Lettere al direttore
24 Marzo 2009
|
LETTERA DEL MESE
La «pillola del giorno dopo» e la RU486: che cosa sono? Come funzionano?
A quali rischi espongono la donna?
A quali rischi espongono la donna?
L’aborto in pillole non può essere banalizzato
«Gentile direttore, mi capita spesso di leggere sui giornali articoli che parlano della pillola del giorno dopo e dell’altra pillola, la RU486. Siccome il dibattito attorno a questi farmaci è acceso ma molto confuso, mi può spiegare che cosa realmente sono, come funzionano e perché la Chiesa è contraria al loro impiego?».
Lettera firmata
Gentile lettrice, non si meravigli del senso di confusione riguardo a questa materia: essa è di per sé complessa, sia per le conoscenze tecniche che implica sia per le contraffazioni del linguaggio cui è soggetta al fine di mascherare la verità. Qui cercherò, con uno sforzo di semplificazione e di chiarezza, di rispondere alla sue precise domande.
Con l’espressione «pillola del giorno dopo» si indica un trattamento farmacologico a base del progestinico levonorgestrel che, somministrato entro le 48-72 ore da un rapporto sessuale non protetto (e seguito da una seconda dose a 12 ore), mira a impedire l’insorgere di una gravidanza. Benché permangano alcune incertezze circa il meccanismo di azione, studi sperimentali dimostrano che, oltre a poter ostacolare l’ovulazione, il farmaco altera i livelli ormonali che presiedono all’accrescimento dell’endometrio uterino, rendendo impossibile l’annidamento dell’embrione e causandone la morte. Pertanto non si tratta di un contraccettivo che impedisce il concepimento, ma di un «intercettivo» che agisce anche a fecondazione avvenuta. Ciò non significa che ad ogni assunzione consegua la soppressione di un essere umano nelle fasi iniziali della sua esistenza, perché «non sempre dopo il rapporto sessuale avviene la fecondazione. Si deve notare, tuttavia, che in colui che vuol impedire l’impianto di un embrione eventualmente concepito, e pertanto chiede o prescrive tali farmaci, l’intenzionalità abortiva è generalmente presente» (Dignitas Personae, 23).
L’RU486 o mifepristone è, invece, un «contragestativo» che, somministrato nei primi cinquanta giorni di gravidanza, agisce bloccando i recettori del progesterone, l’ormone prodotto dal corpo luteo presente nell’ovaio e che svolge un ruolo centrale nei primi due mesi di gravidanza. A ciò consegue lo sfaldamento e il sanguinamento dell’endometrio fino al distacco e alla soppressione dell’embrione appena annidato. Pertanto, correttamente può essere chiamato «aborto chimico», in quanto costituisce un’alternativa a quello chirurgico e, come questo, dovrà essere sottoposto alla legislazione sull’interruzione di gravidanza, se malauguratamente dovesse essere introdotto anche in Italia. Sotto l’aspetto medico, questa metodica – solitamente presentata come «sicura, conveniente e discreta sul piano della privacy» – comporta frequenti complicazioni e non lievi rischi, fino alla morte della gestante, accertata in almeno sedici casi nel mondo.
Confortata dalle più recenti scoperte scientifiche sull’inizio della vita, la Chiesa «riconosce che l’embrione umano ha fin dall’inizio la dignità propria della persona» (Dignitas Personae, 5) e ciò impone che esso sia rispettato come ogni altro essere umano, senza violazione della sua incolumità o discriminazione in base a sue caratteristiche particolari. Pertanto, l’uso di mezzi di intercezione e di contragestazione che, come si è visto, comportano la soppressione deliberata e diretta di un essere umano nella fase successiva al concepimento, rientra nella valutazione gravemente immorale dell’aborto. Inoltre, sul piano culturale, la disponibilità di «pillole abortive» contribuisce a rafforzare il tragico processo di banalizzazione della scelta abortiva e ad aumentare il senso di solitudine della donna, sempre più abbandonata a se stessa di fronte alla responsabilità genitoriale. Per questo, la chiara condanna di ogni attentato alla vita umana nascente deve sempre essere accompagnata dall’azione di educazione alla sessualità e di sostegno alla maternità a rischio, per diffondere efficacemente il «Vangelo della vita».
