Lettere al Direttore

29 Dicembre 2008 | di

Lettera del mese

Per ogni vocazione c'è una «seconda chiamata»

Dopo una stagione fruttuosa, può arrivare un periodo anche lungo di stanchezza. È il tempo della disillusione ma anche di una chiamata a libertà per scegliere davvero chi vogliamo essere.


«Caro padre, mi vergogno un po’ a scriverle e preferisco mantenere l’anonimato. Sono una suora di poco più di cinquant’anni, che nei nostri ambienti significa essere additata come “giovane”, visto che l’età media dell’Istituto è alquanto elevata e mancano vocazioni davvero giovani. Sto vivendo un periodo di stanchezza spirituale e di rifiuto delle molte convenzioni che imbastiscono gran parte della vita comunitaria. Dietro le formalità, anche religiose, c’è molto vuoto e anche sofferenza; la superiora, poi, è del tutto incapace di vedere il bisogno enorme di riconoscimento che io e le mie sorelle abbiamo a livello umano. Sembra che tutto sia dovuto: lavoro, dedizione, impegno per gli altri, generosità… Ma, dopo aver dato tutto, non è vero che il cuore si riempie di gioia. C’è tristezza in me, e un po’ di rabbia. E anche le altre suore non mi sembrano così credibili come ho pensato per molto tempo. Ho paura di pronunciare la parola crisi, ma forse è proprio così. Da dove ricomincio?».

Una suora


Quando affiorano nella vita, quella di tutti, serie difficoltà di percorso, è facile lasciarsi prendere la mano dal pessimismo ed essere più inclini a dichiarare bancarotta che a rimboccarsi le maniche. Andiamo facilmente agli estremi e cominciamo a maneggiare parole grosse, diventando duri nei confronti di noi stessi. Aggiungiamo così tensione dove ce n’è già in abbondanza, finendo in uno stato confusionale nel quale prolificano sensi di colpa e moti di aggressività.

Oltre a queste dinamiche, però, nel suo caso (piuttosto complesso e qui riassunto in poche righe) c’è da segnalare un fatto estremamente positivo: anche se in forma anonima, ha lanciato un grido d’aiuto, la qual cosa significa che avverte la necessità di aprirsi, di confrontarsi, di non rassegnarsi di fronte a un panorama – sia interiore che esterno – avvertito come desolante. Eppure, mi creda, la parola crisi – che per quanto la riguarda fa riferimento a una realtà ancora tutta da verificare – non va legata a colpa. Se a un certo punto la crisi ci sorprende, e può capitare, ciò non è attribuibile al fatto che abbiamo vissuto male, con incoerenza o negligenza, e nemmeno che stiamo trascinando stancamente il nostro cammino di fede o barando con le scelte di fondo. Dobbiamo mettere in conto che nella vita, per tutti, arriva un tempo nel quale la gioia della vocazione intrapresa sembra appannarsi, per cui ogni cosa perde di freschezza e attrattiva e su tutto prevale la grigia routine dei giorni tutti uguali. Dopo lo slancio generoso dei primi anni di professione religiosa, un’esistenza adulta condotta con fervore sul piano della crescita spirituale e dell’impegno apostolico – dopo una stagione fruttuosa, insomma – può anche arrivare un tempo di desolazione, di stanchezza, in cui siamo chiamati a fare i conti con nuove sintesi da guadagnare. La vita è andata avanti e magari ci siamo troppo trascurati, abbiamo messo da parte esigenze personali legittime, e ora non c’è più molto tempo. Alcune illusioni, poi, sia su noi stessi che sugli altri, cadono, cedendo il passo a un pragmatismo quasi brutale. Ecco cosa scrive a proposito Romano Guardini, nel suo Le età della vita: «Si ricevono delusioni da parte di coloro nei quali si riponeva speranza. La generalità delle persone manifesta un’apatia e un’indifferenza, anzi una malevolenza di cui prima non ci si rendeva conto. Si riesce a vedere dietro le quinte e si nota che le cose sono molto più miserevoli di quanto si fosse pensato». È il tempo della disillusione, certo, ma è anche il tempo di una chiamata a libertà per scegliere davvero chi vogliamo essere, accettando la nostra storia e proiettandola nel solco di una fedeltà da rinnovare. Qualcuno dice che questo è il momento della «seconda chiamata»: se nella prima si è scelto ciò che si desiderava, nella seconda si presenta l’occasione di riaccendere il desiderio per ciò che si è scelto. Ora con occhi spalancati.




