L’America, l’integrazione e il Marocco

In sei giorni di permanenza negli Stati Uniti ho incontrato solo due persone disabili. Che vengano considerate, come in Marocco, doni divini da preservare e quindi da nascondere?
25 Febbraio 2009 | di

 Dal 3 al 6 dicembre 2008 si è tenuto a Nashville, in Tennessee, un convegno internazionale organizzato da Tash (un’associazione internazionale di persone con disabilità, dei loro familiari e di professionisti che si battono per una società in cui l’integrazione di tutti sia la norma e non l’eccezione) incentrato sul tema: «Social Justice in the 21st Century» (credo non ci sia bisogno di traduzione…). Erano stati invitati rappresentanti provenienti da tutto il mondo per discutere e confrontarsi sulle politiche e le pratiche di integrazione sviluppate da ogni singolo Stato. Integrazione nell’ambito scolastico, lavorativo, sociale e culturale. Per rappresentare l’Italia e tracciare un quadro della situazione nel nostro Paese, siamo stati invitati io e Federica Bartoletti, assistente di Andrea Canevaro, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna e vero precursore in materia. Insieme a me, sempre del Centro Documentazione Handicap di Bologna, c’erano Sandra Negri e Roberto Parmeggiani, miei quotidiani colleghi di lavoro. Sono stato lì troppo poco per apprendere un inglese fluido e convincente, altrimenti vi avrei deliziato con un articolo scritto in quella lingua...

Mi è comunque difficile rendere conto di tutte le suggestioni e gli stimoli ricevuti, sia di quelli provenienti dal convegno sia di quelli che venivano dalla città stessa, Nashville, patria della musica country. Vorrei però dirvi una cosa: essendomi potuto confrontare con altre esperienze, mi sono sentito onorato e privilegiato di appartenere a un Paese che, negli anni, ha sviluppato l’idea di integrazione più complessa, profonda e articolata al mondo. Forse solo la Norvegia ci assomiglia, dal momento che da qualche anno ha intrapreso iter legislativi che avvicineranno le sue politiche alle nostre. Erano conoscenze e convinzioni che già avevo, il convegno le ha rafforzate. A conferma della nostra leadership in questo campo, mi piace sottolineare l’entusiasmo incredulo con cui è stato accolto il nostro intervento che ha cercato di affrontare la questione da un punto di vista più culturale che normativo, legale, giuridico e politico. Anche se la cultura è sempre, in un certo senso, politica e forse questa non può esistere senza la prima. Chi ha memoria ed esperienza delle battaglie combattute per arrivare fin qui, credo capisca bene cosa intendo. Da ultimo, una nota di colore. In America tutto è accessibile. Sapevo che gli americani si contraddistinguono per un certo pragmatismo nell’affrontare i bisogni delle persone con disabilità: ad esempio, sono specializzati in tutte quelle forme di ausili tecnologici che facilitano la comunicazione, e non solo. È anche vero che città ed edifici sono molto più recenti dei nostri, e meno legati a vincoli urbanistici di vario tipo, per cui intervenire e restaurare nel senso dell’accessibilità è di certo meno complicato.
Anche a Nashville ho potuto constatarlo: scivoli ovunque e al posto giusto (se c’erano da un lato della strada, c’erano anche dall’altro…), bagni sempre adatti alle esigenze e all’autonomia delle persone con disabilità, locali nei quali ci si può muovere agilmente. Eppure in sei giorni di permanenza avrò incontrato due persone disabili in tutto. È un Paese molto diverso dall’Italia, dove abbiamo una certa abitudine, quantomeno visiva, alla presenza in pubblico di disabili. Che vengano considerati, come in Marocco, doni divini da preservare e quindi nascondere? Ma di questo parleremo un’altra volta. L’intervento del rappresentante del Marocco mi ha fatto venire in mente tante cose che ci riguardano da vicino. Più di quanto possiate pensare. Stando così le cose, il motto di Obama Yes, we can è quanto mai appropriato. Che ne dite? Scrivetemi a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017