Manila: sant’Antonio in una discarica
«Ciao Ugo, abbiamo visitato i posti più duri. Sono gironi danteschi, purtroppo pieni di bambini. Non è facile descrivere quello che si vede qui. Però nel posto più brutto – cento volte brutto, ai piedi di una montagna immensa che è tutta una discarica – una sorpresa inaspettata ci ha riempito gli occhi e il cuore: pensa, una chiesetta dedicata a sant’Antonio, con relativa statua sorridente. Incredibile! A presto, Danilo». Quando il testo mi compare sul computer sono le 10.35 di giovedì 21 febbraio, e la mente va subito a padre Danilo e a padre Paolo che sono dall’altra parte del mondo, nella periferia di Manila (Filippine), per incontrare una di quelle realtà drammatiche che se non ci pianti dentro i piedi e non te li sporchi per bene non riesci a capire. L’immaginazione, infatti, non è in grado di amplificare la miseria e la privazione quasi assoluta, disumana, soprattutto quando i protagonisti sono frotte di bambini che praticamente sopravvivono aggrappati al niente: una discarica a perdita d’occhio, maleodorante e nutrita da lunghe file di vecchi camion, dentro la quale si muovono come fantasmi in cerca degli scarti di una società che è già povera.
Conosco padre Danilo e so che crede molto nei segni che il cielo manda e che piazza lì come appuntamenti di una trama più vasta. «Sant’Antonio ci ha preceduto – avrà pensato –. Lui è già sul posto, ora tocca a noi». Il giorno dopo, infatti, arrivano le prime fotografie; sì, perché padre Paolo se la cava bene con il computer ed è anche riuscito a rubare (proprio così, per il fatto che la discarica è controllata dalla polizia che ne limita l’accesso e non ha proprio piacere che qualcuno documenti quella tremenda realtà) alcune immagini. Di nuovo, rispetto alle parole e al dramma, c’è il sorriso dei bambini, innocente, ostinato e complice nonostante tutto. Cari lettori, avrete modo di vederne molti di questi bambini nel dossier Caritas Antoniana di questo mese: sono loro al centro della nostra attenzione e delle nostre premure. Sono loro, nelle periferie di Manila, l’anello più debole, bisognosi di essere restituiti a una normalità che da quelle parti significa un posto sicuro dove dormire, una ciotola con dentro qualcosa due volte al giorno, la possibilità di bere acqua non inquinata, la fortuna di frequentare una scuola per non essere subito tagliati fuori dal futuro e ricacciati in fondo alla scala sociale, a fare i poveri di professione: accattoni, ma anche cose peggiori…
Mi rendo conto che per donare qualcosa di sé bisogna entrare nello spirito giusto, cioè motivarsi. Ci aiuta in questo un racconto, preso dal contesto islamico e narrato da Jean-Louis Ska: «Un bravo sarto camminava serenamente per le strade del suo villaggio. Improvvisamente nota un’aquila che, con una preda nel becco, entra nel minareto della moschea. Dopo qualche tempo avvista la stessa aquila mentre di nuovo entra nel minareto, sempre con una preda nel becco. Incuriosito, entra nella moschea, sale nel minareto e scopre, in un angolo oscuro, una civetta. L’animale si nutre delle prede portatele dall’aquila. Si avvicina e si accorge che la civetta è cieca. Allora benedice Dio e dice tra sé: “Vedi com’è buono il nostro Dio: manda un’aquila a nutrire questa povera civetta cieca! E perché allora io dovrei continuare a faticare tanto come sarto se Dio si prende tanta cura delle sue creature?”. L’indomani si siede davanti alla moschea e comincia a chiedere l’elemosina. Un suo vicino di casa lo vede, gli si avvicina e gli chiede stupito: “Che fai? Sei malato? Hai troppi debiti? Perché non lavori più?”. Il sarto gli racconta la sua storia. Il vicino lo ascolta, riflette un po’ e poi gli dice: “Amico mio, la tua storia è molto bella, però non hai capito affatto il messaggio. Non dovevi imitare la civetta, ma l’aquila!”».