi, Dio ama tutti ma, forse, un po' di più chi è angustiato dalla sindrome.