L’amore per la vita vale più di una pedana
Pietro non conosce la differenza tra oro, argento e bronzo. Alla mamma lui, che ha poco più di tre anni, ha chiesto solo di portargli a casa una medaglia. Promessa mantenuta. Alle ultime Olimpiadi di Pechino Valentina Vezzali ha regalato a Pietro, e non solo, un oro impresso nella storia. Con una dedica speciale: «Pietro ti amo». Tre ori olimpici individuali, cinque titoli mondiali, cinque titoli europei. Il fioretto mondiale è lei. Ha iniziato a vincere quando aveva 10 anni. Continua a farlo ora che ne ha 34, è sposata ed è mamma. Difficile trovare un campione che salga sull’olimpo, non solo metaforico, e riesca a rimanerci, impresa ancora più ardua, per così tanto tempo.
Il segreto di Valentina? Il piglio, la tenacia, la determinazione. E, prima ancora, la capacità di mettersi continuamente in discussione, variabile che si stenta a riconoscere in chi sembra nato per vincere. Eppure, per la fiorettista di Jesi, nessuna gara, nessun avversario sono scontati. Combatte con l’ultima al mondo come se avesse di fronte la numero uno.
È grazie a campioni come Valentina che la scherma, considerata a torto uno sport minore, spesso lontano dai riflettori e con pochi impianti sul territorio, ha finora collezionato la bellezza di 110 medaglie olimpiche, più di un quinto del palmarès italiano arrivato a quota 503.
Msa. Il ct della nazionale Andrea Magro ha definito il tuo terzo trionfo olimpico «un percorso di sofferenza».
Vezzali. La notte prima della gara non ho dormito. Sì, proprio come se fossi una principiante. Sono fatta così. La tensione per il fatto di essere da dieci anni sempre favorita si è fatta sentire. Questa è stata, prima di tutto, la medaglia del lavoro e della sofferenza, come ha detto Andrea. Sono pessimista di natura. Prima della gara mi sono chiesta se dovevo smettere. Ce l’ho messa tutta. È stata la più difficile, ma l’avevo promesso a Pietro.
Valentina e la scherma. Perché hai scelto proprio questa disciplina?
Per la verità è lei che ha scelto me. La mia famiglia, di origini romagnole, si era trasferita nella cittadina marchigiana per motivi di lavoro. Un segno del destino. Avevo sei anni. Mia sorella Nathalie già frequentava il famoso Club Scherma di Jesi. Per questioni organizzative mamma iniziò a portarmi nella stessa palestra. Arrivavo alle tre e mezzo del pomeriggio, dopo aver fatto i compiti. Ricordo ancora con emozione che, finita la lezione, andavamo a giocare in un posto speciale, appartato e in penombra. Era una stanzetta in fondo al corridoio, piena di attrezzi ginnici e grandi materassi su cui ci divertivamo a saltare come pazzi. Verso le sei gli altri bambini tornavano a casa, io invece rimanevo in palestra con Nathalie. Assistevo ai suoi allenamenti con i maestri e mi intromettevo nei discorsi dei grandi, mentre aspettavo che papà ci riaccompagnasse a casa.
Campioni nello sport. Si può esserlo anche nella vita?
La scherma è uno sport di grande destrezza e di straordinaria abilità. In una frazione di secondo devi decidere come risolvere un problema, come segnare l’ultima stoccata, la decisiva. Questa abilità mi ha aiutato, ad esempio, anche a scuola. Nonostante fossi poco sui banchi, a causa degli allenamenti, a scuola ero la più brava. Credo che un ragazzo possa fare benissimo, e ad alti livelli, sia l’una che l’altra cosa. La passione, l’impegno, il sacrificio portano lontano. Lo sport è una medicina per il corpo e per la testa. Ci insegna a misurarci con noi stessi e con gli altri, a superare gli ostacoli, a tirar fuori capacità che spesso neanche sapevamo di avere. Ho sempre guardato avanti. Come diceva spesso il mio maestro Ezio Triccoli: si impara dai migliori e dalle proprie sconfitte.
Allenamenti dalle sei alle otto ore al giorno, gare che ti portano in tutto il mondo. Non è difficile per una campionessa, che è anche moglie e madre, riuscire a mettere tutto insieme?
È difficilissimo, lo confesso. Sono convinta, però, di una cosa: si può dare amore senza tagli alla gloria. Perché un figlio, un marito, le persone che ami, puoi portarle dentro al cuore, ovunque ti trovi. Inoltre è questa spinta interiore a darti la forza per non provare più paura nei confronti della stoccata decisiva. Quattro anni fa mi sono detta: mi fermo, voglio una casa, una famiglia, un bambino. Tre settimane dopo il parto ero già in pedana. E quando lui aveva appena quattro mesi ho disputato i Mondiali di Lipsia, conquistando la medaglia d’oro. Se metti passione in ogni cosa che fai non c’è nulla che possa pesare.
C’è qualcosa che non hai ancora imparato?
Moltissime cose. Quanto sono precisa in pedana, tanto sono poco puntuale fuori. Adoro fare mille cose, sin da quando ero piccola. E così arrivo sempre di corsa, ho tantissimi impegni. C’è, però, un’emozione che non ho ancora superato: la paura. Ancora oggi, prima di ogni competizione, mi sento il cuore in gola, la salivazione a zero, la sudorazione a mille. L’apice dura pochissimo, ma è in questo momento che la paura si trasforma in determinazione, in voglia di mettermi alla prova, costi quel che costi. Il giorno in cui non proverò più paura sarà il giorno in cui dovrò smettere.
