Lettere al direttore
LETTERA DEL MESE
Concilio, evento complesso ma sicura bussola per il XXI secolo
«Caro direttore, ho letto il suo editoriale sul numero di ottobre e mi congratulo per il prestigioso incarico al quale è stato chiamato [...]. Tuttavia mi permetta, padre, qualche rilievo sulla sua presentazione totalmente laudativa del concilio Vaticano II. Avendo raggiunto i 75 anni, ricordo molto bene l'atmosfera carica di trepida attesa di noi giovani cattolici... Poi vennero gli anni '65-70, con la rivoluzione liturgica (molto più radicale di quella prevista dai padri conciliari), la moria di vocazioni sacerdotali e religiose, lo sfascio della famiglia e della scuola, il relativismo etico con divorzio e aborto suoi corollari».
Vittorio G.
La ringrazio innanzitutto per le calorose congratulazioni. La ringrazio inoltre per la schiettezza quando, in relazione al mio editoriale di ottobre Concilio, i primi quarant'anni , rileva una presentazione totalmente laudativa del Vaticano II, mentre invece bisognerebbe mettere in conto anche i frutti guasti e malsani di un certo post-concilio. È vero, se il concilio ha suscitato grandi speranze, se ha posto solide premesse per un autentico e ricco cammino di Chiesa, non sono mancati gli eccessi, gli estremismi, le letture fondamentaliste da una parte, così come quelle minimaliste dall'altra. Ingenuamente qualcuno ha pensato che tutto potesse ricominciare da capo, quasi azzerando di punto in bianco la tradizione, mentre con altrettanta superficialità altri hanno ritenuto che tutto potesse continuare come prima, con l'innocua introduzione di qualche cambiamento di facciata.
I mutamenti in ambito liturgico, per l'importanza che la liturgia riveste nel vissuto cristiano e per quella visibilità che la rende valutabile anche da parte di chi osserva dall'esterno, hanno causato scompensi e sofferti disagi, giungendo a volte a dividere gli animi. Alcuni di questi mutamenti, pur necessari, non sono stati collegati sufficientemente allo spirito della tradizione, e lì per lì hanno dato l'impressione di un cambio di marcia frettoloso e immotivato. Anche Papa Ratzinger, nell'autobiografia che lei cita più volte e con molta correttezza nella sua lunga lettera (che purtroppo non abbiamo potuto riportare per intero), confessa una certa delusione di fronte ad alcuni esiti poco felici della riforma liturgica. È però significativo quanto si legge al n. 8 del Messaggio al popolo di Dio diffuso a conclusione del recente Sinodo dei vescovi sull'eucaristia: «Il Sinodo riafferma che il concilio Vaticano II ha posto le basi necessarie per un rinnovamento liturgico autentico». Gli abusi, di cui si parla subito dopo, sono ombre reali che in ogni caso non possono offuscare la portata di un evento che resta decisivo per la vita della Chiesa del XXI secolo. Il concilio, dunque, è da realizzare, non da deprecare.
Vorrei concludere con una considerazione che è bene tenere presente: lei elenca molti fatti negativi e incresciosi che hanno segnato gli anni del primo postconcilio. Ebbene, non tutto ciò che è accaduto in Italia (e nel mondo) dopo il concilio è imputabile ad esso. Non serve poi andare in cerca di citazioni probatorie per poter affermare che i pronunciamenti dei Papi sul concilio (da Giovanni XXIII a Benedetto XVI, passando per Paolo VI e Giovanni Paolo II) sono nell'insieme - pur con accentuazioni diverse - di tonalità positiva e incoraggiante, comunque indisponibili a fraintendimenti, e ribadiscono con unanimità che con il Vaticano II la rugiada dello Spirito Santo si è posata sulla Chiesa, orientandola a una nuova primavera.
Invochiamo dal Signore occhi per vedere i germogli e i primi frutti della nuova stagione che avanza, e l'umiltà di dire grazie a Lui perché ha operato e opera con sapienza nel cuore della Chiesa e del mondo.
LETTERE AL DIRETTORE
Vivere la fede nella sapienza dell'amore
«Da molti anni partecipo agli esercizi spirituali nella mia comunità . Quest'anno sono stati per me difficili e faticosi. Partendo da un brano del profeta Elia (1Re 17) la meditazione ha toccato molti temi teologici. A un certo punto ho sentito un desiderio troppo forte di comprendere la parola di Dio, e mi sono spaventata. La mia è sempre stata una fede semplice, basata sulla fiducia che il Signore non ci abbandona mai. Frequento un corso biblico che mi ha sempre incuriosito e appassionato, ma oggi mi sembra che tutto ciò che ho voluto approfondire mi si ritorca contro. Tutti parlano, parlano...» .
Paola C.
Lei pensa di essersi addentrata fin troppo nei sentieri della conoscenza del mistero di Dio e ritiene presuntuoso l'andare oltre. Ne ha paura e vorrebbe ritornare alla fede semplice della sua giovinezza, intessuta solo di fiducia, di generosità , di amore e di silenzio adorante, senza quel brusio di «chiacchiere» che ora le danno fastidio.
