Sembravano ormai scomparsi, retaggio del lontano Medioevo. Invece gli eremiti oggi, in Italia, sono oltre trecento. Paradossalmente, fanno pure un gran «rumore»: su di loro di recente si sono scritti articoli, libri, tesi di laurea e, seguendo questo filone, è stato girato addirittura un film di successo, in questo periodo nelle sale. Senza contare le file di persone che li vanno a cercare, per essere ascoltate, o solo per vedere con i propri occhi come anche oggi, nella società della comunicazione, del rumore e dell’apparire, è ancora possibile vivere felici, pur isolati, nel silenzio e nel nascondimento. Ma chi è l’eremita? Difficile dirlo, anche perché non ne esiste una sola tipologia. Anzi, secondo alcuni ci sarebbero tante forme di vita eremitica quanti sono gli eremiti. A scandire le loro giornate è, infatti, una regola personale che deve essere approvata dal vescovo. C’è chi, per esempio, ha scelto di vivere in un eremo aperto all’accoglienza. Chi ha optato per la forma «anacoretica» in senso stretto. E chi ha edificato il suo eremo nel cuore stesso di una metropoli, a pochi passi dalle vie dello shopping. Ne abbiamo incontrati tre.
«L’eremita, cuore universale»
Mosciano è un delizioso borgo immerso nelle colline sopra Firenze. Poche case tra gli ulivi, raccolte attorno al monastero di Santa Maria degli Angeli e alla chiesetta di Sant’Andrea. Qui, da sette anni, vive in romitaggio don Paolo Giannoni, settant’anni, oblato camaldolese, fiorentino doc. Un passato di docente di teologia spirituale alla Facoltà teologica dell’Italia centrale e di parroco.
Don Paolo si presenta con una spiccata vena ironica, che nasconde un animo delicato e sensibile, capace di straordinaria attenzione agli altri. Lo si capisce da tante piccole cose: i fiori che raccoglie per i suoi ospiti, i biscotti messi da parte per un povero che da qualche tempo bazzica il monastero, la preoccupazione per l’amico anacoreta che da un po’ non sente.
Per due giorni don Paolo ci lascia condividere la sua vita, scandita da orari ben precisi, che si sviluppano seguendo i tempi della preghiera canonica della Chiesa, tra la sveglia alle 4 e 30 e il riposo serale alle 21,00. Una rigidità d’orario, che don Paolo è pronto, però, a sovvertire se qualcuno si affaccia al monastero. «Per san Benedetto ogni ospite che bussa è Gesù che viene – spiega l’eremita – e quindi ha la precedenza su tutto. Non ho mai detto a nessuno: “aspetta”». Le persone che lo vanno a trovare lo sanno, per questo accorrono qui numerose. Ma che cosa cercano? «Sartre ne L’esistenzialismo non è un umanesimo – risponde don Paolo – scriveva che il fatto di scegliere una persona e non altre cui chiedere un parere, è già, di per sé, un parere. Quindi, chi viene da un eremita, in realtà ha già scelto di mettersi alla ricerca dell’infinito. Inoltre, le persone sanno che io ho tempo da dedicare loro perché, non avendo nessuno, posso darmi a tutti».
Don Paolo è entusiasta del rinnovato interesse di oggi per l’eremitismo. Si commuove addirittura, quando confida di avvertire la vita eremitica come un grande dono. «È una forma di vita che fino a qualche tempo fa, anche all’interno della Chiesa, veniva guardata con un certo sospetto. Oggi, finalmente, si è capito che l’eremita non è un “solo”, ma un “solitario” che è presenza di Chiesa e presenza del mondo davanti a Dio. Proprio in virtù della sua solitudine, del fatto di non essere coinvolto da nessuno in particolare, egli ha la possibilità di farsi coinvolgere da tutti per divenire cuore universale». E aggiunge, quasi sottovoce: «Nel silenzio, nella meditazione, nell’ascolto della Parola di Dio, quando le parole diventano profonde, piene di echi, c’è la possibilità di penetrare meglio ogni cosa, di leggere la realtà per coglierne l’estrema bellezza nonostante tutto».
