Cristiani onesti e infelici?
Due uomini vanno al tempio a pregare. Uno è fariseo, l’altro pubblicano. Il fariseo prega come rivolto a se stesso: «O Dio ti ringrazio, perché non sono come gli altri uomini rapaci, ingiusti, impuri, e non sono come questo pubblicano».
Il fariseo comincia bene la sua preghiera: «Signore ti ringrazio». Sono le parole giuste, l’avvio è biblico: metà dei salmi sono di lode e ringraziamento. Ma pregare non è dire preghiere. Pregare è come voler bene.
Il fariseo si rivolge a Dio con le parole, ma il suo interesse è tutto rivolto a se stesso; Dio è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria soddisfazione. Il fariseo è affascinato da una parola, due lettere magiche, stregate, che non si stanca di ripetere: io, io, io. Tutti i verbi sono in prima persona: «Io ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago». Ha dimenticato la parola più importante del mondo: Tu. Pregare è estasi, uscire da sé. L’esistenza non è statica, ma estatica, incamminata verso qualcosa che è al di là di noi stessi: un amore, un sogno, un Dio. Vivere e pregare percorrono la stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero.
Nel Padre Nostro mai si dice «io», mai l’aggettivo «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». E la mia preghiera? Prego come Gesù o come il fariseo, quando continua a ripetere: «Io e i miei problemi, io e i miei progetti; Dio dammi, fammi, concedimi»? Potessimo arrivare, qualche volta almeno, a pregare senza mai dire «io», ma solo «tu» e «tuo»: parla tu, Signore, che il tuo servo ti ascolta.
Il secondo errore del fariseo è di non confrontarsi con Dio, ma di misurarsi con gli altri: «Io non sono come gli altri». Egli vede il mondo come un universo di predatori, dediti alla rapina, al sesso, all’imbroglio. Subentra in lui come una slogatura dell’anima: non si può pregare e disprezzare; non si può cantare il gregoriano in chiesa e fuori essere spietati. Non si può lodare Dio e demonizzare i suoi figli. Questa è la paralisi dell’anima. Come tutti i fondamentalisti di ogni religione, il fariseo è un infelice. Ha una lettura drogata della realtà: l’immoralità dilaga, la disonestà trionfi. Sta male al mondo, perché non ha più fede. Infatti acquisire fede è acquisire bellezza del vivere. Acquisire una vita buona, bella e felice, come era quella di Gesù. Onesto certamente il fariseo, e altrettanto infelice.
Quanti cristiani sono come lui, onesti e infelici! Così era il fratello maggiore nella parabola del Figlio prodigo: «Io ho sempre fatto tutto ciò che volevi, e a me neanche un capretto!» È il figlio bravo, che ha sempre ubbidito, ma che avrebbe tanto voluto fare tutt’altra vita. Per lui la vita bella era l’altra, quella del fratello: feste, soldi, donne… Il suo cuore era malato, era altrove. I cristiani del capretto! Sempre a chiedere, con il loro amore mercenario, con il loro cuore assente. Ma Dio non si merita, si accoglie. La parabola ci insegna che accadono cose inattese quando si prega: pregare è pericoloso. Si corre il rischio di ingannarsi su Dio, di disprezzare l’uomo, di isolarsi in un mondo immaginario e infelice. Si può commettere peccato pregando. È una parabola di battaglia, dove Gesù ha l’audacia di denunciare che la preghiera può separarci da Dio, può renderci «atei», cioè metterci in relazione con un Dio che non esiste, se non nella nostra illusione, un Dio che è solo una proiezione di noi stessi. Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia sull’uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo. Sulla porta delle chiese bisognerebbe mettere una targa: «Attenzione, pericolo!». Come fare allora per evitare il pericolo, per non sbagliarci su Dio e su noi stessi? Ci aiuterà a capirlo il pubblicano, nel secondo tempo della parabola, che affronteremo sul prossimo numero della rivista.