Il cardinale e i baci del Perù
Nell’accogliente e ovattata sala Pio X del Palazzo Apostolico, in Vaticano, i rumori della Roma frenetica e chiassosa sono distanti. Nella breve attesa, dopo essere stato scortato fin lì da un gentile e discreto sergente della guardia svizzera, noto due cose che sembrano quasi fuori posto in un luogo così carico di storia: un bel pallone bianco con vistosa banda rossa e con la scritta «Lega calcio», e un modellino in scala 1: 8 di una Ferrari con didascalia «1947-2007 Australian GP – Melbourne». Due prodotti italiani di successo in patria e di larga esportazione, un po’ come la diplomazia della Santa Sede, che si tesse bene in casa ma con altrettanta cura con la gran parte delle nazioni del mondo, ultimamente anche con gli Emirati Arabi Uniti. Tessitore il cardinal Tarcisio Bertone, piemontese doc, classe 1934 e da quasi un anno e mezzo a fianco di papa Benedetto XVI. Prima irrompe con la sua voce, poi saluta con un sorriso da salesiano abituato a stare in mezzo alla gente e subito si informa sul «Messaggero» e sui frati di Padova. Ci sediamo e parte l’intervista.
Msa. Eminenza, lei ricopre nella Chiesa un ruolo di grande importanza. Se dovesse spiegarlo a gente semplice, cosa direbbe?
Bertone. Sapete che il titolo preciso del mio incarico è Segretario di Stato, non tanto Vaticano ma Segretario di Stato di sua Santità Benedetto XVI; che significa l’incaricato del governo interno della Chiesa a nome e per mandato del Santo Padre, quindi colui che segue tutta la vita della Chiesa. Paragonando con lo Stato, si potrebbe immaginare un primo ministro della Chiesa cattolica che ha come primi collaboratori il Sostituto della Segreteria di Stato, una specie di ministro dell’Interno, e il Segretario per i rapporti con gli Stati che è un po’ come il ministro degli Esteri. Noi siamo le tre persone che collaborano più da vicino con il Santo Padre, anche se naturalmente il Segretario di Stato è quello che più degli altri vede il Papa, parla con lui e con lui tratta i problemi della vita interna della Chiesa, dei rapporti della Santa Sede con la comunità internazionale e con tutte le nazioni del mondo. A dire il vero la formula Segretario di Stato è antica, e fa riferimento a quando il Papa era a capo dello Stato pontificio e quindi aveva, appunto, il suo Segretario di Stato. Non a caso monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea, mi ha detto: «Ricordati di essere più Segretario di Chiesa che Segretario di Stato».
Con quale ritmo avvengono i suoi incontri con il Pontefice, e, se può dirmelo, quando non parlate di lavoro, di che cosa parlate?
Incontro regolarmente il Papa il lunedì pomeriggio, perché il lunedì è il giorno in cui il Papa riceve il Segretario di Stato, ma lo incontro o lo accompagno tante volte in varie manifestazioni. Facciamo diverse riunioni con gruppi di esponenti della Chiesa universale, partecipo alle principali celebrazioni liturgiche, discuto con lui i problemi della Chiesa, come le nomine più importanti, e le questioni politiche internazionali. Per cui oltre all’incontro, diciamo, di tabella settimanale, sono numerose le occasioni in cui siamo fianco a fianco.
A pranzo o a cena parliamo più liberamente di esperienze vissute, e da parte mia ne approfitto per informarlo puntualmente di viaggi e di incontri, soprattutto per comunicargli il grande affetto che circonda la sua persona. Quando, per esempio, sono stato tra i terremotati del Perù, ho incontrato soprattutto in una tendopoli centinaia di bambini contenti di vedere il rappresentante del Papa; erano allegri nonostante la prova terribile che avevano subìto con le loro famiglie e tutti volevano darmi un bacio da portare al Papa. Quando sono tornato dal Papa ho detto: «Santo Padre, dovrà riservarmi un po’ di tempo perché devo darle tanti baci, centinaia e centinaia di baci perché tutti mi hanno detto da un beso al Papa». Poi parliamo anche di sport, parliamo anche della mia famiglia o di attualità.
Se dovesse definire con due parole, di numero, la complessa e ricca personalità di Benedetto XVI, che parole sceglierebbe?
È un grande pensatore ricco di sapienza nel senso biblico e non solo di scienza. È un uomo dolcissimo, che comunica vicinanza, spiritualità e amicizia; uno che sa essere amico e coltiva saldamente l’amicizia. Quando incontra qualcuno gli dà l’impressione di averlo già incontrato e ognuno si sente a suo agio.
Spostiamo l’attenzione sui documenti del Papa, apprezzatissimi per chiarezza e incisività. Dopo Deus Caritas est c’è stata l’enciclica Spe salvi, una gioiosa sorpresa per molti cristiani e non. Tutti si aspettavano un’enciclica sulla dottrina sociale della Chiesa, mentre è arrivato questo documento breve ma vibrante. Cosa più l’ha colpita?
