Carceri: la verità è nei numeri

Le cifre talvolta valgono più delle parole, specie se queste sono abusate e vuote, ritornello di convegni costosi, dove si discetta sulle sofferenze di poveri e carcerati mentre ci si prepara per il buffet.
19 Ottobre 2005 | di

Lo scorso 28 settembre, alla Festa della polizia penitenziaria, il ministro della Giustizia, Castelli, ha ritenuto di rivendicare come fatto rilevante degli ultimi anni la nascita di una squadra di calcio: «Profondamente convinti della forza di educazione contenuta nell'attività  sportiva abbiamo dato vita ad una squadra di calcio di detenuti...». Mentre queste parole venivano pronunciate, molti agenti penitenziari e gran parte dei loro sindacati manifestavano all'esterno della cerimonia per dire che non c'è nulla da festeggiare, tanto profondo e inascoltato è il disagio di chi vive e di chi lavora nelle prigioni. Proprio dai festeggiati, è venuto un giudizio senza appello: «È irrecuperabile la distanza tra i bisogni del sistema carcerario italiano e chi ha o, meglio, dovrebbe avere, responsabilità  di governo».
Parole nette, però fondate su cifre inequivocabili: 60 mila detenuti per meno di 43 mila posti in cella, quasi 17 mila in esubero, con conseguente sovraccarico di lavoro per il personale e condizioni invivibili per i reclusi. I poliziotti penitenziari sono 45 mila 126, di questi, però, solo 36 mila 268 lavorano nelle carceri. Gli educatori sono 551, assai meno dei 1.376 previsti dalla pianta organica, per cui vi è un solo educatore ogni 107 detenuti. Gli assistenti sociali in servizio sono 1.223 anziché i 1.630 previsti (un assistente sociale ogni 48 detenuti). Gli psicologi risultano essere circa 400, con una media di circa due per ogni istituto.
 
Ma vi sono altri numeri che più direttamente e drammaticamente possono dare conto della sofferenza nelle celle: il 7,5 per cento dei detenuti è sieropositivo; il 38 per cento positivo al test per l'epatite C e il 50 per cento a quello dell'epatite B, mentre il 7 per cento presenta l'infezione in atto; il 18 per cento risulta positivo al test della tbc (tubercolosi); nel 57,5 per cento delle carceri si sono registrati casi di tbc e, nel 66 per cento, di scabbia.
Il quadro sanitario, allarma, ma purtroppo non stupisce la crescita della disperazione, con almeno 52 suicidi, 1.110 tentati suicidi, mentre sono già  70 i morti dall'inizio 2005 a metà  settembre, quasi tutti per suicidio e per malasanità .
Cosa significano, in concreto, queste cifre lo racconta in una lettera a una radio Maurizio, dal carcere di Roma: «Siamo chiusi in sei persone dentro una piccola cella. Ad agosto c'era un infermiere per 450 persone detenute e se uno di noi si sente male i tempi di attesa per ricevere assistenza sono biblici. E non si può certo dire che qui di medici non ce ne sia bisogno. La cella davanti alla mia è così composta: un detenuto molto anziano, uno con l'aids conclamata, due psicolabili e un epilettico... Ma qui a Rebibbia c'è anche di peggio, come la ex sala ping pong che è diventata una cella per i nuovi giunti: dentro ci vivono in tredici, uno sopra all'altro».

Certo, ha ragione il ministro quando dice che la società  «vuole più sicurezza e più certezza della pena», ma questo non giustifica l'attuale situazione, non deve tradursi in una mortificazione della dignità , dei diritti, della salute di chi è chiuso in cella. Queste condizioni carcerarie costituiscono una pena aggiuntiva, che pone obiettivamente il sistema penitenziario in condizione di inadempienza, di vera e propria illegalità , laddove non vengono garantite le condizioni minime stabilite dal regolamento carcerario.
Infatti, esistono leggi di grande civiltà  disapplicate. Una su tutte: quella entrata in vigore simbolicamente l'otto marzo del 2001, che doveva consentire alle detenute madri e ai loro bambini di stare fuori dal carcere. Ebbene, alla fine del 2004 nelle carceri erano rinchiuse 54 madri e 60 bambini: un numero superiore a quello di quando la legge ancora non era stata fatta.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017