Kashmir, la guerra dell’acqua
Il Kashmir «indiano» vive una delle peggiori stagioni di violenza degli ultimi vent’anni. Da mesi, le manifestazioni popolari per l’indipendenza dall’India vengono represse nel sangue dalla polizia, che ha imposto il coprifuoco per le strade. Lungo la «linea di controllo» – l’area che fa da cuscinetto tra il territorio sotto la giurisdizione indiana e quello amministrato dal Pakistan – si moltiplicano gli scontri tra i militari delle due potenze nucleari. Un contesto che si fa sempre più preoccupante. Negli ultimi anni, infatti, la disputa per la terra – già causa di quattro campagne militari tra India e Pakistan – si sta trasformando in un conflitto per le risorse idriche. Sulle montagne di questa regione nascono l’Indo e i suoi affluenti. Corsi d’acqua non soltanto indispensabili ad alimentare le coltivazioni dei due Paesi, ma che rappresentano sempre di più una preziosa fonte di energia. Soprattutto l’India ha puntato con decisione sullo sviluppo del settore idroelettrico – il governo mira a coprire il 40 per cento del fabbisogno energetico interno – disseminando di dighe l’intera dorsale himalayana. Ma la proliferazione degli impianti in Kashmir sta spingendo la tensione con il Pakistan oltre i livelli di guardia. Come ha riconosciuto anche il rapporto del senatore statunitense John Kerry, Avoiding Water Wars in Southern and Central Asia, le nuove dighe in costruzione sul corso dei fiumi Jhelum, Sutlej e Chenab (tra i principali affluenti dell’Indo) consentirebbero infatti all’India di bloccare l’approvvigionamento idrico da cui dipendono circa l’80 per cento dell’agricoltura pakistana e oltre 50 milioni di contadini. Ad aggravare la situazione contribuisce anche il riscaldamento climatico: secondo uno studio olandese, la portata dell’Indo è destinata a diminuire dell’8 per cento entro la metà del secolo.
A regolare i diritti sulle acque del Kashmir è l’Indus Water Treaty (Iwt), voluto dalla Banca mondiale e sottoscritto nel 1960 da India e Pakistan: i tre fiumi orientali (Beas, Ravi e Sutlej) sono sotto il controllo indiano, mentre i tre fiumi occidentali (Indo, Chenab e Jelhum) sono di pertinenza pakistana. In realtà, però, in prossimità delle rispettive sorgenti, i sei fiumi scorrono tutti tra le valli del Kashmir indiano. Così, dagli anni Novanta il governo di New Delhi studia le more dell’Iwt per sfruttare anche le acque destinate al Pakistan. I ripetuti appelli alle istituzioni internazionali sulle presunte violazioni indiane degli accordi sottoscritti nell’Iwt sono stati tutti rigettati. Tra le altre è arrivata anche la sentenza finale della International Court of Arbitration dell’Aja sulla diga di Kishanganga, che ha riconosciuto all’India il diritto di portare a termine la costruzione dell’impianto sull’omonimo affluente del fiume Jhelum. L’opera dovrebbe entrare in funzione già nei prossimi mesi.
Oltre alle proteste pakistane, la costruzione dell’impianto idroelettrico di Kishanganga continua però a suscitare forti critiche anche in India. La diga, ormai quasi completata, è stata innalzata nella remota regione del Gurez, a pochi chilometri dalla «linea di controllo». Da lì, le acque del Kishanganga verrebbero convogliate in una serie di tunnel sotterranei che sfociano nell’impianto costruito a monte del villaggio di Kralpora, 5 chilometri a nord della cittadina di Bandipora, nei pressi del lago Wular. L’opera causerebbe l’allagamento e la scomparsa di decine di villaggi, tra cui quelli dell’antica tribù dei Dard-Shina. Il rischio è che il trasferimento dei Dard-Shina dai villaggi del Gurez ai campi allestiti presso Srinagar possa comportare l’estinzione di una cultura millenaria. Alla tribù appartengono, infatti, gli ultimi discendenti degli Aryans che popolavano originariamente il Gurez, mentre lo shina è la lingua da cui si ritiene derivi il sanscrito. Nell’area che verrebbe sommersa ci sono inoltre siti di immenso valore archeologico, come quello di Chilas, dove sono state scoperte centinaia di iscrizioni rupestri in tibetano, ebraico, brahmi e kharoshthi, o quello di Kanzalwan, dove si ritiene abbia avuto luogo l’ultimo concilio buddhista.
Il reportage completo è pubblicato sul numero di dicembre 2016 del Messaggero di sant’Antonio e nella versione digitale della rivista. Provala!