Lettere al direttore
LETTERA DEL MESE
Troppe richieste. A chi dare?
«Oggi non abbiamo quasi più Lazzaro alle porte; lo incontriamo prevalentemente nelle strade dei grossi centri. Alla nostra porta, però, giungono continuamente per posta le richieste delle organizzazioni umanitarie. Una volta queste richieste erano poche e concentrate per lo più a Natale, oggi sono tante e arrivano in qualsiasi periodo dell’anno. E sono spesso le stesse organizzazioni che, indipendentemente dall’aver ricevuto o meno, tornano più volte a bussare, presentando nuove situazioni pietose e nuove emergenze. Ce ne sono di quelle che, anche se non corrisposte, fanno regolarmente omaggio di tre o quattro biglietti augurali con relativa busta (ma oggi chi manda più auguri per posta?): la cosa mi indispone, perché mi sembra uno spreco di soldi offerti per i poveri. Queste organizzazioni sono quelle che escludo subito; ad altre corrispondo, ma con criteri soggettivi di selezione: prendo maggiormente in considerazione quelle cattoliche che operano nei Paesi poveri; ma anche tra queste la quantità di richieste è notevole e il continuo arrivo di buste rigonfie di carte rischia di portarmi al rifiuto totale. Certamente sento il dovere di contribuire, di sostenere chi opera, di dare un segno, ma posso caricarmi di tutti i problemi del mondo? Che fare? Qual è il comportamento giusto secondo il Vangelo? Le sarei grato se volesse indicarmi un criterio da seguire».
N. M.
Comprendo il suo disagio. Le richieste di sostegno, concretamente di denaro, crescono in modo vertiginoso, mentre la capacità reattiva dei singoli e delle famiglie – complice la crisi economica – si fa comprensibilmente sempre più flebile, problematica e perplessa. Le cassette della posta stanno diventando dei centri di smistamento di casi umani pietosi e di cause solidali che strappano il cuore: bambini in situazioni di estrema povertà che ti scrutano gli occhi, popolazioni in miseria che implorano interventi immediati, catastrofi che hanno tolto tutto e chiedono tutto. Non si sa più a chi dare retta e, una volta superato lo stordimento da assalto alla diligenza e destinate al cestino quelle richieste che a una prima analisi ci sembrano meno convincenti, spesso ci resta ancora in mano un ventaglio di lettere, bustoni, dépliants, del quale facciamo fatica a sbarazzarci. Dare un po’ a tutti, magari poco poco; dare a qualcuno escludendo gli altri; fare una scelta netta per un progetto, una proposta, un dramma: sono strategie che puntigliosamente passiamo in rassegna e che si escludono l’una con l’altra. Forse nessuna ci soddisfa pienamente e un po’ di disagio ci resta comunque in corpo, ma è nella logica delle cose.
Veniamo ora alla sua richiesta, molto esplicita. Ho l’impressione che se la stia già cavando molto bene, perché l’importante è darsi dei criteri e rimanere fermi in quelli, senza tentennamenti. Il suo gradimento va alle associazioni cattoliche che lavorano in Paesi poveri, e questa opzione rende possibile una prima consistente scrematura. C’è bisogno però – come lei fa notare – di una seconda cernita, e qui viene chiamata nuovamente in causa la sua sensibilità, accantonando comunque eventuali sensi di colpa che potrebbero insorgere e che non sono mai da assecondare: il Vangelo ci chiede infatti di essere generosi, di amministrare bene con spirito di condivisione, di mantenere viva l’inquietudine per una maggiore giustizia ed equità sociale, non di privarci del necessario o di venir meno alle nostre responsabilità familiari.
Il mio consiglio, comunque, è di sposare – tra le molte possibili – una sola causa, di prenderla a cuore e di investire lì quanto possiamo e sappiamo donare. Senza rimpianti, visto che anche con le migliori intenzioni non si può arrivare dappertutto, senza inutili tormenti interiori, poiché non siamo noi i salvatori del mondo, e soprattutto rimanendo nella gioia. È la gioia, credo, a tracciare il limite del nostro donarci agli altri. Finché c’è gioia c’è spazio per il dono; fermiamoci un passo prima che il dono ci renda tristi.