Non è facile per me capire quale meccanismo abbia suscitato in lei tali sentimenti: forse la paura di crescere verso una fede più «pensata». C'è però più di un modo per vivere in pienezza la propria fede.
Per aiutarla a capire, spero, le riferisco un aneddoto che fa al caso nostro e che ha per protagonisti il grande teologo francescano, curiosissimo e mai sazio di sapere, san Bonaventura, e uno dei più semplici e rozzi compagni di Francesco, frate Egidio. Tra i francescani a quei tempi si temeva che il sapere, compreso quello teologico, potesse far perdere ai frati la loro incantevole semplicità e la loro meravigliosa umiltà .
I due, si racconta, si incontrano a Monteripido, presso Perugia. Frate Egidio, l'arguto esponente della vecchia guardia, apostrofa provocatoriamente il dotto frate Bonaventura: «Maestro, a voi Dio ha fatto grandi doni di intelligenza, ma noi di ingegno grosso, che non abbiamo nessuna scienza, come faremo a salvarci?».
Fra Bonaventura, prontamente: «Se Dio dà all'uomo soltanto la grazia di poterlo amare, questo basta».
Frate Egidio insiste: «Può dunque un ignorante amare Dio come un dotto?». E Bonaventura: «Una vecchierella può amare Dio anche più di un maestro di teologia». E frate Egidio, rivolgendosi a un'immaginaria presenza: «O vecchierella, poverella, semplice e ignorante, ama il Signore e potrai diventare più grande di fra Bonaventura, maestro di teologia».
Fra Bonaventura, uno che si è addentrato assai nei sentieri della conoscenza di Dio, è diventato santo. Come lo sono diventati frate Egidio e uno stuolo infinito di «vecchierelle semplici» le quali, anche senza finire sugli altari, hanno riempito la loro vita di amore di Dio. Di per sé, dunque, né la conoscenza né la semplicità sono di impedimento alla vita spirituale, quando accompagnate dalla sapienza dell'amore.
Il dolore di quando muore una persona cara
«Ho bisogno, oggi più che mai, di aggrapparmi alla fede. Ho bisogno di credere per soffrire meno la mancanza di mio padre. Ho bisogno di credere che ora stia bene e che mi stia guardando da lassù... Ho bisogno di sentirlo vicino, mi manca tanto, forse troppo. Non è giusto che il mio Signore, così buono e misericordioso, abbia voluto sottrarlo all'affetto dei suoi cari così giovane e con una malattia così dolorosa che in meno di tre mesi l'ha portato alla morte. No, non è giusto! Aiutatemi a capire i disegni divini che portano a queste strane situazioni».
Domenica
Il dolore che lei prova in questo momento è tra i più cocenti che la vita ci costringe a sperimentare. È normale che lei si senta arrabbiata con il mondo, incredula, risentita persino con Dio. Sarebbe banale ora dirle che anche in un dolore così grande ci può essere luce. Perché ridare senso a ciò che sembra non averne è una lunga, dolorosa conquista cui tutti siamo chiamati, quando perdiamo una persona cara.
Lei non lo vede ancora, ma l'amore per suo padre, che traspare dalla sua lettera, è un amore che gronda di luce; il risentimento verso Dio è quello che esprimerebbe una figlia che, credendosi tradita, chiede spiegazioni, implora aiuto. Il padre terreno se ne è andato e il suo Padre celeste sembra averla abbandonata. Nessuno dei due l'ha lasciata sola, ma ci vuole tempo e rispetto per il proprio dolore per scoprirlo.
Ogni cammino nel lutto può essere un fecondo cammino di fede, un nuovo incontro, una riscoperta, un eterno tacito abbraccio con la persona amata in vita, recuperata nel ricordo, ma ancora fonte di sapere e di affetto.
Nessuno ha la ricetta per venire a patti con questo dolore, nessuno sa dov'è la chiave che apre la porta giusta. Ciò che si può fare è condividere, camminare assieme, orientarci verso lo spiraglio da cui filtra la luce. Cerchi sempre qualcuno che possa ascoltarla senza riserve, nella verità del suo dolore. Insieme si può scoprire che i nostri pensieri, le nostre azioni, la nostra fede, la capacità di distinguere il bene dal male, di provare e vivere i sentimenti è anche frutto della vita e dell'esempio di quelli che ci hanno preceduto.
La vanagloria al posto dell'ira nei vizi capitali
«Leggendo, nel bel calendario 2005, il testo del mese di ottobre mi sono accorto, con sorpresa, che è indicata tra i vizi capitali la vanagloria anziché l'ira. Sono andato a guardarmi nel dizionario il significato delle due parole e si è confermato il mio dubbio, cioè che si tratta di due vocaboli per niente simili o intercambiabili. La vanagloria si può assimilare alla superbia, ma non certo all'ira».
Ermanno R.
