Laici, costruttori della città dell’uomo
Ricorre quest’anno il ventennale della morte di Giuseppe Lazzati, grande figura del laicato cattolico italiano, nato a Milano nel 1909 e morto nel 1986. Se il nome rischia di dire poco alle giovani generazioni, i ruoli che egli ha ricoperto nel corso della vita furono di straordinaria importanza: autorevole socio e dirigente dall’Azione cattolica, professore universitario, fondatore, a trent’anni, di un Istituto secolare, deportato nei campi di concentramento tedeschi e polacchi (che seppe animare con la testimonianza e con una esplicita attività di formazione delle coscienze alla resistenza), deputato alla costituente (1946-1947) e alla prima legislatura (nel gruppo dei «professorini» o «dossettiani»), direttore di un quotidiano cattolico («L’Italia» di Milano), rettore per quindici anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nel periodo più difficile della sua storia (1968-1983), fondatore dell’associazione di cultura politica «Città dell’uomo».
Molte persone, perciò, hanno avuto modo a vario titolo di incrociare la sua figura che, pur nelle tante esperienze attraversate, mai risulta «dispersa» o dilettantesca. Ciò grazie alla sua fedeltà, al contempo distinta e congiunta, alla Chiesa e al mondo. «Distinta» perché Lazzati fu fedele interprete ed elaboratore in Italia di una teologia del laicato che, dapprima guardata con sospetto come un tentativo di separazione delle coscienze, trovò consacrazione nel Concilio Vaticano II e nei documenti successivi.
Lazzati seppe esprimere come pochi, nella sua vita e nella sua riflessione, il principio che il laico credente trova nel mondo non il «luogo di depotenziamento» della fede, ma il «luogo primario e immediato di santificazione». Una santificazione anche «canonica», alla quale egli sembra oggi avviato. La strada della santificazione laicale passa quindi primariamente attraverso il rispetto della legge delle cose, che è posta da Dio dentro la creazione, e che permette di salvare il mondo portandolo al Regno, anche senza passare necessariamente attraverso la Chiesa-istituzione. «Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio», si legge nel documento del Concilio, Lumen gentium, n. 31.
Ogni uomo – anche il non credente – può realizzare la volontà di Dio sulle cose (in questo consiste, appunto, il Regno di Dio) attraverso la comprensione e il rispetto delle leggi di bontà insite nella creazione, che sono già di per se stesse orientate a Cristo, Verbo per mezzo del quale il mondo è stato creato. Per Lazzati la santificazione del mondo da parte dell’uomo risponde a un mandato che Dio stesso conferisce all’essere umano prescrivendogli, fin dalle origini, il dominio e la custodia del mondo (Genesi, 1,28).
Il laico cattolico impegnato in politica
Il compito dei laici si manifesta al massimo grado nell’attività della costruzione della città dell’uomo (la «politica»), secondo quanto sostiene l’Esortazione apostolica di Paolo VI, Evangelii nuntiandi, la quale, al n. 70, afferma che «compito primario ed immediato [dei laici] non è l’istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale – che è il ruolo specifico dei Pastori –, ma è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nella realtà del mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo vasto e complicato della politica».
Lazzati non fu solo attuatore di queste affermazioni, ma antesignano e ispiratore (fin da quando, giovane studente e giovane professore, l’aveva individuata nei testi cristiani antichi, in particolare nella cosiddetta Epistola a Diogneto) di una teologia della presenza corretta dei cristiani nel mondo, cioè di quella duplice cittadinanza che li rende fedeli al mondo e al Regno, con metodi diversi: attingendo dalle regole del Regno gli orientamenti della loro testimonianza esistenziale piena, e proponendole al mondo nella misura in cui il mondo (la città) le possa accogliere come capaci di promuovere la propria moralità, come fattori di progresso spirituale dell’uomo, con la pazienza necessaria per fare i conti con la «dura cervice» dell’uomo peccatore.
Lazzati è stato per tutta la vita, con fedeltà piena e piena dignità, servo fedele e obbediente della Chiesa, che è depositaria dei valori originari e finali di riferimento dell’uomo, madre e maestra dei valori del Regno e dispensatrice privilegiata della grazia. Ma ha rivendicato al laico la responsabilità di tradurre quei valori nella città dell’uomo (sia essa l’università, la stampa, la politica in genere) nei modi più utili alla crescita della città di tutti. Quest’opera, che Lazzati chiama di «mediazione» (da non confondere con la tecnica banale del «compromesso»), non significa perdita dell’ispirazione cristiana.