Adolescenti. Internet in camera?


«Mio figlio ha quasi 16 anni. Da qualche tempo è sempre più pressante: vuole piazzare il computer di casa in camera sua. Non ci vedrei nulla di male se non fosse per i videogiochi, che lo ipnotizzano, e soprattutto per l’accesso a internet. Secondo lei dovrei cedere alla sua insistenza?».

Lettera firmata


Fa bene a porsi la questione senza sottovalutarla, perché i rischi che ha individuato sono reali.
Il computer di per sé non è negativo, anzi. È uno strumento, e in quanto tale si presta a utilizzi buoni o cattivi. I videogiochi, ad esempio, possono essere un innocente passatempo, purché non contengano violenze e non se ne abusi. Più delicata la questione di internet, una grande opportunità che mette a disposizione informazioni utili, notizie, e permette di comunicare in tempo reale con altre persone. Però ci si può anche perdere, e non si tratta solo di una preoccupazione dettata dallo scrupolo, ma di una triste realtà. Basta leggere le più aggiornate ricerche statistiche: secondo l’ultimo Rapporto nazionale sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza di Eurispes e Telefono Azzurro, per esempio, l’11,5 per cento degli adolescenti è stato molestato in rete o ha dichiarato di aver ricevuto proposte oscene, l’8 per cento ha incontrato un adulto che si dichiarava suo coetaneo. Ancora peggiore la situazione registrata in Gran Bretagna, dove un terzo dei ragazzi tra i 9 e i 19 anni utenti di internet ha ricevuto inviti a sfondo sessuale.

Non serve creare allarmismi, ma nemmeno muoversi in maniera superficiale, come invece il mezzo stesso, cioè internet, spingerebbe a fare: si posiziona il puntatore sulla finestra più colorata, la foto intrigante, il collegamento che promette di più, un clic e via. Non che la ragione o la volontà vengano disabilitate, ma «si naviga» spesso a vista, senza meta. Può sembrare innocua virtualità, ma non è così, e le conseguenze reali possono essere pesanti. Per descrivere questa contraddizione trovo efficace la definizione «socializzazione solitaria»: fotografa quel rischio di ipnosi davanti allo schermo che promette incontro e invece espone alla solitudine.

In definitiva, dove lo mettiamo questo computer? Nella camera del figlio o fuori dalla finestra? Niente soluzioni drastiche, per carità: i rischi ci sono, ma anche attraversare la strada o guidare l’auto sono fonte di pericoli, eppure mai ci sogneremmo di chiuderci in casa. Serve educare (ed educarsi, come genitori) ai media: impariamo a sederci davanti al computer sobri, con le cinture allacciate, avendo cura di verificare il buon funzionamento del mezzo (antivirus e filtri per la navigazione inclusi). Nel caso di minori, poi, ben venga l’aiuto di un adulto navigatore seduto a fianco. Infine, soprattutto, guidiamo tenendo le mani ben salde sul volante. O sul timone, visto che si parla di navigazione.



Prediche: la comunicazioneche non c’è


«Caro direttore, sono un cristiano praticante che ogni domenica, con convinzione e non solo per abitudine, partecipa alla santa Messa. La celebrazione eucaristica è una grande esperienza di unione con Dio e di preghiera personale e comunitaria, e questo mi arricchisce ogni volta. Il tallone d’Achille sta invece nella predica del nostro prete: parole scontate, poco o nulla collegate con la parola di Dio proclamata nelle letture, con qualche tentativo di attualizzazione che però finisce sempre per colpevolizzare i pochi presenti».