Il parroco di una volta e quello manager
«Don Massimo, il mio parroco, è un tipo molto attivo. Se non facesse il prete – spero che il paragone non sia irriverente – lo definirei un manager. Sia ben inteso, lo ammiro: non dev’essere facile gestire una parrocchia come la nostra. Oltre alla normale routine – messe, amministrazione di sacramenti – deve organizzare i vari gruppi: giovanili, famigliari, per anziani, liturgico, missionario. E che dire del coordinamento dei catechisti, dei vari movimenti ecclesiali, dai neocatecumenali agli scout, e di quello dei volontari della nostra piccola caritas? Infine la raccolta fondi per il tetto della chiesa, i preparativi della sagra, l’articolo per la rivista parrocchiale; senza trascurare i rapporti con la diocesi e quelli con le altre parrocchie della città. Ce n’è abbastanza per perdere il sonno. Lo ammiro, lo ripeto. Eppure una parte di me ricorda con nostalgia quei vecchi preti che ogni tanto bussavano alla porta perché sapevano di un tuo momento di difficoltà o semplicemente perché volevano condividere qualcosa. Ma, sa, ho 70 anni e forse sono solo un’anziana nostalgica».
Lettera firmata
In parte capisco la sua nostalgia, mi creda. Lei rimpiange una figura di prete radicato nel territorio, molto legato alla sua gente, attento alle esigenze sia materiali che spirituali dei fedeli, ma direi soprattutto spirituali: intendendo con questo termine le molteplici ripercussioni interiori dei fatti belli e tristi della vita, oltre che, naturalmente, la crescita interiore legata all’ascolto della Parola e alla pratica dei sacramenti. C’è poi un fatto al quale dà particolare enfasi, ed è la capacità di stabilire una relazione d’aiuto in momenti di difficoltà. Don Massimo, d’altra parte, le appare come un ciclone di organizzazione e di bontà che investe la parrocchia contagiandola con stimoli e iniziative, forse esageratamente attivo e quasi agitato nel suo impegnarsi in mille cose. Dove sta la sintesi? Quale immagine di prete deve prevalere? Spontaneamente mi metto dalla parte di don Massimo, il cui limite non è quello di fare, ma di fare troppo e in troppe direzioni. Mi chiedo anche, però: perché è così solo? Esistono in parrocchia collaboratori ai quali delegare quei compiti non propriamente sacerdotali? Chi gli dà concretamente una mano impedendo che faccia la trottola tra una riunione e l’altra, tra un funerale e un battesimo, un incontro di catechesi e un altro di programmazione della sagra? Il tetto della chiesa, almeno quello, dovrebbe essere una preoccupazione di tutti.
Mia suocera ci sta invadendo la vita
«Sono sposata da dieci anni e ho un figlio. In tutto questo tempo, le liti più furibonde con mio marito sono avvenute quasi sempre a causa di sua madre. Non ho un carattere semplice, lo ammetto, però non so se sia giusto che lei abbia sempre qualcosa da dire sul modo di educare nostro figlio. Continua a ripeterci: “Io ne ho cresciuti quattro, saprò bene come si fa”. E via con le critiche, su ciò che cucino per il bambino o su come lo vesto. Considera esagerazioni quelle che per me sono regole educative. Pretende che il bambino stia con i nonni un tempo congruo e fa una scenata se sa che è stato più da mia madre che da lei. Poi, inesorabilmente, io e mia suocera litighiamo, e se in un primo tempo mio marito mi dà ragione, quando poi lei fa la vittima (“con tutto quello che faccio per voi…”), allora lui cede: “Poverina è fatta così, ma ci vuole bene …”. La rabbia mi assale e inizio a litigare con lui, che passa al contrattacco: “È perché tu vuoi solo tua madre…”. Grida, musi, malumore, rancori, e poi, lentamente, ma sempre più faticosamente, tutto torna alla normalità… fino alla prossima invasione di campo… Per favore non mi risponda anche lei che sono i classici diverbi suocera-nuora».