Di generazione in generazione, di mano in mano
«Desidero comunicarvi che trovo la vostra rivista davvero interessante e unica: ben si distingue dalle tante – sempre a carattere religioso – che ho avuto modo di leggere. Apprezzo in particolare la scelta degli argomenti e il modo in cui vengono trattati, mai banale o retorico, ma utilizzando un linguaggio moderno. Devo dire che io, da figlia, ho scoperto il vostro “bollettino” proprio grazie a mia madre che ora è morta, all’età di 94 anni. Lei aveva un altro tipo di approccio rispetto al mio, comunque sempre molto positivo; per questo all’inizio mi aspettavo un prodotto omologato a certi standard che, in verità, non mi hanno mai coinvolta più di tanto. Con mia sorpresa, invece, ho apprezzato da subito e sempre più questa lettura che ora è diventata per me irrinunciabile. Intendo perciò continuare a sottoscrivere l’abbonamento, ma sempre a nome di mia madre, in suo ricordo. In segno di riconoscenza per la preziosa eredità di fede che ha saputo darmi».
Lettera firmata
In tempi di scollamento sociale, in cui ogni generazione sembra andare per conto suo senza riconoscere l’esistenza di un prima (da dove provengo?) e di un poi (c’è o non c’è un destino che ci accomuna?), ho apprezzato particolarmente la sua lettera nella quale esprime il legame tenace con la memoria della madre morta da poco, insieme alla volontà di continuare – nel solco di una scelta ritenuta significativa – a sottoscrivere l’abbonamento a questa rivista. Non è la prima, naturalmente, che desidera perpetuare la tradizione di famiglia o di coppia senza cambiare nell’intestazione il nome della persona cara, spesso unica, che ora non c’è più. Lo trovo un gesto di grande sensibilità, in grado di riannodare i fili della vita, di mantenere aperti canali di gratitudine e orizzonti comuni.
Quello che per sua madre era il bollettino della Basilica, magari con un bel po’ di pagine in meno, di qualche decennio fa, è ora una rivista che, accanto alle notizie sul mondo antoniano – che comunque hanno sempre la precedenza –, dà informazioni sull’attualità della Chiesa e del mondo, della società e della politica, dello spettacolo e della cultura, parlando a tutte le età. I suoi complimenti ci incoraggiano, ma soprattutto ci fa piacere la sorpresa di chi, pensando di trovarsi di fronte a «un prodotto religioso omologato a certi standard», scopre che non è così e si ricrede lasciandosi rinfrancare da una lettura piacevole che presto diventa «irrinunciabile».
Amare il prossimo senza perdere se stessi
«Caro direttore, in questo periodo mi sento depressa e avvilita. Mi sono sempre fatta in quattro per gli altri, rimanendo il più delle volte con un pugno di mosche in mano. A volte penso di essere il muro del pianto: attiro sempre persone che scaricano su di me ogni sorta di problema. Ora è l’amica in crisi con il marito che mi chiede, visto che ho un part-time, se posso tenerle il figlio in caso di necessità. Ora è mia madre che mi vomita addosso tutte le sue preoccupazioni perché ho un fratello disoccupato che si sta lasciando andare: e allora io passo le serate collegata ai siti cerca-lavoro nel tentativo di aiutarlo. Ora è il parroco alle prese con l’organizzazione dei campiscuola, in cerca di qualcuno che assista i ragazzi. “Sei sempre stata così disponibile”, dice, e mi inchioda. Alla fine mi muovo, mi organizzo tra mille sacrifici. Ma più passa il tempo, più mi sento svuotata, stanca. Eppure non riesco a dire no, a sottrarmi: mi sembrerebbe un comportamento alla Ponzio Pilato, che mi fa sentire profondamente in colpa».
