La ricerca? Sì, di fondi

Nel mondo della ricerca scientifica in Italia, progetti e istituzioni eccellenti non riescono a trattenere i giovani più brillanti. Tanti vanno all’estero dove, magari, creano prodotti innovativi che dobbiamo poi comperare: un controsenso!
25 Settembre 2006 | di


Questo è un percorso nel mondo della ricerca scientifica, che si snoda tra luci e ombre. Incontreremo nomi e luoghi che tracciano la mappa di un’Italia eccellente, ai più sconosciuta. Ma sono posti nei quali non regnano soltanto l’entusiasmo, la voglia di fare, la sfida ai problemi che la scienza propone.
Quasi ovunque nei giovani ricercatori cogli un po’ di rabbia, un po’ di amarezza e il timore di non essere compresi da chi può decidere i loro destini professionali, e da quanti, estranei al loro mondo, li ritengono simpatici pazzerelli un po’ scapestrati, che dovrebbero ringraziare la sorte, o quasi, perché possono lavorare nel campo che prediligono. Invece si tratta di un valore in più, che meriterebbe di essere meglio ricompensato, aprendo la strada all’autonomia e all’indipendenza, ottimi punti di partenza per ogni nuova scoperta nel mondo della scienza.


Da Tubinga a Trieste per fare il precario
Gabriele Grassi è un medico quarantaduenne, ha lavorato per un anno e mezzo al Bethesda Institute, nel Maryland, e poi è stato assistente all’Università di Tubinga, in Germania. Si occupa di biologia molecolare e coordina due progetti di terapia genica che mirano a prevenire le malattie coronariche e lo sviluppo del tumore epatico. Dopo aver trascorso diversi anni all’estero, è tornato in Italia grazie al provvedimento varato nel 2001 per favorire il «rientro dei cervelli». «Volevo che mia figlia crescesse in Italia. Ho inviato la mia domanda al Ministero ed è stata accettata – spiega Grassi –. Mi è stato offerto un contratto a tempo determinato di tre anni come studioso per attività di ricerca e didattica, ma francamente pensavo che la posizione di chi era stato autorizzato a rientrare sarebbe stata stabile».
Così Grassi ha affrontato la sua nuova avventura a Trieste, allestendo un laboratorio di biologia molecolare, e andando a caccia di finanziamenti privati. «Ho superato le difficoltà con entusiasmo e sono nella situazione ideale per continuare i progetti avviati», sottolinea.
Tre ragazze fanno parte del suo staff: Barbara Dapas, 38 anni, lavora con un assegno di ricerca; Rossella Farra, sta completando il dottorato, e Alessia Stocca, laureatasi lo scorso anno. «Sono collaboratrici preparate, precise, scrupolose e lavoratrici instancabili», sottolinea il professor Grassi.
Il suo contratto scadrà nel febbraio del 2007, e non si sa se sarà rinnovato. «Mi troverei a dover cambiare lavoro, dopo tanti anni di formazione e di impegno. Andrebbero in fumo progetti per circa 200 mila euro», conclude.
Intanto Alessia, la più giovane delle dottoresse che lo affiancano, che per anni ha fatto la cameriera per pagarsi gli studi, quando le hanno offerto un contratto vantaggioso in Irlanda, è partita. Ora anche il lavoro del dottor Grassi rischia di essere polverizzato. Allora, perché dare a chi è andato all’estero la possibilità di rientrare senza garantirgli un futuro? E quello di Grassi non è un caso isolato: grazie alla stessa legge sono tornati più di quattrocento studiosi.