Lettera firmata
No, non le risponderò affatto così: questi sono i «classici diverbi» tra un marito e una moglie che non riescono a difendere i propri confini. Quando un uomo e una donna si sposano è come se creassero una regione autonoma, con le sue leggi e le sue frontiere, che possono essere anche molto diverse da quelle delle rispettive famiglie d’origine. Non a caso la Bibbia suggella questa separazione: «…l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Sarà quindi la coppia a fissare nel proprio progetto di vita i limiti invalicabili della propria intimità e a impegnarsi a farli rispettare. Quando lei afferma che ogni ritorno alla normalità dopo il litigio è sempre più lento e faticoso, sta già descrivendo un rapporto sul crinale del logoramento. Non permettetelo, neppure per le più buone ragioni, per amore filiale o perché riconoscete la buona fede delle nonne in questione. Cercate di comunicare al più presto ai vostri genitori questa esigenza vitale della coppia, facendo loro comprendere che il rispetto dei confini non li esclude ma anzi intende tutelare, proteggere e far crescere la comprensione reciproca. Loro, che sicuramente hanno a cuore la vostra felicità, un giorno ve ne saranno grati.
Doping: prezzo da pagare?
«Sono il padre di un ragazzo di quattordici anni, Andrea, che ha iniziato a praticare sport in prima elementare e si è sempre molto divertito. Anche per questo, credo, è riuscito a raggiungere importanti risultati. Qualche settimana fa l’allenatore gli ha proposto il “salto di qualità”. “Tu hai i numeri per vincere, ma se vuoi andare più veloce c’è una sola strada: l’uso di farmaci”. Da genitore, e da appassionato sportivo, mi chiedo se sia davvero questo il prezzo che un giovane deve pagare per fare sport a certi livelli».
Lettera firmata
Più volte mi sono sentito dire da genitori: «Meno male che mio figlio fa sport, così sta lontano dalla droga». Ma purtroppo, come lei conferma, nel mondo sportivo esistono varie forme di doping: si tratta di una «cultura» dei farmaci additivi diffusa ai vertici come alla base. Il doping circola, con inquietante naturalezza, tra i professionisti come tra i dilettanti. A raccontarcelo sono, ogni giorno, i fatti di cronaca.
Dobbiamo avere, prima di tutto, il coraggio di chiamare il doping col suo nome: droga. Droga che fa male, che procura danni fisici, diffondendo, al tempo stesso, un sistema distorto e sbagliato di valori. Negarne la diffusione e l’utilizzo equivale, in qualche modo, a diventare complici di un business da centinaia di milioni di euro. In più, si va di fatto a legittimare un meccanismo in base al quale finiscono per saltare i valori più autentici dello sport: il divertimento, l’agonismo, il rispetto delle regole. Qualsiasi disciplina sportiva è, prima di ogni altra cosa, lealtà. Nei confronti dell’avversario e, prima ancora, di se stessi. Chi vince col doping, di fatto bara. Non è casuale la presa di posizione di Amedeo Colombo, presidente dell’Associazione dei ciclisti professionisti italiani. Si è sentito tradito dai suoi ragazzi. Prima Basso, poi Riccò, infine Sella. E ha deciso di dire basta. «Radiazione», questa la sua proposta. Chi verrà beccato… sarà espulso. Una rivoluzione. Ma per fare le vere rivoluzioni ci vuole coraggio. Che, in altri termini, significa non aver paura, caro genitore, di rifiutare pastiglie o fialette anche se proposte da persone conosciute, non importa se sono allenatori, amici o persino medici. Non spingiamo i ragazzi alla vittoria a tutti i costi, perché i costi possono essere alti se si trucca il motore. Lo sport è vincere e perdere, ma sempre nel rispetto delle regole. E le vette più alte sono quelle che si conquistano senza ricorrere a facili scorciatoie.