Amanda ’58
Cara Amanda ammiro e apprezzo il suo prodigarsi per gli altri. L’altruismo appaga, motiva, ha un grande valore personale e sociale. Ma nella sua lettera c’è un «oltre» che andrebbe meglio analizzato: lei dice di «farsi in quattro» per gli altri, di percepirsi a volte come «il muro del pianto», di rispondere comunque alle richieste «fra mille sacrifici», e conclude dicendo di sentirsi «svuotata e stanca». Non c’è, però, una sola riga in cui lei esprima i suoi bisogni e i suoi desideri.
C’è poi un secondo «oltre» non trascurabile: se lei non risponde alle richieste, le sembra di comportarsi come «Ponzio Pilato» e si sente in colpa, come se la soluzione di tutti quei problemi dipendesse esclusivamente da lei.
A mio avviso dovrebbe cercare in se stessa un centro di gravità, cominciando a farsi delle domande, alcune per la verità scomode: perché il suo altruismo finisce con il debilitarla? Sta aiutando gli altri o cerca disperatamente di dare un valore alla sua esistenza? Non è lei ugualmente una persona bella e altruista anche se dice qualche no? Risolvere i problemi al posto di un altro, aiuta questa persona a «salvarsi» o piuttosto la deresponsabilizza, la rende dipendente? La massima evangelica «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella sua semplicità contiene una grande saggezza. Dice che l’amore per esprimersi pienamente non ha bisogno di un «oltre», di andare cioè al di là delle proprie possibilità. Il vero amore verso gli altri è il dono dell’autonomia; il vero amore verso se stessi è concedersi l’opportunità di non essere perfetti, di non essere a tutti i costi «oltre». Dentro tale logica è lecito pensare che è proprio questo tipo di amore, rispettoso del proprio io, a rendere autentico e appagante anche l’amore per gli altri.
Stupro: è tempo di rialzare la testa
«È successo anche a me, tanti anni fa. Ma riesco a dirlo solo ora, dopo aver ascoltato, negli ultimi mesi, i racconti degli stupri che così frequentemente avvengono nel nostro Paese. Sono tante le donne a cui capita: esci una sera in compagnia, bevi un po’ più del solito, e ti ritrovi sfregiata a vita, magari da quell’insospettabile amico che si era offerto di riaccompagnarti a casa. E tu rimani zitta perché pensi che, in fondo, te la sei cercata: avevi esagerato con il vino, eri un po’ troppo allegra… Come se la gioia di vivere di una giovane di vent’anni fosse un motivo sufficiente per giudicarla “disponibile”. È passato tanto tempo, ma la ferita è ancora lì, perché durante tutti questi anni non ho voluto guardarla, ho desiderato solo rimuovere il mio dolore e non pensarci…».
Lettera firmata
Grazie per la sua lettera, che penso potrà aiutare molte donne che per mille motivi hanno scelto di tacere una delle esperienze più drammatiche: lo stupro. Una scelta per molti incomprensibile, ma che in realtà è abbastanza frequente. Accade spesso, infatti, che la vittima di una violenza si colpevolizzi, pensando inconsciamente di essersela in qualche modo cercata. E non serve a nulla battere e ribattere, a livello razionale, che così non è.
Purtroppo queste esperienze, anche se si tenta di rimuoverle, non si cancellano mai del tutto: possono non riemergere per anni, ma intanto sono lì, come «bestie» acquattate nell’ombra, e continuano a graffiare, offrendo alla mente materiale per costruire castelli di rancore, di durezza, di indifferenza nei confronti del dolore proprio e altrui. Piano piano ci si allontana da se stessi e dalle proprie emozioni, per non dover fare i conti con quella voragine di sofferenza.
Passando dal livello personale a quello sociale, devo dire che non condivido l’eccessiva enfasi che i media stanno riservando agli stupri. Ho la sensazione che si corra il rischio di amplificare un clima di paura tra i cittadini e la paura, si sa, non è mai una buona consigliera. Ma è anche vero che parlarne apertamente (evitando però l’insistenza morbosa di alcuni media che si nutrono dei drammi altrui, con incursioni poco professionali nei sentimenti privati delle vittime) può aiutare donne che, come lei, si sono sentite per anni sole, non comprese, depositarie di un segreto inconfessabile, a riacquistare fiducia. Oggi fortunatamente anche la sensibilità sociale nei confronti di chi subisce uno stupro è cresciuta. Sono aumentati i centri antiviolenza, e le donne violate non vengono più guardate come un tempo, quando cioè lo stupro era prima di tutto un’onta, una macchia, un disonore: questo è anche il primo significato della parola latina stuprum, che sembra chiamare in causa solo la donna e caricarla di una colpa.
