Arrivederci Abbé Pierre, profeta della debolezza
Ci sono persone che nella loro vita hanno amato profondamente Dio e il prossimo, alle quali viene concesso di morire così come hanno vissuto. Anzi, la loro morte diventa quasi l’apice di tutta un’esistenza spesa nell’amore. Così lo scorso gennaio – nel cuore di un inverno tiepido, ma in pieno infuriare dell’uragano Kyrill – si spegneva, nel letto dell’ospedale militare della capitale francese, un «combattente» della giustizia umana e dell’amore cristiano.
L’Abbé Pierre combattente lo era stato fin dalla giovinezza, e in un modo tutto suo, disarmato ma capace di mobilitare un «esercito» di volontari: aveva vissuto la resistenza al nazismo innanzitutto come messa in salvo di numerosi ebrei perseguitati dalla Gestapo, poi era passato a lottare in parlamento dove si era rifiutato di sedere più a lungo una volta sconfitto nella sua battaglia in favore dell’obiezione di coscienza. Da quel momento, «l’insurrezione dell’amore» si sarebbe spostata nelle strade: appelli pubblici perentori – «Amici, aiuto! Servono subito, questa notte stessa, coperte, stufe, legna...» – si accompagneranno sempre alla delicatezza umana di chi sa parlare da cuore a cuore, trasformando un ex galeotto aspirante suicida nel primo «amico di Emmaus», facendo capire che l’amore si gioca qui e ora, che la solidarietà nasce e cresce grazie soprattutto ai più poveri che sanno condividere non il poco o nulla che hanno ma tutto quello che sono.
A vent’anni il primo incontro
Ebbi la grazia di conoscere questo combattente del Vangelo quando avevo poco più di vent’anni ed ero risolutamente convinto di dover combattere anch’io la battaglia della fede, a costo di essere intransigente con me stesso e con gli altri. A Rouen, in povere baracche ai bordi della Senna, accanto all’Abbé Pierre c’erano una quindicina di persone, poco rispettabili a giudizio dei benpensanti, ma che io ho rapidamente imparato a rispettare nella loro dignità fondamentale di uomini e ad apprezzare per la loro schietta umanità e la grande capacità di condivisione.
Lì, in quei due mesi, imparai cosa significa la parola del Signore «misericordia voglio e non sacrifici», lì capii cosa significa vivere «insieme» con persone che non si sono scelte, ma che ognuno sceglie di amare liberamente.
Di quell’uomo – sì, ognuno lo vedeva e lo percepiva innanzitutto come «uomo» a tutto tondo, poi come cristiano e successivamente come prete – impressionava la capacità di comunione e di solitudine: insieme agli altri nel faticare per le strade come nel rallegrarsi attorno a un semplice pasto fraterno; solo, invece, nel ritirarsi in disparte, seduto su un mucchio di stracci o di rottami, a pregare a lungo guardando oltre l’orizzonte, fissando il suo sguardo sulle realtà invisibili.
Insieme con l’Abbé Pierre, Dominique e me, ultimo arrivato, c’erano alcolizzati, ex legionari, ex carcerati: l’umanità misera ed emarginata che tentava di ricominciare. Andavamo a svuotare solai e cantine, chiamati dalla gente che voleva disfarsi di stracci e rottami, caricavamo tutto su camioncini e portavamo il materiale nel deposito accanto alle nostre povere baracche. Quando avanzava un po’ di tempo, costruivamo altre baracche per alloggiare i miseri che venivano a chiedere di essere ospitati.
In lui agiva la Carità
Ciò che dovevamo imparare a praticare era l’attenzione e la cura dell’altro, il cercare di volerci bene solo in quanto uomini con la stessa dignità: ricordo che uno di noi era fragile di nervi e gli altri erano solleciti a preparargli una bevanda di chicorée (a base di cicoria n.d.r.) perché potesse «prendere il caffè» assieme agli altri senza danni. Lì ho imparato una carità concreta, semplice, non romanzata: la carità autentica che consiste non nel fare qualcosa per l’altro, ma nel farlo accanto all’altro, con l’altro.
Se ci chiedessimo da dove traesse la sua forza di combattente, la sua audacia profetica, il suo parlare, a tempo e fuori tempo, ma sempre in difesa dei più deboli, saremmo ricondotti a quella Parola che sta dietro le parole di ogni profeta, a quel soffio interiore, a quel fuoco dello Spirito che, quando consuma un uomo dall’interno, non può essere messo a tacere.
Era la carità di Cristo che lo spingeva ad andare e a farsi «oltre»: oltre le convenzioni, gli opportunismi, le strategie; era il Vangelo che lo animava a scendere in profondità: nel proprio cuore ma anche in quella parte nascosta di ciascuno di noi dove è deposta l’immagine e la somiglianza con Dio; era lo Spirito che soffia dove vuole, lo Spirito di discernimento e di sapienza che gli dava la parresia della libertà e della gratuità, vale a dire la franchezza di chi sa che vale la pena spendere la vita fino alla morte per colui che ha deposto la sua vita per i suoi amici e per la salvezza dell’umanità.
