Leggere la vita
Nella sua prima lettera, Pietro parla della speranza come di una «responsabilità » dei cristiani: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chiede conto della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Intesa come responsabilità , la speranza ha due valenze: è manifestazione della fede nei confronti di Dio ed è diaconia nei confronti degli uomini. Di tale responsabilità fa parte il compito di «valutare il tempo presente», come chiesto da Gesù alle folle: «Ipocriti! Sapete valutare l'aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo?» (Lc 12,56).
Gesù chiede di passare dal «tempo che fa» al «tempo che si vive», dalla natura alla storia, dalla profezia metereologica alla profezia storica. L'ipocrisia definisce colui che, ignorandosi, crede di sapere il vero e di fare il bene (cf. Lc 6,42). L'ipocrisia è una forma di cecità , colpevole perché evitabile: reagire correttamente alla natura e non farlo di fronte agli eventi storici è ipocrisia. Questo ripiegamento che porta a battere in ritirata di fronte al compito di aprire gli occhi sulla storia e di valutarla, è un venir meno al compito di rendere ragione della speranza che è nel credente e che non è astorica, ma attraversa le vite e la storia.
Valutare «questo tempo (kairà³s)» significa cogliere il quotidiano e gli eventi storici alla luce del Regno, del Signore e Giudice della storia: strumento di valutazione è dunque l'Evangelo che porta a cogliere l'oggi non come neutro contenitore di fatti, ma come occasione di conversione.
Questa l'eloquenza degli eventi storici: un appello alla conversione, a tornare al Signore abbandonando le proprie vie di peccato. Il kairà³s è il tempo di cui il credente può fare qualcosa (Ef 5,16 parla di riscattare il tempo), o meglio, con cui Dio stesso può fare qualcosa al credente, se solo questi accetta di lasciarsi interpellare dalla storia. E gli eventi, anche gli eventi calamitosi e dolorosi, sono per il credente occasione di conversione, non certo di giudizio o di condanna degli altri (Lc 13,1-5): troppe volte l'occhio religioso invece di muoversi a compassione per la vittima del male, gli rivolge uno sguardo colpevolizzante. E così, una teologia troppo imbevuta di spirito giuridico arriva a fare di una vittima un colpevole.
I due episodi di cronaca riferiti a Gesù (Lc 13,1-5) sono magistero che attua il passaggio «dalla teodicea alla conversione».
Di fronte alle calamità non si tratta di difendere Dio e di accusare l'uomo, e nemmeno di accusare Dio deresponsabilizzando l'uomo, ma di accogliere l'enigma del non senso, l'enigma del caso, l'enigma dell'evento naturale catastrofico (terremoto, tsunami...) come occasione per entrare più a fondo nel mistero del Dio che si è fatto uomo condividendo la debolezza e la fragilità della condizione umana fino alla morte, e alla morte di croce.
E di fronte alle tragedie che l'uomo stesso compie, invece di chiedersi «dov'è Dio?» è più importante chiedersi «dov'è l'uomo?», «dov'è l'umanità dell'uomo?». E interrogarsi sulla «propria» umanità , perché ciò che gli altri compiono è una possibilità anche per noi, che conosciamo il rischio di degradare e corrompere la nostra umanità se non la custodiamo, se non la nutriamo, se non la curiamo.
Convertirsi è ritornare a Dio, e in tale ritorno ritroviamo anche la nostra più autentica umanità .