Un passo avanti, anche oggi
C’ero anch’io la mattina del 10 ottobre 1982 in piazza San Pietro, per la canonizzazione di padre Kolbe. Ancora ragazzo avevo avuto la fortuna, il 17 ottobre 1971, di essere presente alla cerimonia di beatificazione e ora, dopo soli undici anni, facevo da spettatore alla stessa testimonianza d’amore che continuava la sua corsa, da un Papa all’altro, quasi con urgenza. A suo tempo Paolo VI aveva concesso che si procedesse alla discussione dell’eroicità delle virtù del frate minore conventuale Massimiliano Kolbe senza che fossero trascorsi i cinquant’anni canonici dalla conclusione del processo apostolico, che nel suo caso ebbe luogo negli anni 1961-1963. Nella stessa linea Giovanni Paolo II aveva dispensato dal canone che prevedeva, prima della canonizzazione, la verifica di nuovi miracoli attribuiti al beato. Insomma per padre Kolbe si era attivata una procedura straordinaria, si era come aperta una corsia preferenziale per affrettare la proclamazione della sua testimonianza di fronte a tutta la Chiesa e al mondo intero.
La particolarità del martirio di padre Kolbe è data dal contesto dove esso si consuma: un campo di concentramento, uno dei luoghi più tetri che la mente umana abbia mai escogitato. Proprio lì, dove l’odio ha costruito il suo impero, sboccia un gesto eroico d’amore.
Dal campo qualcuno è riuscito a fuggire. Le ricerche si protraggono, ma dell’evaso non c’è traccia. Scatta così la ritorsione dei soldati delle SS. Fritzsch, il comandante del Lager, con gelida fermezza indica dieci prigionieri del blocco 14 (al quale appartiene il fuggiasco) che saranno condannati a morte lenta, per fame, isolati in un bunker sotterraneo. Uno dei dieci è un sergente polacco con moglie e figli, che scoppia in un pianto irrefrenabile mormorando qualcosa sulla sua famiglia. Ed è in quel momento che padre Kolbe si fa avanti ed esce dalla fila, mentre sommessamente ma in perfetto tedesco dice: «La prego di permettermi di morire al posto di uno dei condannati». «Sei impazzito?». «No, la prego…». Fritzsch ammutolisce per un po’, dopo di che, passando dal «tu» al «lei» chiede: «Lei, chi è?». «Sono un prete cattolico», risponde padre Kolbe. «Al posto di chi vuole andare?». «Al posto di quello là», dice indicando il sergente Gajowniczek. «Perché?». «Io sono vecchio e solo, lui invece è giovane e ha famiglia». Lo scambio è accettato.
Nel discorso tenuto in occasione della sua visita ad Auschwitz il 28 maggio 2006, Benedetto XVI confessa: «Si sa che molte volte mi sono trovato qui… Quante volte! E molte volte sono sceso nella cella della morte di Massimiliano Kolbe». Il 7 giugno 1979, quando il suo predecessore si reca per la prima volta da Papa in quel luogo, Ratzinger – come vescovo di Monaco-Frisinga, insieme a molti altri vescovi – lo accompagna. È in quell’occasione che il Papa polacco definisce il suo connazionale «patrono del nostro difficile secolo». Sì, di quel secolo che da pochi anni ci siamo lasciati alle spalle, ma la cui ombra grigia si allunga sul difficile avvio del nuovo secolo. Più che mai i cristiani si trovano a vivere in un tornante della storia, complesso e ambiguo, che quando non li rifiuta direttamente li mette ai margini, li penalizza. In troppe nazioni si scrivono, come nei primi secoli, pagine drammatiche di luminoso martirio, molte volte senza che a questa folla di martiri anonimi sia concessa la gloria della memoria. In altre nazioni i cristiani vivono una situazione non facile di recessione numerica, di ripiegamento su di sé, di sfiducia in rapporto al futuro, e sempre più raramente si richiede loro che testimonino pubblicamente la propria fede. È un tempo buono, però, per fare un passo avanti, per dichiarare attraverso la totale solidarietà con il fratello – come padre Kolbe – la fede nel Dio al quale apparteniamo, con fermezza e senza spavalderia.