Il coraggio di educare
È ancora possibile educare? Davanti all’alluvione di fatti di cronaca sconcertanti che riguardano il mondo giovanile, la domanda si impone. Che cosa sta succedendo ai nostri ragazzi? I tempi della contestazione giovanile, con i suoi eccessi, sono ormai lontani. Ma a volte si ha l’impressione che allo scontro frontale tra le generazioni sia subentrata un’incapacità di comunicare e di capirsi ancora più radicale, tanto da rendere impossibile perfino il conflitto.
Ma il problema sono veramente i giovani? O non dobbiamo onestamente riconoscere, noi adulti, che l’emergenza educativa non riguarda loro, ma gli educatori, e che dunque il vero problema siamo noi? È stato Benedetto XVI ad avere il coraggio di dirlo con chiarezza, all’Assemblea della Cei: «Quando infatti – notava il Papa – in una società e in una cultura segnate da un relativismo pervasivo e non di rado aggressivo, sembrano venir meno le certezze basilari, i valori e le speranze che danno un senso alla vita, si diffonde facilmente, tra i genitori come tra gli insegnanti, la tentazione di rinunciare al proprio compito, e ancor prima il rischio di non comprendere più quale sia il proprio ruolo e la propria missione. Così i fanciulli, gli adolescenti e i giovani, pur circondati da molte attenzioni e tenuti forse eccessivamente al riparo dalle prove e dalle difficoltà della vita, si sentono alla fine lasciati soli davanti alle grandi domande che nascono inevitabilmente dentro di loro».
Non sono i ragazzi a essere irrecuperabili: è venuto meno il coraggio di educare. Più profondamente, secondo l’acuta analisi di Benedetto XVI, è venuto meno quell’orizzonte di verità e di valori condivisi che rendono possibile e significativa l’educazione. I risultati sono sotto i nostri occhi. I genitori colmano i loro figli di cure materiali e di regali (anche per farsi perdonare di aver sempre meno tempo da dedicare loro), ma sembrano ormai incapaci di proporre e di testimoniare delle convinzioni che possano costituire dei saldi punti di riferimento. Quanto alla scuola, essa sembra aver rinunciato a proporre ai propri alunni delle certezze universalmente valide e aver ripiegato, piuttosto, su una miriade di offerte particolari – i progetti del «pof» (piano offerta formativa) – finendo per assomigliare sempre di più a un supermarket, dove ogni cliente va a cercare non il senso della propria vita, ma soltanto i prodotti che gli interessano. Anche nella comunità cristiana sembra predominare uno stile centrato sull’organizzazione di convegni, di feste-giovani, di «eventi», a scapito di una formazione capillare alla vita spirituale, anche attraverso rapporti personali, come un tempo erano la riconciliazione sacramentale e la direzione spirituale.
Davanti a questo quadro allarmante, che fare? Innanzitutto, prendere coscienza dei veri termini del problema e, su questa base, impegnarsi nel compito decisivo, che è quello di educare gli educatori. In questo la comunità cristiana può avere un ruolo fondamentale. Urge prolungare la formazione ben al di là dell’età della cresima e trasformarla in un cammino permanente per gli adulti. Si tratta di educare i genitori a essere veramente tali. Si tratta di aiutare gli insegnanti a riscoprire il senso e la grandezza della loro «missione» (ritroviamo il coraggio di usare questo termine!). E anche tanti operatori pastorali laici, tanti religiosi e tanti sacerdoti avrebbero molto da imparare in questo processo formativo volto a mettere gli adulti in condizione di esercitare il ruolo che hanno perduto.
Educare oggi non è facile, ma è possibile. È necessario, però, ritrovare l’entusiasmo di farlo e acquisire la preparazione per farlo seriamente, se non vogliamo che la nostra indignazione di fronte ai fatti di cronaca resti sterile e diventi un modo per esorcizzare le nostre responsabilità.