La più bella avventura
Fin da giovane sapevo bene chi fosse don Primo Mazzolari perché mio padre me ne parlava come di un prete di gran cuore e intelligenza, capace nei suoi quaresimali di incantare e scuotere la gente che gremiva la chiesa. «Un prete dalla parte dei poveri» aggiungeva sempre. Infatti, quando nel dopoguerra a Gambara – mio paese natale, nella bassa bresciana – il predicatore era don Primo, molti braccianti ritardavano l’inizio del lavoro nei campi, e capitava che piccoli e grandi proprietari terrieri facessero la loro comparsa per ascoltare la sua voce forte nel timbro e rigorosamente evangelica nei contenuti. Non a caso, dopo molte disavventure che lo videro sospettato da parte della Chiesa, incontrandolo nel febbraio del 1959 papa Giovanni XXIII lo definì «la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana». Fu un incontro provvidenziale, che riabilitò a poche settimane dalla morte – avvenuta il 12 aprile dello stesso anno – una figura di sacerdote tra le più originali del XX secolo. Don Primo apparteneva inequivocabilmente alla categoria dei profeti purosangue, come anni più tardi ebbe a dire Paolo VI: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti».
A cinquant’anni dalla scomparsa di don Mazzolari, voglio ricordare questa singolare figura attraverso uno degli scritti che maggiormente la rappresenta: La più bella avventura. Sulla traccia del «prodigo», del 1934. Il sottotitolo rimanda al tema sviluppato dalla parabola di Luca al capitolo quindici: comunemente conosciuta come Parabola del figlio prodigo, nella recente traduzione della Bibbia curata dalla Conferenza episcopale italiana viene presentata come Parabola del Padre misericordioso. Il suggestivo titolo, La più bella avventura, dice l’esperienza che fa del cristianesimo una religione della confidenza e dell’abbandono: gettarsi nelle braccia del Padre è sempre possibile, da qualsiasi lontananza (di peccato, di trasgressione, di indifferenza) si provenga.Ma veniamo al libro, che segue l’andamento della parabola forse più conosciuta e commentata, un testo particolarmente adatto al tempo quaresimale che è da poco iniziato. Al centro sta la casa del Padre, un luogo che è tutto fuorché una prigione: è infatti luogo di libertà, di scelte, di passioni, di fughe magari sbattendo la porta, di ritorni impensati, ma anche di tradimenti consumati senza muovere un passo da lì, di diserzioni del cuore. Non c’è solo chi sbaglia perché se ne va, c’è chi resta cullandosi nell’autoglorificazione e non risparmiando critiche feroci ai fratelli, e che, ritenendosi già meritevole, non può di fatto assaporare la misericordia del Padre. Anzi, di più, il fratello maggiore, quello che non ha mai abbandonato la casa paterna, è colui che più dubita che l’amore del Padre possa renderlo davvero felice: lamenta di non aver ricevuto «un capretto per fare festa con gli amici», neppure sfiorato dal sospetto che in casa tutto è suo.