Lettera firmata


Ho apprezzato il suo scritto nel quale si dice bene cosa una predica dovrebbe o non dovrebbe essere. Niente pressappochismo, lacuna che va generalmente collegata alla scarsa preparazione prossima o remota del celebrante; niente girovagare da un tema all’altro, poiché – senza essere solo «spiegazione» delle letture – la predica non può mai prescindere dalla parola di Dio proclamata; niente moralismi, perché non fanno che appesantire e a volte bloccare la comunicazione con l’assemblea.

Se è facile rilevare come molte prediche pronunciate nelle parrocchie e nelle chiese italiane in genere (circa centomila ogni domenica) non sempre sono all’altezza della situazione, vorrei però anche mettermi dall’altra parte, dove non c’è soltanto appiattimento e ripetitività, ma anche il tentativo di comunicare al meglio in un tempo di scarsa recettività, di poco ascolto o di ascolto selettivo, in un tempo nel quale tutti siamo abituati allo zapping nevrotico (girare canale appena qualcosa non ci aggrada) e incalzati dall’agenda delle mille cose da fare: sì, a volte anche durante la Messa. Per questi e altri motivi, la predica, detta più propriamente «omelia», sta diventando un genere comunicativo sempre più difficile da praticare, e non è un caso che nell’ultimo Sinodo dei vescovi dell’ottobre scorso sia stato richiesto un «Direttorio sull’omelia», praticamente un testo guida che indichi al celebrante come meglio regolarsi.

Personalmente penso che, essendo l’omelia una modalità comunicativa, sia determinante la prospettiva nella quale il predicatore si pone: si potrebbe dire che oggi è del tutto fuori luogo la figura del predicatore centrato su se stesso, malato di protagonismo e con la fastidiosa tendenza di recitare la parte per sedurre un pubblico sempre più distratto; così come non è sufficiente la figura del predicatore tutto centrato sull’omelia, vale a dire sui contenuti e sui concetti, quasi prescindendo dalla loro comunicazione. Ai nostri giorni si richiede piuttosto un predicatore centrato sul destinatario, non nel senso di adattamento e tantomeno di cedimento dei contenuti a mode correnti, ma nel senso di mettersi nei panni degli ascoltatori. Se questi non sono «ascoltati» da chi tiene l’omelia, di fatto sono già messi nelle condizioni di non poter ascoltare.



Matrimonio, comunione di due libertà


«In questi giorni mi è capitato di leggere per caso, su un settimanale, la lettera di un uomo preoccupato perché la sua fidanzata continuava a ripetergli che lui “rappresentava tutta la sua vita”. Nella risposta, lo psicologo sosteneva che questo atteggiamento, in un certo senso, poteva nascondere tratti di immaturità. Francamente sono rimasta un po’ stupita: penso sia normale che quando due persone si amano si vivono come reciprocamente indispensabili. In fondo, lo dice anche la Bibbia, parlando del matrimonio: “E i due saranno una sola carne…”».

Lettera firmata
 

Penso valga la pena fare un passo indietro e soffermarsi per un momento sul significato di «amore», consapevoli del fatto che non è facile, soprattutto oggi, darne una definizione univoca, a fronte delle molteplici deformazioni, inquinamenti, precomprensioni a cui questo sentimento è sottoposto.