A lei comunque suggerisco, quasi sottovoce per rispetto al suo dolore, di prendere il coraggio a due mani e di affrontare il problema: ne parli con uno specialista (uno psicologo, uno psicoterapeuta…) che la aiuti a rielaborare la terribile esperienza, e poi con il parente più caro. Deve farlo per se stessa. Non permetta a chi le ha fatto del male tanto tempo fa di continuare a rubarle la vita. È tempo di «attraversare» questo dolore e di rialzare la testa.
Parrocchia tra attivismo e disattivazione
«Caro direttore, vorrei avere da lei un parere. Io e mio marito, entrambi trentenni, siamo sempre stati molto attivi in parrocchia, sin dall’adolescenza. Ora abbiamo due figli, un lavoro e, per forza di cose, il tempo da dedicare alle attività parrocchiali si è ridotto. A causa di questa nostra scelta, però, dobbiamo affrontare quasi settimanalmente infinite discussioni con il parroco. Lui infatti ci vorrebbe, non dico ogni sera, ma comunque troppo spesso – almeno per i nostri ritmi familiari –, a disposizione: vuoi per animare il gruppo battesimi, quello liturgico o, ancora, la caritas. Noi, invece, pensiamo che ora il luogo nel quale siamo chiamati a vivere e testimoniare il nostro essere cristiani sia prima di tutto la famiglia…».
Aldo e Francesca
Nulla da eccepire. Mi sembra che abbiate le idee chiare sul da farsi, e che la decisione sostanzialmente sia già stata presa, anche se poi dovete sopportare qualche rampogna da parte del parroco. Probabilmente anche lui ha i suoi grattacapi, e fa fatica a districarsi nello slalom serrato tra impegni, appuntamenti, richieste di ogni tipo da parte dei parrocchiani e non solo: ormai le parrocchie sono bersagliate dai nuovi professionisti della questua, sempre molto esigenti. Insomma, il prete è uomo di tutti e molto spesso di nessuno, per cui quando trova anche un piccolo appiglio di disponibilità forse si allarga un po’, col rischio di esagerare. Tenendo conto, comunque, che ogni invito a esercitare la gratuità del servizio ha sempre qualcosa di esagerato e che quindi ognuno deve poi fare i conti con le proprie risorse di tempo, bene che notoriamente scarseggia.
L’intuizione che la famiglia sia luogo concreto nel quale vivere e testimoniare come coppia, innanzitutto in rapporto ai figli, il proprio essere cristiani, è assolutamente corretta. Se però la famiglia, come dicono autorevoli documenti, è una piccola Chiesa, un vero e proprio «santuario domestico» nel quale si custodisce e si promuove la vita – la qual cosa esige grande dedizione e risucchia buona parte delle energie a disposizione –, ciò non significa che essa possa totalmente sottrarsi alle dinamiche della comunità cristiana nel senso più ampio. Se così fosse, passerebbe l’idea che la parrocchia è affare di bambini, adolescenti e al massimo giovani, mentre quando poi ci si sposa e si mette su casa si cambia giro. La vita vera, quella degli affetti e degli impegni di lavoro – secondo questa logica – avrebbe poco a che fare con un cristianesimo fatto di volti, relazioni, incontri, cammini di crescita, e la vita adulta verrebbe privatizzata e resa in qualche modo estranea al contesto precedente, quello parrocchiale appunto.
Cari Aldo e Francesca, quest’ultima ipotesi non vi riguarda, perché le domande che avete posto se le fanno i cosiddetti «superimpegnati», quelli come voi, che alla fine non riescono a dire di no e si fanno in quattro sia per la famiglia che per la parrocchia. Anch’io, come il vostro sacerdote, mi sono un po’ allargato con il discorso.
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017