I superconduttori: da Roma a Berkeley
I ragazzi se ne vanno solo per fare una doverosa esperienza di ricerca all’estero? Magari fosse così. Alessandra Lanzara, 34 anni, laureata in Fisica, ha conseguito il dottorato presso La Sapienza. «A Roma il nostro laboratorio si trovava in un sotterraneo, ma ricordo ancora oggi con grande piacere quel periodo perché i miei professori, pur avendo pochi mezzi, mi hanno insegnato a lavorare con fantasia e passione, e mi hanno fatto capire che gli unici limiti che esistono sono quelli creati da noi», racconta Alessandra che oggi è professore associato negli Stati Uniti.
Durante il dottorato, lavorando con il professor Bianconi, Alessandra viaggia e capisce che le attrezzature che in Italia sono considerate un lusso altrove sono normali strumenti di lavoro. Quando parte per fare attività di ricerca all’università di Stanford, pensa di rimanerci per due anni, ma pubblica i risultati dei suoi studi su riviste molto prestigiose e così l’università di Berkeley, nella Silicon Valley, le offre un incarico a tempo indeterminato. Le affidano, inoltre, la direzione di un team di dieci giovani colleghi che arrivano da Cina, Corea, Germania, Svizzera e Brasile, mettendole a disposizione fondi per un milione di dollari per i suoi progetti.
Di che cosa si occupa la giovane scienziata? «Il mio gruppo studia materiali fotovoltaici, cioè materiali che convertono l’energia solare in energia elettrica, e materiali superconduttori, cioè che conducono corrente elettrica senza alcuna perdita. A chi non piacerebbe non dovere pagare più la bolletta della luce!», scherza Alessandra.
Oltre ad aver regalato agli Stati Uniti una giovane con una formazione di altissimo livello, compreremo dall’estero i nuovi materiali, più efficienti sotto il profilo energetico, frutto dello studio della nostra ricercatrice. Pensando alla tradizione di Enrico Fermi, non resta che rattristarci.


Le neuroscienze da Torino all’estero
Nel 1996, al Politecnico di Torino, è nato il LISiN, il Laboratorio di ingegneria del sistema neuromuscolare che studia, osservando i segnali elettrici dei muscoli quando si contraggono, il meccanismo di generazione e di controllo dei movimenti da parte del cervello e del midollo spinale. Il professor Roberto Merletti, che ha insegnato a lungo a Boston, ne è il direttore.
«Il mio staff è composto da giovani di età compresa tra i 23 e i 40 anni: sono ingegneri o fisici o esperti di scienze motorie che lavorano con borse di studio, contratti a tempo determinato o a progetto. In dieci anni nessuno di loro ha ottenuto un inquadramento stabile», sottolinea.
I finanziamenti arrivano dalla Comunità europea e dall’Agenzia spaziale europea e vanno dai 500 mila al milione di euro l’anno. Però i ragazzi migliori, senza prospettive di stabilità per il futuro, se ne vanno all’estero o cambiano lavoro. «Ora stiamo cercando tre ingegneri elettronici o informatici bravi e motivati. Siamo in grado di offrire loro la possibilità di pubblicare sulle migliori riviste e di acquisire prestigio internazionale».
Il professor Merletti è disposto a ricominciare, a formare ogni anno un paio di persone nuove, nonostante questo implichi un considerevole dispendio di tempo e risorse. «La formazione di un buon laureato in Ingegneria costa ai contribuenti italiani circa 500 mila euro, un dottore di ricerca qualcosa in più. Le stime dicono che perdiamo circa 10 mila laureati l’anno, il che sarebbe accettabile se ne importassimo altrettanti. Ma non viene quasi nessuno», si rammarica Merletti, che è rientrato in Italia convinto che lo scienziato renda un servizio prezioso al proprio Paese.