Cosa si prova in pedana se le avversarie sono delle compagne di squadra?
Non è facile combattere contro atlete di grande calibro, come Giovanna Trillini o Margherita Granbassi, che sono, al tempo stesso, compagne di squadra, di allenamenti, di emozioni. Quando ci sono gare importanti non è un caso che preferisca isolarmi da tutto e da tutti e dormire in una stanza singola. Quando però scendo in pedana e calo la maschera, non vedo più nulla e cerco di vincere l’aspetto «sentimentale». È come se davanti a me avessi un avversario mai visto prima.
Hai un sogno nel cassetto?
Ho 34 anni, ma devo ancora decidere cosa farò da grande. Sto pensando ai prossimi quattro anni e alle Olimpiadi del 2012 a Londra. Vorrei esserci, e da protagonista. Magari come portabandiera dell’Italia. Sono iscritta a Giurisprudenza e mi piacerebbe laurearmi. In più, vorrei dare una sorellina a Pietro.
Come sta la scherma?
In Italia esistono pochi impianti per la pratica di base. E quelli che ci sono si trovano in centri di provincia dove maestri, dirigenti e atleti hanno fatto miracoli per tenerli in piedi. C’è una penosa carenza di strutture che penalizza una disciplina dalla grande tradizione. La speranza è che le medaglie olimpiche conseguite ci diano gli strumenti per pretendere che, nel nostro Paese, non ci siano solo campi di calcio. Un esempio? Vanessa Ferrari, la giovanissima campionessa di ginnastica artistica, si allena in un sottoscala.
Le medaglie ti hanno reso un modello per tanti giovani, sportivi e non. Ti pesa questo ruolo?
No, devo tutto a dei modelli straordinari di vita che mi hanno insegnato a non mollare mai, a non darmi per vinta, a rialzarmi dopo le cadute più brutte dalle quali avevo pensato di non riuscire mai a sollevarmi. Ho scelto di essere testimonial di alcune campagne, ad esempio quelle contro il fumo e per le adozioni a distanza. La gente ci guarda, ci ascolta, ci vede come dei punti di riferimento. Mio padre è morto nell’89 per un tumore ai polmoni. Era un grande fumatore. A mio marito, quando sono rimasta incinta, ho chiesto un solo regalo: smettere di fumare. Ci è riuscito, anche se i compagni di squadra, fuori dallo spogliatoio, gli mettevano il pacchetto di sigarette sotto il naso. Essere dei modelli si può, anzi si deve.
Quando perdi scoppi in lacrime. Dicono che non sai accettare la sconfitta.
Sono solo me stessa. Il pianto è un modo per buttare fuori tutto, per riazzerare il computer che c’è dentro di me. Solo così riesco a ripartire. Alcuni compagni di squadra, in situazioni di difficoltà possono contare su un supporto psicologico. Finora, anche grazie al pianto, non ne ho avuto bisogno. Ma non è mai detta l’ultima parola…
L’abbraccio a mamma Enrica, la tua prima tifosa, il pensiero a tuo figlio, prima e dopo ogni gara. Che significato ha per te la vittoria?
Nessuno fa niente da solo e nessuno basta a se stesso. Mamma mi segue ovunque io vada. C’è sempre, in ogni momento importante della mia vita. Ma chi mi sorregge, mi sprona e mi dà una forza straordinaria è qualcuno che non c’è più. Sono persone che porto dentro, nel profondo. Il giorno in cui ho vinto a Pechino ho sentito che il mio maestro Ezio Triccoli, scomparso nel 1996, era lì. Mi aveva osservato per tutta la gara e si stava lisciando i baffi con un sorriso di soddisfazione. Lui sapeva che avrei vinto. Come lo sapeva il mio papà Lauro che mi ha sempre sostenuto e continua a farlo da lassù.
È proprio questo «qualcosa» a fare la differenza, a spiegare il senso, e a dare senso, a ogni vittoria di Valentina. Che si trasforma così, di volta in volta, in un grande inno alla vita.
La scheda
Chi è
Valentina Vezzali nasce a Jesi (Ancona) il 14 febbraio 1974. Inizia a praticare scherma nel 1980 presso il Club Scherma Jesi. A 15 anni consegue i primi risultati al campionato Mondiale Cadette (vincerà poi tre titoli iridati consecutivi). Il debutto olimpico avviene ai Giochi di Atlanta nel 1996 dove ottiene un oro e un argento. Da Sidney 2000 porta a casa due ori. Alle Olimpiadi di Atene 2004 e Pechino 2008 arrivano il secondo e il terzo oro consecutivi. En plein di medaglie anche ai Mondiali. Dal 1999 è in forza al gruppo sportive Fiamme Oro della Polizia di Stato. Dal 2002 Valentina è sposata col calciatore Domenico Giugliano e ha un figlio, Pietro, nato il 9 giugno 2005. Sul sito www.valentinavezzali.com la schermitrice elenca i suoi hobbies (cinema, tennis, vela, lettura) e altre curiosità. Il fatto che non dimentica? L’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001. Il campione di sempre? Mark Spitz. Il personaggio? Giovanni Paolo II.