William Congdon, il sacro nel Novecento
«Analogia dell'icona» si intitola la mostra dedicata a William Congdon. Il titolo lo si deve a un'intuizione del filosofo (sindaco di Venezia) Massimo Cacciari. La pittura di Congdon, un americano che adottò l'Italia come suo Paese, segue riti procedurali precisi come avviene nella realizzazione delle icone. In entrambi i casi, si tratta di una pittura che parte da un fondo: la foglia d'oro stesa sulla superficie nelle icone, il fondo nero in Congdon, che allude alla drammaticità della vita umana. Alla base della pittura di icone sta il mistero dell'Incarnazione; e anche Congdon coglie il massimo dispiegarsi dell'Incarnazione nella Passione di Gesù. Con la tecnica dell'espressionismo astratto egli ci mostra il dramma della morte ma anche la sua cancellazione.
Un passo indietro è doveroso. Chi era William Congdon? Un americano in Italia, si potrebbe dire. Nacque il 15 aprile del 1912 a Providence (Rhode Island), nella stessa data dell'affondamento del Titanic. E la coincidenza fece pensare alla collezionista d'arte americana Peggy Guggenheim che il pittore fosse una specie di reincarnazione del padre scomparso nella tragedia del Transatlantico. La stessa Peggy lo stimava enormemente: riteneva le sue opere su Venezia paragonabili solo a quelle di un Turner.
E se si vuole insistere sul filone delle coincidenze bisogna aggiungere che Congdon morì a Milano in un altro 15 aprile, quello del 1998, dopo una vita intensa di esperienze, viaggi e conversioni.
William Congdon proveniva da una famiglia ricca di industriali e banchieri del New England. Pensò di dedicarsi all'arte dopo l'università e la sua intuizione si rafforzò attraverso una terribile esperienza: durante la seconda guerra mondiale era autista volontario di ambulanze e fu uno dei primi a entrare nel campo di Belgen-Belsen. «I disegni - scrisse - dei morenti a Belsen, nel 1945, vivono della mia prima autentica esperienza di vita». I suoi disegni di volti e di quell'orrore sono straordinari come le fotografie del genocidio armeno fatte da Armin Wegner.
Questo fu il primo evento che sconvolse la vita di William. Dopo la guerra tornò in Italia per la ricostruzione e scoprì qui la sua vocazione di pittore. Rientrato a New York, fu accolto nel giro giusto delle gallerie.
La seconda svolta importante fu la conversione alla fede cattolica avvenuta nel 1959: da allora per qualche anno dipinse solo soggetti religiosi, in particolare straordinari Crocifissi. Facendo eccezione per i numerosi viaggi che intraprendeva soprattutto nelle zone povere del mondo, scelse a dimora luoghi che lo riportavano vicino alle origini della fede cristiana. Andò ad abitare ad Assisi, sulla scia di san Francesco, dove ebbe uno studio tra gli anni Sessanta e Settanta (ne aveva già avuto uno per dieci anni a Venezia). «Nel 1966 - scrisse - ho uno studio anche a Milano. Piccoli quadri incrostati di vero smog, raccolto come terra dai davanzali delle finestre. Poi, dal 1979 al 1998, visse a Gudo Gambaredo, alla periferia milanese, scelto perché accanto a un monastero benedettino.
Dopo la conversione, scrisse ai genitori: Per la prima volta nella mia vita non sono solo. Non ho età né peccato. Non ho paura del tempo. Non ho altra responsabilità che crescere nell'amore di Cristo, nella conoscenza di Dio come Egli vuole, nella pittura o in qualsiasi modo, così come Egli mi ama. E morire in Lui e vivere per sempre».
La croce e il sabato santo
«Congdon - scrive Enzo Bianchi che lo ha conosciuto personalmente - ha incontrato Cristo crocifisso e tutta la sua avventura di convertito pare un cammino alla scuola di Paolo di Tarso. Congdon resta per le nostre generazioni il più grande ed efficace esegeta della crocifissione nel XX secolo». «L'incontro con Cristo, dopo il 1959 - scrive Congdon, che ne dipinse circa duecento - mi fa scoprire che il suo dramma di croce è pure il mio. E questo mi porta al Crocifisso tramite un ritorno alla figura, figura mai più da vedere o da dipingere disgiunta dalla croce».