Per tutti i giovani che l’hanno avuto come maestro, in particolare negli indimenticati incontri mensili all’eremo di san Salvatore sopra Erba (Como), Lazzati resterà maestro di comportamento laicale, soprattutto perché maestro della «grazia». Infatti, se è vero che l’uomo (il laico in particolare), ha la sua autonoma responsabilità nell’esercizio della propria attività nel mondo, questa attività è solo distinta, ma non «separata», dalla dipendenza dalla fede, perché la fede fornisce occhi più acuti per vedere le cose del mondo, e perché solo l’aiuto gratuito di Dio (la «grazia», appunto), permette all’uomo di salvare dalla corruzione i valori stessi che egli scopre nella sua autonomia laicale. Sicché il Lazzati maestro di laicità è lo stesso Lazzati maestro della «grazia» e innamorato della «preghiera». E proprio alla preghiera dedicherà l’ultimo suo scritto, pubblicato postumo.
I valori cristiani valori per tutti
Per questo si può parlare per lui di «unità dei distinti». Il fedele cristiano, il laico in particolare, deve farsi carico della maturazione comune dei fratelli in umanità, attraverso un’opera differenziata e sapiente di «pedagogia della fede», commisurata alla maturità del destinatario; ma questa distinzione si fonda sull’unità del piano divino che nel suo manifestarsi tiene conto della legge pedagogica della progressività.
Lazzati ha elaborato questi principi a varie riprese ed essi risultano particolarmente interessanti nella riflessione alla quale egli fu, per così dire, costretto nel momento in cui assunse alte responsabilità politiche. A questo proposito, famosa resta la sua distinzione tra «agire da cristiano» e agire «in quanto cristiano». Ogni credente deve sempre agire coerentemente «da cristiano», ma non sempre è possibile e opportuno agire nella città di tutti «in quanto cristiano», perché nel campo diversificato della costruzione della città, il credente (laico) deve saper trasformare i valori di fede in valori «umani», perché siano recepibili dalla città con forza di legge valida per tutti, credenti e non credenti.
La confusione tra i due atteggiamenti porterebbe gli «altri» a rifiutare i valori di una fede nella quale non si riconoscono, e a non rendere persuasivi all’uomo i valori del credente. Non basta, per Lazzati, essere buoni cristiani per essere buoni politici (cristiani), perché a questo fine è indispensabile saper «pensare politicamente» («con mente politica»), cioè presentando agli «altri» i valori di fede come valori utili all’uomo. In altre parole, la fede assicura il credente che i propri valori sono correttamente destinabili all’uomo, ma l’uomo non credente deve essere persuaso a partire dalla sua umanità.
Il ruolo del laico dentro la Chiesa
Se a Lazzati importò sottolineare il ruolo nel mondo del laico credente, perché questa era un’urgenza trascurata, egli non mancò, sia con la testimonianza sia con la riflessione, di rimarcare il ruolo del laico dentro la Chiesa. Perché anche al laico corre l’obbligo, per quanto non primario o immediato, di costruire la Chiesa. Anche a questo proposito Lazzati distinguerà, senza separare, le funzioni. Per lui, infatti, il laico dentro la Chiesa non trova il suo ruolo specifico nell’espletare funzioni clericali (alla stregua di un «vice prete» o di un «prete in pantaloni», come amava dire con espressione ora non più utilizzabile). Il suo ruolo sta, grazie alla sua esperienza mondana, nel far avvertire ai pastori la sensibilità del mondo e le sue attese rispetto all’annuncio cristiano, e nell’indicare le linee lungo le quali questo annuncio dovrà preferibilmente incanalarsi per raggiungere meglio l’anima dell’uomo del nostro tempo.
La natura laicale viene così messa dentro la Chiesa, in modo singolare e specifico, al servizio di una evangelizzazione mediante l’annuncio, nel momento in cui si fa evangelizzatrice nel mondo mediante la testimonianza e la sapiente mediazione delle conoscenze mondane.
Abbiamo ragione di ritenere che, sotto entrambi i punti di vista, la lezione di Lazzati sia tuttora attuale e purtroppo non ancora patrimonio condiviso del laicato credente italiano. Eppure, essa permetterebbe al cattolicesimo di casa nostra di tenersi lontano dai due vizi di fondo tra i quali da troppo tempo si dibatte: la fuga dal mondo in uno spiritualismo disincarnato e l’inginocchiarsi di fronte ai valori del mondo secondo un secolarismo altrettanto nefasto per l’uomo e per la Chiesa. Riducendo la fede, in entrambi i casi, a puro patrimonio privato e contestando così la stessa idea di persona, vale a dire l’uomo fatto per essere «in relazione».