Beslan e altre atrocità: come parlarne ai bambini?
Collaboro da molto tempo con il «Messaggero di Sant'Antonio» e provo un grande piacere nel rinnovare, ogni volta che scrivo, l'appuntamento mensile con i lettori. Non è per narcisismo, almeno lo spero, ma perché ho bisogno di sapere di continuare con qualcuno di voi una lunga conversazione iniziata alcuni anni fa. Per questo, proprio perché immagino che esista ancora quello che un tempo si chiamava il fedele lettore, sono felice quando qualcuno di voi prende carta, penna o computer ed esprime il suo parere, favorevole o contrario alle mie posizioni. Questo dialogo a distanza è l'alimento fondamentale del mio lavoro. Per di più, immaginando, o illudendomi, di avere stabilito un rapporto con voi, mi posso permettere di riprenderlo.
Prendiamo, ad esempio, la strage degli innocenti di Beslan. Il giorno stesso e nelle settimane seguenti, sono stato tempestato di domande di genitori, insegnanti e giornalisti che ponevano le stesse domande poste all'indomani della distruzione delle Twin Towers, a New York: Come parlarne con i bambini?. Per come vanno le cose nel mondo, temo che tutto questo si ripeterà ancora. Tanto più se pensiamo al gran numero di esseri umani di ogni età che vengono uccisi ogni giorno sulla Terra senza avere la stessa evidenza mediatica di New York, Madrid o Beslan. A quella domanda, risponderei ancora oggi come ho fatto su queste pagine dopo l'11 settembre 2001. Con una nota in più di disperazione, visto che sul Corriere della Sera a fianco delle foto dei bimbi spauriti e stravolti dell'Ossezia, ho scritto che sono proprio questi bambini che senza parlare, semplicemente guardandoci attraverso l'obiettivo del fotografo, sembrano chiederci perché li abbiamo fatti venire al mondo se non riusciamo ad assicurare loro sicurezza, affetto e pace.
Lasciare spazio alla speranza
Ecco è proprio questa mia, questa nostra, crescente angoscia che dovremmo cercare di contenere nel momento in cui parliamo con i bimbi di ciò che è successo e succede a tanti loro coetanei nel mondo. Vale ancora oggi, ciò che suggerivo tre anni fa: i bambini, com'è nella loro natura, fanno fatica ad accettare la dura legge dell'esistenza secondo la quale «nulla dura per sempre». Noi, dunque, dobbiamo continuare a credere che nostro compito è quello di resistere alla morte, anche a quella psicologica, e non di diffonderla ovunque. Questo va comunicato ai bambini, con l'esempio più che con le parole. «La vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte», scriveva nel 1800 Xavier Bichat, ma in questi giorni, settembre 2001, agosto 2004..., sembra che abbiamo dimenticato quanto dipenda da noi consolidare la vita su questo pianeta, a partire dalla nostra stessa casa.
C'è, però, una particolarità nella strage di Beslan: è avvenuta in una scuola. Da noi, in Italia, si è dibattuto se occorresse, all'apertura dell'anno scolastico, lasciare tempo «per un momento di raccoglimento sulla minaccia del terrorismo» come suggerito dal ministro dell'Istruzione il 9 settembre ai dirigenti scolastici e ai docenti o se, invece, non fosse più opportuno evitare di aprire l'anno scolastico nel ricordo di Beslan, visto che «la scuola, come la casa è un luogo sicuro», come consigliato dal sindaco di Roma.
La mia opinione è che si dovrebbe evitare di dire agli insegnanti se, e cosa, dire o non dire su temi di tale importanza e attualità . Perché non contare invece sulla sensibilità di tanti insegnanti che sanno bene se, quando e come trattare con gli allievi questioni che riguardano i loro sentimenti e le loro emozioni? Certo, si correrà il rischio che qualche docente trasmetta le proprie ideologie o le proprie angosce e paure, ma questo avverrebbe anche se si seguisse il consiglio del ministro o quello del sindaco. Ci sono pro e contro che vanno valutati sul momento da quel particolare insegnante in quella particolare classe.
È vero, come ha detto Massimo Ammaniti, neuropsichiatra infantile, che non si devono anticipare le domande dei bambini ed essere invece sempre disponibili a rispondere ai loro interrogativi quando li pongono, senza fare «lezioni» e senza uscire dal seminato, ma è anche fondato quello che dice la sociologa Marina D'Amato. Secondo lei, il non detto, l'appena percepito, l'intravisto in tv è peggio del sapere ciò che è accaduto realmente. La verità , per quanto dura, è comunque una sorta di certezza che non riduce la paura ma tiene sotto controllo l'angoscia.
C'è comunque accordo almeno sul fatto che ogni nostro intervento debba lasciare ai bambini spazio alla speranza e al cambiamento. Su questo avevo insistito dopo l'11 settembre 2001: questa apertura alla speranza deve caratterizzare il rapporto di genitori ed educatori sia con i bambini sia con i ragazzi. «Di fronte all'emergenza hanno certo bisogno di rassicurazioni ma anche di essere aiutati a capire cosa succede. Quindi consideriamo una fortuna il fatto che ci pongano domande, che cerchino spiegazioni, che parlino dunque liberamente di ciò che accade dando così spazio anche alle loro emozioni. Non gli impediamo di esprimersi se non siamo d'accordo con le loro interpretazioni, ma diciamo il nostro parere con pacatezza e senza sovrapporre d'autorità le nostre opinioni e le nostre ideologie. Trasmettiamo loro anche i nostri dubbi e le nostre incertezze sull'interpretazione dei fatti e cerchiamo insieme risposte convincenti. L'emergenza deve unirci, deve rinforzare legami di solidarietà e non essere un'occasione di divisione e litigi».