Viva l’italiano (se lo scrivi bene)
Settembre. Mantova, una delle città più piacevoli d’Italia, viene invasa da scrittori, giornalisti, lettori in occasione dell’undicesimo Festivaletteratura.
La città, per nulla infastidita, continua la sua vita di sempre tra le chiacchiere, le degustazioni, gli acquisti. Intanto, gli autori riempiono le piazze e le sale dei palazzi con le loro storie, e i libri vivono qui un vero «momento di gloria».
Tra gli invitati quest’anno c’è anche Beppe Severgnini, un veterano del Festival, che tra l’altro, essendo nativo della non lontana Crema (Cremona), ha con questi posti una certa affinità. Gentile, raffinato, dotato di una naturale simpatia, è venuto a presentare il suo ultimo libro, L’italiano. Lezioni semiserie, edito da Rizzoli.
Msa. Perché ha scritto questo libro?
Severgnini. Scrivo per mestiere dal remoto 1979 – avevo ventidue anni, i capelli neri e l’avverbio facile – e penso di conoscere alcuni trucchi. Trucchi onesti, che si possono insegnare. Quindici anni fa ho scritto L’inglese. Lezioni semiserie (aggiornato fino al 2002, venti edizioni Bur). Adesso voglio provarci con l’italiano. Sono convinto che si possa imparare a scrivere bene, senza troppa fatica e divertendosi.
Qual è il primo suggerimento per i lettori?
Il primo è aver qualcosa da dire. C’è un sacco di gente che scrive e parla e non ha niente da dire: noi giornalisti scriviamo articoli che non sentiamo, chiacchiere inutili. Avere qualcosa da dire è il vero problema di chi scrive oggi.
E il secondo consiglio?
Dirlo in modo interessante, efficace. Siamo sommersi di parole. Il mio libro non è un libro «morale», intende insegnare in modo divertente a scrivere un po’ meglio. Sono convinto che la scrittura non sia mai stata tanto in salute come adesso. La posta elettronica, che è diventata il mezzo normale di comunicazione tra le persone, ha riportato la scrittura ad avere l’importanza che non aveva più da cent’anni. Siccome si viene compresi, perdonati, giudicati, promossi, attraverso quello che si scrive, ho pensato a un libro su questo aspetto.
Anche il ministro Fioroni ha da poco ribadito l’importanza fondamentale dell’italiano…
Il ministro dell’Istruzione si è pronunciato in materia quarantott’ore dopo l’uscita del mio libro. Uno spot non «da ridere» per me! Quando si fa un libro bisogna cercare di anticipare, ma solo di poco, il «sentimento comune», la «tendenza», perché altrimenti non si viene compresi. Come giornalista, ho visto che ogni volta che affrontavo il tema della scrittura ricevevo moltissime e-mail. Ho così potuto sondare il terreno; fossi stato solo uno scrittore avrei invece dovuto «tuffarmi».
«Un tempo la borghesia italiana – si legge in Italiano. Lezioni semiserie – si dava un tono col francese: si cominciava col frigidaire e si finiva col savoir faire. Poi s’è data all’inglese, con le conseguenza che vedremo. Qualcuno, per fortuna, commenta ancora gli affari del mondo in dialetto, risultando ben più efficace. In cremasco, per esempio, quello che sta accadendo in Medio Oriente (e nella politica italiana) si dice rebelòt. Molti, infine, hanno creato un lessico familiare, utile in casa propria ma del tutto incomprensibile oltre le mura domestiche».
Che cosa vuol dire per lei famiglia?
Famiglia vuol dire una «realtà bella che cambia nel tempo» perché il rapporto con la moglie, quando ci si sposa e si hanno vent’anni è diverso da quando se ne hanno trenta. Ma non è lo sbiadire di un colore, è un’altra cosa. Il rapporto con una figlia di due anni non è uguale a quello con uno di 15: mio figlio Antonio, quindicenne, mi prende e mi sposta perché è più alto di me. Famiglia è per me la «gioia di un impegno riuscito». Forse sono un po’ in controtendenza, ma credo che la famiglia italiana, pur con un sacco di problemi, sia in condizioni migliori di tutte le famiglie europee. Questo lo dico avendo viaggiato moltissimo anche nel Nord Europa.
Prova ne è l’abitudine di cenare insieme la sera. Il pasto serale è come una riunione, un consiglio di amministrazione, un momento di psicologia collettiva, un consultorio: questo momento è cruciale per la vita della famiglia e nel Nord Europa e in America ci hanno rinunciato. I pasti li fanno da soli, con i toast. Devo aggiungere però che la famiglia è anche una grande fortuna. Chi ce l’ha deve essere felice, orgoglioso e pensare a chi è stato meno fortunato. Quando una coppia si divide, spesso e volentieri uno avrebbe voluto continuare il rapporto e l’altro no: si tratta di tragedie vere. È per questo che ho scritto sul «Corriere» che avevo perplessità sul Family Day: avevo capito le buone intenzioni ma avevo il sospetto che ci fosse un piccolissimo elemento di presunzione e di mancanza di carità in quella manifestazione.