In verità il Papa è un uomo che pensa, prega, continua a leggere, e ha con sé il bagaglio immenso, direi inesauribile, della sua scienza teologica e della sua esperienza di incontri con personalità di tutto il mondo, oltre alle attività pastorali: ricordiamo che dopo essere stato professore in diverse università tedesche è stato anche per alcuni anni arcivescovo di Monaco di Baviera. Con questo patrimonio Benedetto XVI ha intuizioni, una grande sensibilità sulle attese del mondo moderno e capacità di dialogo con la modernità, come si è visto anche nella nuova enciclica. Egli ha intuito che la Chiesa, in un tempo nel quale è immersa nelle prove, ha soprattutto bisogno di speranza, e proprio per tale motivo ha scritto di getto questa enciclica che era già pronta nel suo perfetto tedesco prima delle vacanze dello scorso anno. Si è trattato di un grande dono per la Chiesa e per il mondo, di un segnale che dice la grande sintonia del Papa con il mondo nei suoi tormenti, nelle sue attese, nelle sue traversie e nelle sue aspirazioni migliori. È tempo di dare risposta a queste attese.
Passiamo a Giovanni Paolo II, che lei ha conosciuto molto bene. Ci può raccontare alcuni ricordi?
Con Giovanni Paolo II ho lavorato molto, a Roma, come consultore dei vari dicasteri romani. Poi, nominato Segretario della Congregazione per la dottrina della fede per volontà del cardinale Ratzinger, ho avuto spesso occasione di frequentare anche la tavola delle riunioni e della mensa di Giovanni Paolo II, perché una delle sue caratteristiche era di essere infaticabile: aveva sempre a mensa ospiti, specialmente a pranzo, con i quali continuava discussioni iniziate anche a metà mattinata.
Si parlava di temi o problemi della Chiesa, ma anche di questioni scientifiche e talvolta il Papa, tra una portata e l’altra, ne approfittava per prendere appunti. Alla sera, invece, preferiva incontrare amici e conoscenti, con i quali ripercorrere le tappe della vita e discutere un po’ di tutto, con grande libertà.
Una volta gli dissi: «Ma come fa ad andare avanti così, sempre a contatto con la gente? Non potrebbe stare un po’ più tranquillo, almeno a pranzo o a cena?». La risposta fu: «Sono abituato in questo modo dai tempi di Cracovia», cioè da quando era arcivescovo di quella città.
Oltre a essere infaticabile, Giovanni Paolo II era anche un uomo deciso e determinato. Ricordo di avere molto ammirato i famosi discorsi pronunciati a Nowa Huta, quando era arcivescovo di Cracovia, ma poi anche gli interventi in difesa della vita e dei diritti umani. Ricordo ancora la chiara presa di posizione a favore della dichiarazione Dominus Iesus, nel famoso Angelus del primo ottobre del 2000: Gesù è il Signore, l’unico e universale salvatore. Mentre qualcuno gli consigliava almeno un rinvio di quell’intervento, il Papa non tornò indietro.
Di Giovanni Paolo II ricordo anche molto volentieri il grande senso dell’amicizia. Quando ero arcivescovo di Genova, ogni volta che tornavo a Roma diceva: «Come mai è andato così lontano? Lavoravamo così bene insieme, andavamo d’accordo…». E io rispondevo: «Ma Santo Padre, è lei che mi ha mandato a Genova, mica ci sono andato io spontaneamente…». Giovanni Paolo II aveva questo grande senso di amicizia, e devo dire che è bello lavorare con grandi personalità che danno fiducia e coltivano l’amicizia.
Oggi esce in libreria un nuovo libro del Papa, in cui si pubblicano degli interventi che ha elaborato nel corso della sua carriera teologica. Tra questi un saggio scritto poco dopo il ’68 e che risente dell’atmosfera di quegli anni: «Perché sono ancora nella Chiesa». Lei eminenza, dov’era nel ’68?
Nel ’68 io ero all’Università Pontificia Salesiana, come professore di teologia morale. Ho vissuto quel periodo – un periodo poi abbastanza tumultuoso anche a Roma – nelle varie Università romane. Potrei ricordare degli episodi, anche se non sempre belli, discussioni a non finire e dibattiti… ma prima del ’68 ho avuto la fortuna di vivere come studente il periodo bellissimo del Concilio Vaticano II, e quindi l’incontro con i padri conciliari. Ricordo alcuni padri polacchi come il cardinal Wyszynski, il giovane monsignor Wojtyla e l’arcivescovo Baraniak di Poznan, salesiano; l’incontro con questi padri, con questi eroi dell’Europa orientale che venivano dai regimi comunisti come coraggiosi testimoni della fede, è stato per me di grande importanza. La ricchezza di doni che tutti abbiamo ricevuto durante il Concilio è veramente incalcolabile.