Che cos’è dunque l’amore? Innanzitutto è impegnare la propria vita perché l’altro possa essere veramente se stesso. Detto in estrema sintesi, è volere il bene dell’altro. «Amare è servire – scrive Erich Fromm ne L’arte di amare, uno dei libri più venduti del XX secolo –. Quando mi pongo di fronte a una persona posso considerarla da due punti di vista. Posso tener conto della sua realtà, di ciò che è. Ma posso anche fare attenzione prevalentemente a ciò che può diventare. In ogni persona, per quanto limitata possa essere, esiste un “io” profondo che chiede urgentemente di essere realizzato. Amare una persona significa mettersi al servizio di questo “io” per aiutarlo a realizzarsi. Amare vuol dire chiamare l’altro all’esistenza, farlo vivere, farlo essere di più». Queste parole, scritte con un taglio psicologico, ci dicono qualcosa di importante anche a livello di fede. C’è un progetto di Dio su ogni uomo e donna; amare significa scoprire, rispettare, sostenere e promuovere questo progetto. Proprio il contrario di quanto noi cerchiamo spesso di fare: cioè condurre l’altro dentro i nostri progetti, i nostri orizzonti, senza valorizzare la sua originalità. Quel passo della Genesi («…e i due saranno una sola carne») non va dunque letto alla stregua del mito della fusione romantica, dove l’altro viene assorbito per diventare parte del proprio mondo. La realtà non è così, o non dovrebbe essere così, perché la maturità dell’amore consiste nella comunione di due libertà, nel dialogo, nel confronto, nella convivialità delle differenze. Il matrimonio è infatti comunione di due persone che rimangono diverse, che si amano restando diverse, che si amano perché diverse. Ogni tentativo di catturare il mistero dell’altro è soltanto violenza, possesso, in definitiva mancanza di vero amore.



Contro il dolore inutile


«Da anni sono alle prese con una malattia che mi provoca dolori fortissimi e che mi costringe a continui ricoveri ospedalieri. Dal primo gennaio non sarà più mutuabile il farmaco che mi consentiva di alleviare le mie sofferenze. Potrò prenderne un altro che costa, però, 59 euro. Le faccio notare che percepisco una pensione di appena 400 euro. Perché, caro direttore, in un Paese libero e democratico non si dà una buona volta ascolto a chi il dolore lo sperimenta sulla propria pelle?».

Lettera firmata

Il problema del dolore, e con esso dell’alleviamento della sofferenza, è ancora trascurato sia nella società che in ambito ospedaliero. Eppure il potere invalidante del dolore è ampiamente riconosciuto. La sua cura, quindi, non è soltanto un dovere etico, ma anche l’esempio di una buona pratica clinica. In Italia nove ricoverati su dieci accusano sofferenza, eppure meno di un terzo riceve cure per alleviarla. Va detto che esiste una rete di «ospedali contro il dolore», purtroppo ancora troppo esigua rispetto alla domanda reale. E così, nelle nostre strutture sanitarie, si continua comunque a soffrire anche quando questa sorta di «malattia nella malattia» potrebbe essere, invece, mitigata.

Nonostante i progressi realizzati negli ultimi decenni nel campo della lotta alla sofferenza, le statistiche ci dimostrano come il dolore venga ancora considerato quasi un obolo da pagare per poter guarire. O, peggio, una parte imprescindibile del «quotidiano», che lo fa diventare, per questa ragione, sottostimato e trascurato.

Un corretto trattamento del dolore rappresenta, invece, un intervento di primaria importanza per promuovere il benessere dei ricoverati, ma non solo. Una sofferenza intensa e continua, anche quando non è associata a una malattia terminale, per la quale entrano in campo altre tematiche che non si possono esaurire in poche righe, ha un impatto assai pesante, in termini di costi sociali, sull’attività lavorativa, sulla vita affettiva, sulle relazioni familiari e, più in generale, sulla qualità della vita. Senza trascurare l’aspetto economico: prescrivere subito le medicine adatte consente di realizzare considerevoli risparmi.

Affrontare, allora, in maniera appropriata questo argomento significa mettere in moto azioni tese a cambiare una cultura che troppo spesso si rapporta al dolore con un atteggiamento fatalistico, considerandolo per lo più come fatto ineluttabile con il quale bisogna imparare a convivere. Occorre invece dare nuovo spazio alla qualità di vita dei malati. Anche controllando il dolore, come nel caso dell’utilizzo di cure «palliative», aggettivo che non significa «inutili», bensì, come indica la radice etimologica latina, «protettive». Proprio come stabilito dall’Oms (Organizzazione mondiale della sanità), secondo la quale l’obiettivo di tali cure altro non è che «il raggiungimento della migliore qualità di vita possibile per i malati e per le loro famiglie».
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017