C’è stato chi si è scandalizzato per una confessione di peccati dell’Abbé Pierre ormai novantenne. Eppure non disse nulla di scandaloso, riconobbe semplicemente di avere conosciuto dei momenti di fragilità e di debolezza di fronte alla dominante sessuale. Come diceva un padre del deserto, «chi riconosce il proprio peccato è più grande di chi fa miracoli e risuscita i morti!». E l’Abbé Pierre non ha fatto altro che chiedere questo, a ogni uomo, a ogni cristiano, a ogni comunità, alla Chiesa intera: riconoscere le proprie debolezze.
Così, se sapremo ascoltare questa voce che ci riporta al radicalismo evangelico, se sapremo ascoltare la Parola che innervava le sue parole, l’Abbé Pierre non ci mancherà: sarà sempre accanto a noi, nella nuvola di testimoni che rendono visibile e credibile il volto di Gesù in mezzo alle miserie e agli splendori di ogni giorno.
NOTES
La sua vita in breve
Henri-Pierre Grouès nasce nel 1912 a Lione, da una famiglia benestante.
Nel 1931, dopo aver donato ai poveri l’intera eredità paterna, entra nel convento dei cappuccini di Lione. Diventerà sacerdote sette anni dopo.
Negli anni ’40 si arruola tra i partigiani e si prodiga per salvare decine di ebrei. Arrestato, scampa in modo quasi miracoloso alla Gestapo.
Nel 1949 ha luogo l’incontro che gli cambierà la vita: quello con l’ex ergastolano Georges insieme al quale fonderà il primo nucleo della comunità di Emmaus.
In tale contesto nasce, nel 1954, l’idea dell’«insurrezione della bontà»: l’Abbé Pierre lancia, nel gelido febbraio di quell’anno, un appello alla radio francese: invita i cittadini a «portare 5 mila coperte, 300 tendoni, 200 stufe» per i senzatetto parigini provati dal freddo.
Nel 1981 l’Abbé è insignito della Legion d’onore, il più importante riconoscimento francese.
Il 22 gennaio scorso si spegne in un letto dell’ospedale militare di Parigi. Ha 94 anni.
L’INTERVISTA
A tu per tu con il suo successore
A continuare l’opera dell’Abbé Pierre è il movimento «Emmaus», insieme di comunità e gruppi fondati dal religioso francese impegnati nello sradicamento della miseria e per la piena realizzazione della dignità della persona. Diffuso in tutto il mondo, «Emmaus Internationalis» dal 1999 è guidato da Renzo Fior (nella foto, con l’Abbé Pierre), 61 anni, di Villafranca di Verona, che concluderà il suo servizio il prossimo ottobre, in occasione dell’assemblea mondiale di Sarajevo.
Msa. Quale eredità l’Abbé Pierre lascia a Emmaus?
Fior. Come movimento sentiamo di essere chiamati a perseguire con forza e tenacia quelle che sono state le lotte dell’Abbé. Dobbiamo lavorare perché ciascuno possa avere il suo posto nella vita, e perché gli vengano riconosciuti i diritti fondamentali: l’accesso a una casa, all’acqua, al cibo, all’istruzione, a un lavoro dignitoso. L’Abbé Pierre ci mancherà: per noi era un alito vitale, una carica di energia. Anche se negli ultimi tempi aveva rallentato la sua presenza all’interno del movimento, per questioni di malattia e di età, non ci faceva mai mancare il suo prezioso apporto.
Com’era il «suo» Abbé Pierre?
Era una persona che prendeva su di sé tutti i drammi e le difficoltà della civiltà che ha attraversato. Senza tirarsi indietro di fronte alle contraddizioni: cercava di dare sempre una risposta, anche a costo di correre rischi, e di sbagliare, talvolta. Certo, sarebbe stato più facile «restare alla finestra», ma lui preferiva gettarsi nella mischia. Con l’obiettivo unico, e questo nessuno lo può negare, di assicurare o difendere i diritti fondamentali delle persone, di ogni persona che aveva modo di incontrare. Per lui non esistevano volti anonimi. Era disposto ad assumere su di sé fino in fondo la situazione di ciascuno. Credo sia questa la caratteristica fondamentale che ha accompagnato l’Abbé Pierre: la sua capacità di sporcarsi le mani a fianco della gente, con una forza di amare e condividere di cui oggi avremmo tanto bisogno.
Quando, nell’inverno del 1954, l’Abbé Pierre lanciò il suo grido d’aiuto radiofonico che scatenò «l’insurrezione della bontà», i senza tetto in Francia erano 2 mila, oggi sono 100 mila…
È una continua lotta contro la povertà. Come «Emmaus», e con noi ci sono tante altre associazioni, sentiamo la responsabilità della miseria. La visione globalizzata e liberale della società, che vuol farci credere nell’aumento della ricchezza per tutti, ci nasconde in realtà le sempre crescenti frange di persone che rimangono ai margini. Ma noi non vogliamo dimenticarle.
L’Abbé Pierre quale espressione di cordoglio avrebbe desiderato per la sua morte?
Credo la pratica di quello che ci ha insegnato, in termini di accoglienza e di carità. Già per il funerale, nella basilica di Notre-Dame a Parigi, abbiamo cercato di essere fedeli alle istruzioni che lui stesso ci aveva dato, facendo accomodare sui primi banchi, davanti alle autorità, i compagnons, i poveri delle comunità.
Alberto Friso