Virgo, Lisa e Helios: da Perugia allo spazio
Il dottor Helios Vocca ha 36 anni, si è laureato in Fisica a Perugia nel 1997, ha lavorato gratis per due anni e nel 2002 ha concluso il dottorato. Il suo contratto di ricercatore scadrà a dicembre. Attualmente è impegnato in «Virgo», un’iniziativa italo-francese, e in «Lisa», un progetto cui partecipano 25 nazioni sotto l’egida della Nasa e dell’Esa, gli enti spaziali americano ed europeo. Con il suo curriculum (più di 30 pubblicazioni, ore e ore trascorse ad aggiornarsi, a scrivere e a fare esperimenti), ha mai pensato di andare all’estero? «Sono in piena riflessione – scherza –. Ogni mese arriva qualche proposta dalle università statunitensi. Perché dovrei andarmene? Oltre ai motivi familiari, non trovo giusto impoverire il Paese che mi ha formato».
Nel corso dei suoi studi il dottor Vocca si è imbattuto anche in un’intuizione preziosa: analizzando i vari «rumori» che disturbano i rivelatori di onde gravitazionali, ha pensato di intercettarli per produrre energia elettrica. Così è nato un prototipo, proprietà di uno spin-off universitario (vedi glossario), il cui brevetto è stato depositato negli Usa e tra breve, se nessuno si farà avanti seriamente, verrà sfruttato, come spesso accade, all’estero.
«Il mio grosso cruccio, in più di vent’anni di attività, è sempre stato di non poter attrarre i migliori ricercatori stranieri proponendo loro dei contratti competitivi con quelli dei loro Paesi. Il mondo della ricerca è affascinante perché permette di mescolare competenze, doti e professionalità che arrivano da ogni parte del mondo», chiarisce Roberto Battiston, ordinario di Fisica generale a Perugia e direttore della sezione locale dell’Istituto nazionale di fisica nucleare presso il quale lavora Helios Vocca. «Un altro punto dolente è la struttura dei concorsi: in Italia si utilizza un meccanismo asettico che, con formalismi bizantini, dovrebbe garantire l’assoluta oggettività, mentre è facilmente pilotabile. All’estero ci sono lettere di presentazione e colloqui con i candidati: si sceglie chi si stima abbia più capacità di contribuire in modo originale alla ricerca».


La «Sissa» di Trieste: oasi internazionale
Allora, davvero le università ita-liane sono destinate a formare ragazzi brillanti per poi farseli sfuggire? Non esistono istituzioni nel nostro Paese che costituiscano un polo di attrazione internazionale? Sì, e guarda caso dobbiamo tornare a Trieste, da dove siamo partiti.
Arroccati sulla collina che domina il castello di Miramare, splendido maniero asburgico, gli edifici della «Sissa» (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) formano una sorta di cittadella della scienza. Nata ventotto anni fa, sostenuta da fondi europei, la Sissa opera nel campo della ricerca teorica in matematica e fisica. Ha dodici corsi di dottorato con 200 studenti e circa 150 docenti. Tra i dottorandi e nel corpo accademico gli stranieri superano il 30 per cento, con una media di pubblicazioni annue per ricercatore doppia rispetto a quella delle università italiane. «La ricerca fondamentale in Italia si fa bene ed è paragonabile a quella degli altri Paesi industrializzati. I fondi pubblici sono leggermente inferiori alla media europea, ma il punto dolente è l’apporto privato, quasi nullo», sintetizza Stefano Fantoni, direttore della Scuola.
La Sissa, in rapporto alle sue proporzioni, secondo la classifica stilata ogni anno dall’Institute of Higher Education di Shangai (conosciuta come «graduatoria di Shangai»), è al diciassettesimo posto al mondo, al quinto in Europa e al primo posto tra le università italiane. Come si fa a raggiungere tale livello di eccellenza? «Sono indispensabili criteri assolutamente meritocratici nella selezione degli studenti e del corpo docente, uniti a una spiccata mobilità tra le università e a un virtuosismo finanziario che porti a non spendere più della metà dei propri fondi per i salari. Chi viene a fare ricerca alla Sissa trova laboratori adeguati e un gruppo con cui lavorare», commenta Fantoni. E aggiunge, pensando al futuro: «Dobbiamo prestare attenzione alle linee di ricerca interculturali e multidisciplinari perché da queste “ibridazioni” nascono prospettive diverse per affrontare i problemi della scienza».
Ci si potrà avvicinare a questo esempio? I giovani talentuosi non mancano. Bisogna far sì che possano andare al-l’estero ad arricchire le proprie co-noscenze, ma offrendo loro tutte le oppor-tunità per poter rientrare in istituzioni tali da ri-chiamare anche i loro coetanei stranieri. Un costante flusso di giovani scien-ziati è un circolo virtuoso, un se-gno di vi-talità, indispensabile premessa per restare al passo con i Paesi che oggi attraggono i nostri migliori laureati.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017