E anche i suoi critici lo hanno capito: Congdon nel panorama dell'arte contemporanea costituisce un caso atipico e fondamentale. Scrive Paolo Biscottini nel bel catalogo edito da Electa: Tutta la storia di Congdon si concentra qui: capire che tutta la verità della storia è nel Crocifisso, ma non perché croce o crocevia del mondo, ma perché corpo di Cristo appeso a un legno e qui morto per la salvezza di tutti. Questa Verità intuita e poi contemplata, come cosa esterna a se stessi, libererà l'artista da ogni fraintendimento artistico e personale. Il pittore dell'action painting dovrà scartare l'ipotesi - estrema seduzione romantica - di una proiezione di sé sulla tela, e anche ogni intento narrativo, pur riconducibile ai temi religiosi, per scoprire attraverso l'esperienza del dolore dell'uomo e del suo personale soffrire che la distanza fra sé e il corpo di Cristo Crocifisso diventava attesa e l'attesa era preghiera.
Così questo strano pittore girovago e mistico riuscì, nel Novecento, a creare una iconografia del crocifisso assolutamente nuova, né triunphans, né patiens, ma corpo morto per risorgere. Lui ritrovò, nel secolo che tutto aveva dissacrato, il cammino del sacro. Analogia dell'icona.
Le città sono le persone
«Le città per me sono sempre persone. Dipingo architettura ma tramite le tensioni umane che la costruiscono», scrive Congdon, e un'antologia di suoi pensieri si trova nel volume Il sabato della storia , di Joseph Ratzinger e William Congdon, edito da Jaca Book nel 1998. Egli viaggiò moltissimo e scrisse moltissimo, anche sulle città che vedeva. Di New York: Il volto della città : tutta una rete nera nella notte, confusa, contorta e sollevata da luci smarrite e galleggianti in cui incidevo come per distruggere. Di Venezia: «Piatta sulla laguna immobile, sopporta tutto il peso di un giorno tirannico»; Assisi invece gli appariva «scarna come un osso».
A Bombay e Calcutta - raccontava - scopre il nero della sofferenza dell'India. «Ciò che mi colpì a Bombay è stata la lunga strada, strada colma di traffico che non sarebbe diverso da quello di qualsiasi grande strada nel mondo d'oggi, se non per il fatto che scorreva attraverso una miseria indicibile, nella quale il mare melmoso delle baracche e della gente erano stati ridotti - indistinguibili una dall'altra - ad un inferno!».
Nel 1955 si recò nel deserto del Sahara: «Sono emerso dall'aereo nella luce, in un'aria che non mi apparteneva, tra due cieli, l'uno di luce, l'altro di sabbia e io tra loro; vestito secondo la dimensione di altri mondi, io non ero alto che un buco nero nella luce. Nello stesso anno andò a Santorini, isola di distruzione nel mar Egeo, anch'essa arena di una lotta tra la vita e la morte. Abitavo e dipingevo nella metà distrutta dell'isola, sulla scogliera che sorvegliava il vulcano il quale dilagava come un fegato arso sopra le acque».
Cielo e terra sono uniti
La fine degli anni Settanta segna una svolta nella pittura di Congdon. I suoi quadri si caratterizzano per ampie campiture cromatiche in dialogo tra loro. La piatta pianura lombarda diventa uno dei suoi soggetti preferiti.
«Stufo di vedere cielo e terra in separato orizzontale rapporto, decido di infondere cielo in terra e terra in cielo. Interessante che non possa vedere un cielo orizzontale ma solo verticale che perfora, spacca, purifica la terra».
E ancora scriveva: «L'idea per un quadro di oggi mi deriva dal mio senso che l'orizzonte è l'uomo - che la vita dell'uomo si svolge sull'orizzonte - e che il cielo e la terra sono essenzialmente una cosa sola».
I suoi pensieri e le sue poesie, oltre che i suoi quadri, danno l'idea della profondità di questo pittore che intendeva l'arte come una ricerca del senso ultimo delle cose. Egli nei suoi quadri vedeva l'altro, ma anche l'Altro. «Adesso - scriveva - la morte mi ha rivelato la faccia di quest'Altro, adesso è terminato il mio quadro».