Quella «lista di vizi» riportata nel calendario è tratta da un Sermone scritto da sant'Antonio per la terza domenica dopo Pasqua, che nel testo originale dice: «Tutti coloro che saranno implicati in questi sette vizi...», senza l'aggettivo «capitali» lì liberamente aggiunto. Sant'Antonio nel Sermone commenta il brano dell'Apocalisse nel quale sette angeli versano in altrettanti luoghi diversi le sette coppe dell'ira di Dio: sulla terra, nel mare, nell'aria, nei fiumi, nel sole... A ognuno di questi luoghi lega una categoria di viziosi. Nella terra sono indicati gli avari e gli usurai; nell'acqua i superbi e i lussuriosi.... Nel sole il Santo indica i vanagloriosi. Come il sole brucia il seme che non ha attecchito, così il tempo smaschera quelli che vogliono apparire ciò che non sono.
L'aver posto tra i vizi la vanagloria non è però una stravaganza del Santo, perché essa si trova inserita in alcuni elenchi di vizi capitali in circolazione nel Medioevo.
I sette vizi capitali hanno avuto nel tempo classificazioni diverse, formulate sin dagli inizi del cristianesimo. I primi scrittori, che se ne sono occupati esaminando i testi biblici, hanno posto la superbia come prima fonte di tutti vizi, e dopo di essa ne hanno enumerati altri sette: la vanagloria, l'avarizia, la lussuria, l'invidia, la gola, l'ira e l'accidia. Che fanno otto. È con san Gregorio Magno (540-604) che, espunta dall'elenco la vanagloria, prevale il numero di sette. Solo nella Chiesa d'Occidente, però, e con qualche contrarietà da parte di teologi come sant'Isidoro di Siviglia. Nella Chiesa orientale la vanagloria ha conservato il suo posto, mantenendo a otto il numero dei vizi. Probabilmente ai tempi del Santo la materia era ancora fluida.
Il linguaggio oscuro di uno psicologo
«Da sette anni sono in psico-analisi. A marzo scorso avevo deciso di fare la mia ultima seduta e di smettere. Appena ho comunicato alla psicoanalista la mia decisione, lei mi ha detto che, in base ad alcune sue ricerche, io e il mio fidanzato, che lei conosce, non possiamo avere figli, perché abbiamo entrambi un inconscio istintuale maschile e questo non permetterebbe la fecondazione. A meno che tutti e due non cambiamo partner. È terribile».
Lettera firmata
Le diagnosi raccontate pongono sempre gravi problemi di interpretazione, perché l'ascoltatore non riesce a distinguere tra le informazioni della fonte e le sottolineature aggiunte dall'informatore... A quanto mi risulta, un'eventuale diagnosi di infertilità psicogena deve essere fatta a posteriori , quando, cioè, esauriti i tentativi per indurre la procreazione nella coppia sul piano biologico, e cioè medico, non si sono conseguiti risultati. Che cosa le vuole dire allora la sua psicoanalista (che dalla sua lettera non sappiamo se abbia competenze mediche)?
Il suo linguaggio, «inconscio istintuale maschile», appare molto criptico, oscuro, quasi esoterico e non accessibile ai profani. In ogni caso, questo responso, comunicato soltanto quando lei ha deciso di sospendere l'analisi, ha tutta l'aria di una rivelazione che non aiuta nessuno.
Le consiglierei di chiedere alla sua analista, a chiusura dell'analisi, una relazione scritta su carta intestata relativa al percorso fatto, che eventualmente esprima anche la diagnosi che lei riporta. Potrebbe comunque servirle in futuro per capire meglio il cammino fatto in questi sette anni. Mostrando questa relazione potrà poi avere un parere fondato da parte di qualche esperto: «ginecologo» se il problema è di tipo medico, oppure «psicologo» se il problema non è di tipo organico (potrebbe essere, infatti, che la sua psico-analista le voglia sconsigliare di sposarsi, o di sposare quel determinato uomo).
Cominci a chiedere con fermezza una relazione scritta: ne ha tutti i diritti dopo sette anni; e non si lasci fare «profezie» che non capisce e non l'aiutano a crescere né personalmente né insieme al suo fidanzato.
La saggia regola del compromesso
«Vorrei sapere se nel prendere una decisione importante deve prevalere il buon senso (per il quieto vivere) o se bisogna dar corpo ai propri desideri, che magari non coincidono affatto con quelli coltivati dal proprio marito».
Antonia
Tra il perseguire i propri sogni, incuranti delle esigenze della famiglia, e il badare solo a queste sacrificando ogni proprio progetto, una via di mezzo c'è. E sta nel mettere le carte in tavola e confrontare le rispettive posizioni per raggiungere un compromesso dettato dalle necessità e dall'amore.
Compromesso vuol dire rendersi conto che per camminare insieme, è necessario essere disposti a modificare i propri progetti. Lo ha ricordato anche papa Giovanni Paolo Il.
Il matrimonio è «un'intima comunità di vita e di amore coniugale», nella quale i coniugi «mutuamente si danno e si ricevono».
E «la realizzazione dei significato dell'unione coniugale diventa possibile solo attraverso un continuo sforzo che include rinuncia e sacrificio», nonché la volontà di cercare insieme innanzitutto il bene della coppia, attraverso il quale, comunque, passa anche il bene dei singoli coniugi.