I «diavoli a cavallo» terrorizzano il Darfur
Sventurato Sudan: mentre sembrava che una guerra di cinquant'anni del governo arabo-musulmano contro il Sud nero, animista o cristiano, che aveva causato un milione di morti stesse infine componendosi in un accordo di pace che concedeva al Sud l'autonomia, un nuovo conflitto si è acceso a Ovest, nella regione del Darfur. Qui le milizie janjaweed, tribù nomadi di origine araba, si sono scatenate contro la maggioranza nera degli abitanti agricoltori sedentari.
Janjaweed, nella lingua locale, suona come diavoli a cavallo che piombano all'improvviso sugli abitati di povere capanne, razziando, distruggendo, schiavizzando. I diavoli a cavallo hanno antiche tradizioni guerriere ma, in questo caso, la storia c'entra poco: le loro razzie sono state fomentate dal governo come risposta alle richieste dei leader locali della maggioranza di essere associati alle trattative sull'autonomia. Questa volta le differenze religiose non entrano in campo, perché la regione è tutta islamizzata.
In uno stato-gigante come il Sudan, le dimensioni sono subito enormi: il solo Darfur è grande quanto la Francia, e le conseguenze disastrose: un milione di abitanti in fuga, centomila spinti fuori dai confini, nel vicino Ciad, dove vivono ammassati in campi-rifugio.
Questa guerra non dichiarata si è accesa da più di un anno nel silenzio colpevole della comunità internazionale, tanto che il segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ha parlato di grave peccato di omissione.
Una gravissima crisi umanitaria
Solo da qualche settimana il Consiglio di sicurezza si è ridestato e si spera che arrivi a una pressione decisiva sul governo sudanese. Un altro responsabile dell'Onu, di ritorno dal Paese, ha detto di essersi trovato di fronte alla più grave crisi umanitaria del pianeta in questo momento. La cosa migliore è che siano gli stessi africani a investirsi del problema, ma anche qui, al momento in cui scriviamo questo articolo, le iniziative appaiono inadeguate: l'Unione africana ha inviato circa trecento militari a difesa dei suoi osservatori, che spariscono in una zona, come abbiamo detto, vasta quanto la Francia.
Il Sudan, potenzialmente, non è un Paese né povero né sfavorito, anzi è un gigante grande oltre nove volte l'Italia, percorso da due maestosi corsi d'acqua, il Nilo bianco e il Nilo azzurro, che si congiungono presso la sua capitale,Khartum.Questeacque, canalizzate, potrebbero sviluppare un'agricoltura capace di sfamare, da sola, metà degli abitanti dell'intero continente africano. In più, è un Paese ricco di giacimenti di gas e di petrolio. Sul piano dell'antropologia, è stato definito un museo vivo delle varie culture africane, per l'intrecciarsi di cinquanta etnie diverse.
Come si vede, la natura non è la causa delle sue sventure, anzi si potrebbe parlare di una benedizione che i contrasti dell'uomo sfociati in guerre endemiche hanno volto in maledizione. Il risultato sono popolazioni misere e analfabete (più della metà ) con una speranza di vita ferma ai cinquantasette anni, venti-venticinque anni in meno di noi europei occidentali.
Gli atri Paesi africani come il Darfur
Se il Darfur piange, altra parte dell'Africa non sorride. Al confine meridionale del Sudan, in Uganda, una ribellione di origine tribale si è ammantata di pseudo-motivazioni religiose, creando l'Esercito di resistenza al Signore che sequestra i bambini per trasformarli in precoci guerriglieri. La Repubblica democratica del Congo vede ancora le sue regioni orientali, grandi ciascuna più di uno Stato europeo, occupate da invasori attratti dalle risorse minerarie, da saccheggiare con il benestare di acquirenti europei.
In Burundi si fatica a trovare un accordo tra il governo filo-tutsi e la guerriglia filo-hutu. La Costa d'Avorio è spaccata in due tronconi. Liberia e Sierra Leone cercano faticosamente di rimarginare le proprie ferite. La Somalia continua nella condizione di Paese senza stato, preda di clan rivali.
Delle responsabilità delle classi dirigenti africane abbiamo già parlato. Ma le responsabilità del mondo ricco sono altrettanto gravi. Anche al di là delle forme di capitalismo di rapina che si insinua fra le pieghe delle varie guerre civili.
Nel 2000, nell'euforia del Vertice del Millennio, l'Onu aveva lanciato l'obiettivo di ridurre di metà la povertà nel mondo entro il 2015, indicando anche una serie di tappe e di risorse economiche per raggiungerlo. Ebbene, per l'Africa queste risorse sono state stanziate in misura del tutto insufficiente, e i ritardi nelle tappe intermedie sono tali, che si calcola che l'obiettivo potrà essere raggiunto, se rimane l'attuale ritmo, solo nel... 2147! Cioè, con un ritardo di più di un secolo!
È un ritardo tragico che deve farci riflettere per mutare radicalmente di cammino. Una frazione soltanto delle spese belliche per l'Iraq sarebbe sufficiente a raddrizzare i tempi e ad accorciare sensibilmente il ritardo accumulato. Se meditiamo sulle nostre responsabilità il giudizio è altrettanto grave e sconfortante. L'investimento dello 0,7 per cento del prodotto interno lordo (indica la ricchezza creata in un anno da un Paese) richiesto dall'Onu (e dai Papi, ricordiamo l'accorato appello iniziale di Paolo VI) viene versato solo da una minoranza di Stati occidentali, confinati nell'area scandinava, più l'Olanda.
Italia: ai Paesi poveri le briciole
L'Italia versa agli aiuti allo sviluppo solo lo 0,21 per cento del suo prodotto interno lordo e si situa a uno degli ultimi posti in graduatoria. È evidente che per un governo è più facile tagliare questi fondi che chiedere sacrifici ai propri cittadini. È evidente, ma non accettabile moralmente. Per questo, su iniziativa del presidente brasiliano Lula da Silva, alcuni stati hanno lanciato all'Onu una Alleanza contro la povertà per reagire al disimpegno e ridare slancio al cammino verso lo sviluppo.