Anche se l’eremita è uno che balla da solo (anà kòresis in greco indica insieme la vita eremitica e il senso della gioia della danza), non è tutto oro ciò che luccica. «Non voglio vivere “il cristianesimo dell’agonia” – sottolinea infatti don Paolo –, ma la nostra vita è fatta sia di momenti molto intensi di creatività e gioia che di momenti di profondo dolore. È un dolore dinanzi al quale l’eremita non ha difese, perché la solitudine fa affiorare il proprio personale Acheronte, il fiume infernale che scorre nelle pieghe nascoste della personalità, che uno vorrebbe non vedere. È un dolore che ferisce, ma che può diventare salmo di lamento da offrire a Dio, e occasione di speranza, perché porta ad affidare la propria debolezza alle mani del Signore, in una straordinaria storia di redenzione».
Il cuore è inquieto se non riposa in Dio
Arriviamo all’oratorio della Madonna del Tamburino sotto una pioggia... battente. L’ultimo paese – poche case inerpicate sul versante della montagna – l’abbiamo lasciato dieci chilometri prima. L’eremo, cui si accede attraverso una stradina sterrata, piena di buche e scivolosa per il fango, si trova nel cuore di uno dei luoghi più suggestivi della Valdinievole, in provincia di Lucca.
Nonostante il tempo da lupi, don Mauro ci aspetta con il sorriso. Vive qui, in completo isolamento, da tre anni. La sua casa è di tre stanze, addossata a una chiesetta del XIII secolo dedicata a Maria Mater Gratiae. Il minuscolo bagno è all’esterno. Don Mauro non ha la corrente elettrica, usa due pannelli fotovoltaici che gli bastano appena per caricare il cellulare (unico contatto con il mondo) e per alimentare un sistema artigianale di depurazione dell’acqua che attinge da un torrente. Vive di provvidenza. La sua casa, però, è accogliente, ordinatissima, molto curata. Povera, ma di una povertà resa bella dall’amore. Don Mauro è allegro, dimostra meno dei suoi 47 anni. Si vede che era una sportivo: «Ciclista per 7 anni», sussurra. Il viso e l’atteggiamento lasciano trasparire un animo puro e semplice; mentre le sue parole raccontano un animo inquieto.
Don Mauro, perché una scelta di vita «anacoretica»? «Perché ce l’ho avuta dentro sin da ragazzo. Anche se non l’avevo capito», risponde con una cadenza bresciana che tradisce le sue origini. Don Mauro è stato, infatti, monaco camaldolese. «Entrai a Camaldoli nell’85 – racconta – ma quasi subito capii che quella non era la mia strada. Cercai comunque di adattarmi finché, ormai alle soglie dell’ordinazione sacerdotale, arrivò la crisi, profonda, totale. Ottenuto il permesso di uscire dal monastero, tornai a Brescia. Mi trovai una ragazza e feci anche esperienze molto alternative. Ma il cuore non era ancora contento e così chiesi di rientrare a Camaldoli, facendo, però, un’esperienza di itineranza. Fu durante uno dei miei spostamenti a piedi, in Toscana, che un sacerdote mi concesse l’uso di un eremo situato nella sua parrocchia. Rimasi lì quattro anni e capii che quella era la mia vera vocazione. Così, uscito definitivamente da Camaldoli, rinnovai i miei voti, come eremita diocesano, nelle mani del vescovo di Lucca, venni ordinato sacerdote e destinato in questo piccolo eremo».
Ogni anno don Mauro, nei quaranta giorni successivi alla Pasqua, si impegna in un pellegrinaggio. «Parto a piedi, senza nulla, chiedendo ospitalità nei conventi e nelle parrocchie. Non predico, non offro testimonianze preconfezionate: è lo Spirito Santo che mi suggerisce che cosa dire o fare. Per me è un’occasione per annunciare il Vangelo in modo povero, nascosto e silenzioso e per portare al mondo la buona notizia di Cristo risorto, riallacciandomi a un’usanza che vige tra i monaci del monte Athos. Il pellegrinaggio è un modo di vivere l’estraneità, ritornando alla dimensione originaria del cristiano che si sentiva esule e straniero su questa terra. Serve? Non lo so. Ogni tanto ho il dubbio che tutta la mia vita non serva a niente... Ma se guardo con gli occhi dello Spirito, le cose cambiano: un eremita richiama la società al primato di Dio nell’esistenza, a cercare quell’incontro personale con il divino cui ognuno di noi è chiamato».