Mia figlia vuole andare a convivere
«Caro direttore, sono la madre di una giovane di 30 anni, fidanzata da sei con un coetaneo. Sullo scorso numero del “Messaggero” ho letto la lettera di quella ragazza il cui fidanzato non vuole sposarsi. Mia figlia sta vivendo una situazione simile, anche se il suo fidanzato una decisione l’avrebbe presa: vorrebbe andare a convivere. Mia figlia è indecisa perché è credente e il suo desiderio è di sposarsi in chiesa. Poiché legge sempre il “Messaggero”, potrebbe, padre, dirle qualcosa che l’aiuti a non tradire i suoi principi?».
Lettera firmata
Cara signora, la situazione, anche se solo negli esiti e non nelle motivazioni, è molto diversa rispetto a quella descritta nella lettera dello scorso mese. Il fidanzato di sua figlia una scelta, per quanto opinabile, l’ha compiuta. È molto difficile dare un giudizio, analizzare le motivazioni alla base di questa decisione, non conoscendo di persona i diretti interessati. Vorrei pertanto limitarmi a una riflessione sul significato di un passo come questo. Un significato che, a ben guardare, non si discosta molto da ciò che sta alla base dell’indecisione di cui abbiamo parlato l’altra volta. Il matrimonio è una scelta che comporta un’assunzione di responsabilità nei confronti del coniuge e dei futuri figli, che si poggia su un progetto di vita ben preciso; il matrimonio religioso, poi, implica una decisione «per sempre» anche in virtù della grazia sacramentale che sigilla la scelta umana. Una convivenza cos’altro è se non una «prova»: prova di sentimenti, di affinità caratteriali, prova di vita, insomma? Ma la vita, i sentimenti, le relazioni, non si possono vivere «in prova»: una macchina, un vestito, un oggetto si possono provare, non una persona. I sentimenti, i rapporti o sono o non sono: non ci si può donare a un altro e riceverlo in dono solo finché «va bene». Una persona non si può «prestare». La scelta della convivenza, in definitiva, contiene in sé un’idea riduttiva di persona, di reciprocità, di vita a due.
Natale con i tuoi...Pare facile!
«Si avvicina il Natale col solito problema: con chi festeggiare? Senz’altro con mio marito, ma il dilemma sono le famiglie d’origine, che ci vorrebbero a tavola con loro. I suoceri, però, sono separati: significa avere tre nuclei familiari da accontentare e due soli pasti festivi a disposizione. A ogni ricorrenza la questione si ripropone. Si finisce per scontentare sempre qualcuno, per cui si creano tensioni tra di noi. Come regolarsi?».
Lettera firmata
Contrariamente a quanto si crede, l’incontro nella famiglia allargata − in caso di festività ma non solo − spesso è un momento tutt’altro che rilassante. Le relazioni tra nuclei familiari risultano complesse, talvolta problematiche e non ci sono tante scorciatoie da suggerire. Nel caso specifico, però, merita di essere sottolineato un aspetto: non è affatto secondario che lei viva il Natale insieme a suo marito. Oltre che una coppia, formate una famiglia. Vi siete scelti nel matrimonio, vi amate, e la vostra unione è benedetta da Dio. Siete prima moglie e marito (ed eventualmente mamma e papà) che figli dei rispettivi genitori. Ciò detto, bisogna studiare una strategia di accordo tra nuova e vecchia generazione familiare. Privilegiando quello che unisce piuttosto che quello che divide, e rifuggendo i possibili ricatti affettivi dei «contendenti» (papà e mamma di lui, genitori di lei). Si potrebbe pensare anche a una specie di turnazione elastica, che includa i festeggiamenti di Natale, Pasqua, compleanni e solennità varie. Senza rigidità, almeno per quanto è possibile.
Un’ultima considerazione. Probabilmente il pranzo di Natale, o domenicale, o festivo, viene inconsapevolmente e puntualmente rovinato perché riversiamo su di esso esagerate aspettative e lo usiamo per «contrattare» gli affetti. Usiamolo, invece, per quello che è, gustando il buon cibo e accogliendo chi ci sta accanto, chiunque egli sia.