Perché ha chiamato suo figlio Antonio?
Il nome Antonio è una storia meravigliosa, ma ci sono cose che non si dicono… neanche ai giornali migliori.
C’entra con sant’Antonio?
Molto. Posso dire che avevo una nonna che adoravo, si chiamava Palmira ed era devotissima a sant’Antonio. Da noi c’è questa tradizione: quando perdi qualcosa si invoca sant’Antonio. È una delle belle tradizioni popolari, non è scaramanzia, è un segno di fiducia. Mia nonna era proprio devota e mi aveva anticipato che mio figlio si sarebbe chiamato Antonio.
Come vede il futuro di questo Paese tanto ammirato e tanto pieno di problemi?
Sono un po’ preoccupato perché ho la sensazione che la famosa «casta» di cui parla il mio amico Gianantonio Stella riguardi tutti noi (perché chiunque ha un amico o un parente nella casta). Inoltre, credo stia assorbendo sempre più risorse. Non siamo un Paese ricco come la Francia o come la Germania, come l’America degli anni Novanta, come il Giappone degli anni Ottanta. Credo che l’Italia sia un Paese benestante, ma con infrastrutture costruite nel dopoguerra che stanno invecchiando rapidamente. Ho la sensazione che stiamo finendo i soldi. Credo che la bellezza della vita, la piacevolezza delle nostre città, la cortesia della gente, la generosità di fondo degli italiani (della quale non ho mai dubitato) siano importanti, ma ritengo anche che i soldi siano un pessimo fine e un ottimo mezzo.
Il secondo problema è la questione dell’immigrazione. L’Italia è un Paese esposto al Sud del mondo: siamo noi la porta d’ingresso, dobbiamo gestire bene l’immigrazione.
E secondo lei come viene gestita invece?
C’è un grande equivoco. La sinistra radicale e anche una certa parte del cattolicesimo più radicale non capiscono che bontà vuol dire anche regole, perché le vere vittime dell’anarchia sono gli anziani, le ragazze sole, gli immigrati seri e lavoratori.
La mia assistente personale, una ragazza formidabile, è una rwandese e non è venuta in Italia nel Novanta in vacanza. Penso che i milioni di immigrati onesti e bravi, che in Italia stanno veramente facendo tantissimo (badanti e tanti altri lavori perché si stanno evolvendo professionalmente), sono quotidianamente umiliati e imbarazzati da una minoranza di sfaccendati o canaglie. Secondo me sbaglia in materia la sinistra radicale ma sbagliano anche, enormemente, i razzisti che sono ingiudicabili. Se uno pensa che in questo Paese da duemila anni la gente entra ed esce, non si capisce perché adesso dovrebbe smettere. Gli italiani hanno abbastanza genio, generosità e gioia per creare una società in cui si possa convivere tutti discretamente.
Lei crede in Dio?
Secondo lei, se ci si guarda in giro in una mattina di settembre a Mantova si può avere qualche dubbio?
la scheda
L’italiano con la valigia
Beppe Severgnini è conosciutissimo in Italia e all’estero. Scrive per il «Corriere della Sera» dal 1995 e dal 1998 conduce Italians (www.corriere.it/severgnini), il più frequentato forum on-line del giornalismo italiano. È stato corrispondente dall’Italia per «The Economist» dal 1996 al 2003. Appassionato di calcio, collabora con la «Gazzetta dello Sport». Ha scritto per «Il Giornale» di Montanelli e per «La Voce». Nel 2004, a Bruxelles, è stato votato European Journalist of the Year. I suoi libri, pubblicati da Rizzoli, sono best-seller: Inglesi (1990), Italiani con valigia (1993), Un italiano in America, l’autobiografia Italiani si diventa (1998) e La testa degli italiani (2005), tradotto in sette lingue. È nato a Crema (Cremona) nel 1956, è sposato con Ortensia e ha un figlio, Antonio.
appunti
16 suggerimenti per scrivere bene
- Avere qualcosa da dire
- Dirlo
- Dirlo brevemente
- Non ridirlo. Se mai, rileggerlo
- Scriverlo esatto
- Scriverlo chiaro
- Scriverlo in modo interessante
- Scriverlo in italiano (è più trendy, baby)
- Non calpestate i congiuntivi
- Non gettate oggettive dal finestrino
- Spegnete gli aggettivi, possono causare interferenze
- Non date da mangiare alle maiuscole
- Slacciate le metafore di sicurezza
- In vista della citazione, rallentate
- Evitate i colpi di sonno verbale
- L’ultimo che esce, chiuda il periodo