Dopo gli entusiasmi è venuta anche la prova, lo smarrimento, soprattutto nei primi anni successivi al Concilio, anche a motivo della stessa interpretazione dei documenti conciliari. Si sono purtroppo intraprese strade non coerenti con la tradizione, e questo non ha fatto bene alla Chiesa. Per dare un’idea della situazione altalenante di quegli anni, ricordo un fatto: mentre nei primi anni dopo il Concilio si era venuti a trattare la religiosità popolare con molto distacco e diffidenza, quasi con disprezzo, parlando apertamente di «declino e superamento della religiosità popolare», già a partire dal ’72 si cambiò rotta sottolineando la «persistenza della religiosità popolare».
Lei è stato certamente a Padova, nella Basilica di sant’Antonio. Nella sua famiglia, nella sua vita personale, c’è qualche legame con questo santo?
Intanto noi come famiglia eravamo molto devoti di sant’Antonio di Padova. Non da Padova, perché è da Lisbona, no? Ma specialmente lo ricordavamo a Natale, perché aveva preso in braccio Gesù bambino, e poi quando smarrivamo qualche cosa; veniva spontaneo pregare sant’Antonio, il santo che fa ritrovare le cose smarrite.
Ma poi io sono stato anche arcivescovo di Vercelli, e sant’Antonio – secondo l’antica tradizione delle Cronache della biblioteca capitolare di Vercelli – ha passato alcuni mesi in quella città dall’abate Gallo, per confrontarsi, e lì ha compiuto numerosi miracoli. Quando le reliquie di sant’Antonio hanno fatto un «pellegrinaggio» tra le diocesi italiane, naturalmente c’è stata una sosta anche a Vercelli, e i vercellesi hanno manifestato la loro grande devozione al santo di Padova. Io personalmente ho organizzato un incontro con tutti gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado, presentando sant’Antonio come «studente» a Vercelli, anche se in quegli anni era già sacerdote. L’importante è che abbia voluto ulteriormente confrontare la qualità della sua scienza teologica e della sua spiritualità. Gli studenti rimasero molto toccati da questo esempio di sant’Antonio.
E poi sono stato a Padova diverse volte, una volta ho celebrato solennemente nella Basilica e ho pure premiato, nel 1993, i vincitori del XIX Concorso nazionale della bontà.
Un’ultima domanda: Lei incontra persone importanti, spesso decisive per le sorti dell’umanità. Ne ricava motivi di speranza per il futuro?
Sì. Devo dire che le personalità che incontro, non solo quelle di Chiesa ma anche personalità politiche, degli enti internazionali, i capi di stato, sono persone preparate e determinate, con dei progetti positivi, che meritano apprezzamento. Vengono a interrogare il Papa, la Santa Sede, a interrogare anche il Segretario di Stato, per una valutazione sui loro progetti. Alcuni chiedono esplicitamente la preghiera del Papa, la preghiera mia, la preghiera della Chiesa cattolica per sostenere le loro azioni per il bene comune.
Poi, oltre le buone intenzioni, a volte anche i progetti più belli si scontrano magari con le situazioni dei rispettivi Paesi, con forze parlamentari, ma io credo che abbiamo motivo di ben sperare, anche per la qualità delle persone che vengono in Vaticano e dal Papa.
Ultimamente abbiamo avuto l’incontro con tutto il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede: il Papa, come sempre, ha fatto una panoramica, un tableau dei punti caldi del mondo, offrendo le sue indicazioni, e gli ambasciatori direi unanimemente hanno raccolto queste istanze decisi a riproporle ai rispettivi governi.
La ringrazio di questa tonalità positiva con la quale ha chiuso l’intervista.
Auguri al «Messaggero di sant’Antonio», auguri a tutti i lettori. Anch’io mi raccomando all’intercessione di sant’Antonio.
La scheda
Il cardinale nasce a Romano Canavese (diocesi di Ivrea), il 2 dicembre 1934, quinto di otto figli. Attratto dalla vocazione salesiana, diventa sacerdote nel 1960. Nel 1967
è chiamato a Roma, per assumere la cattedra di Teologia morale speciale all’Ateneo Salesiano, poi Università Pontificia Salesiana della quale, tra l’89 e il ‘91, sarà anche rettore. In quegli anni a Roma svolge un’intensa azione pastorale, contribuendo efficacemente alla promozione dei laici. Negli anni ’80 è Consultore per la Santa Sede in diversi Dicasteri della Curia romana. Nel 1991 il Santo Padre lo chiama alla guida della Diocesi di Vercelli, la più antica del Piemonte. Il 28 gennaio 1993 è nominato dalla Cei Presidente della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace e, nel 1995, diventa Segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. Giovanni Paolo II il 10 dicembre 2002 lo nomina Arcivescovo Metropolita di Genova e il 21 ottobre 2003 Cardinale di Santa Romana Chiesa. Dal 15 settembre 2006, per volontà di Benedetto XVI, è Segretario di Stato Vaticano.